ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND – Got Soul

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ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND – Got Soul (Dare Records/ Sony Masterworks 2017)

Nel panorama delle uscite a cavallo tra rhythm’n’blues, soul, funk rock, il disco di Robert Randolph è sicuramente quello che racchiude le maggiori influenze e di conseguenza che esprime tutte le contaminazioni dei generi suddetti, incluso certo rock sudista così distante dalle radici newyorchesi del titolare. Partendo dal gospel strumentale che il nostro aveva cominciato a suonare con la sua pedal steel nelle chiese, la musica della Family Band si è evoluta, allargata, adora jammare, tanto che nelle serate dal vivo i brani si confondono l’uno con l’altro, tutti i componenti del gruppo diventano cantanti e viene fuori anche tutto quello spirito hendrixiano di cui Randolph e parenti fin da subito sono stati identificati come latori e discepoli.

In studio le cose cambiano un po’, nel senso che i brani sono più definiti, il sound è studiato a tavolino e questo settimo disco della formazione (il quinto in studio) pare essere, per ora, il più interessante, il più maturo, pur ricalcando ampiamente la struttura dei suoi predecessori nell’uso di guest vocalist e di inserire cover d’autore nelle scalette a base di composizioni originali.

Il cugino Marcus siede ai tamburi e la sorella Lanesha fornisce le backing voclas con Candice Anderson, Stevie Ladson e Johnny Gale, l’hammond è affidato alle dita sapienti di Raymond Angry e il basso è opera di Derrick Hodge che però non fa parte della Family Band on stage.

Il lato A della versione in vinile (uno spettacolare gatefold con una bella foto di Randolph elaborata al computer) si apre con un medley tra la Got Soul, la title track, e She Got Soul, la band stantuffa e offre subito spunti al leader per i suoi ricami a base di pedal steel. Due composizioni un po’ routinarie per la verità, ma comunque buone per aprire le danze. A cantare con Randolph, nel secondo dei due pezzi troviamo il cantautore e produttore Anthony Hamilton.

Il decollo vero e proprio di questo LP arriva con la terza traccia, l’hit single dischiarato dallo sticker apposto sul cellophane, Love Do What It Do, l’amore fa quel che fa, e la voce solista è quella di Darius Rucker che contribuisce a far volare il brano lasciando libero Randolph di librarsi con la sua pedal steel divincolandosi tra le trame tessute dall’hammond. Shake It è un altro buon brano originale con la band che pompa alla grande prima di lanciarsi tra le raffinatezze soul di I Thank You, a firma Hayes-Porter, che era stata un successo per Sam & Dave. Qui è l’ospite Corey Henry che duetta alla voce con Robert e rileva l’hammond dalle mani di Angry. La versione è molto riuscita ed il brano splendidamente rivestito a nuovo. La chiusura della prima facciata è affidata alla breve perla strumentale Heaven’s Calling, una specie di dimostrazione di che voce possa venir fuori dallo strumento del titolare, qui molto dalle parti dei due dischi incisi col quintetto The Word (con i fratelli Dickinson, John Medeski e il bassista Chris Chew).

La seconda facciata del disco è, se possibile, ancora più energica, molto robusta, nell’iniziale Be The Change hanno spazio per cantare non solo come coristi anche Lanesha e Johnny Gale, Find A Way è un ottimo brano dalla struttura elaborata che sembra finire in un altro brano, purtroppo sfumato, in cui l’atmosfera si rallenta, probabilmente per riesplodere come accade nei concerti del gruppo di solito. I Want It è dinamite, Randolph paga pegno a Jimi Hendrix nel riff del brano e tutti i cantanti ci danno dentro mentre oltre alla pedal steel del leader troviamo anche l’elettrica di Eric Gales.

Travelin’ Cheeba Man è forse il brano in cui si fanno sentire maggiormente le influenze di certo rock sudista, si tratta di uno strumentale dall’andatura un po’ boogie che Robert Randolph e parenti riescono domare con sapienza. Lovesick è ancora un buon veicolo per le acrobazie del titolare con la sua pedal steel, la sezione ritmica ci dà dentro come uno stantuffo.

La chiusura è affidata alla riuscitissima Gonna Be Alright, brano dalle fattezze meno muscolari e denso di quella raffinatezza che sul lato A era affidata al brano di Sam & Dave, la voce solista è quella di Steve Ladson, decisamente più soul di quella di Randolph che qui ne approfitta per dare un altro saggio di abilità duellando con l’elettrica di Gales, mentre l’organo, continua ad essere protagonista creando i tappeti su cui voci e chitarre possono camminare comodamente e morbidamente.

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