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HOUNDMOUTH – Little Neon Limelight

di Paolo Crazy Carnevale

29 gennaio 2018

Houndmouth 001

HOUNDMOUTH – Little Neon Limelight (Rough Trade 2015)

Che fine avranno fatto questi Houndmouth che avevano fatto gridare al miracolo quando all’inizio del decennio hanno cominciato a muovere i primi passi?

Le loro tracce sembrano essersi perse dopo questo, per altro piacevolissimo LP, frutto di una gran dispiego di forze chiamate in campo in loro favore, dalla label Rough Trade al produttore Dave Cobb. Un disco molto apprezzato e recensito un po’ ovunque in maniera molto positiva.

Li ho visti in azione proprio l’anno della pubblicazione di questo Little Neon Limelight uno showcase nel parcheggio dei Waterloo Records, ad Austin, ma per la verità non mi avevano colpito più di tanto, forse per via del sound poco curato. Mi hanno comunque incuriosito quel tanto da andare ad approfondire il discorso. Ed è stato un bene perché il disco è tutta un’altra cosa.

Il quartetto dell’Indiana può contare su una formazione abbastanza classica, chitarra, basso, batteria e tastiere, ma a fare la differenza sono le due voci molto diverse, quella del leader Matt Myers e quella della tastierista Katie Toupin (l’anno successivo dimissionaria, ma tutto il gruppo sembra essere sparito nel frattempo). La proposta musicale è curiosa, per essere un disco inciso a Nashville sotto l’egida di Cobb bisogna dire che è una sorpresa, non c’è nulla di nashvilliano nelle sonorità e non c’è similarità con le altre applaudite produzioni del soggetto in questione.

Gli Houndmouth sembrano brillare di luce propria, con un rock talvolta in odor di punk, tal altra sontuosamente acustico e desertico, con chitarre affilate e delle tastiere che sanno equamente prendere spunto da quelle psichedeliche di certi dischi degli anni sessanta – la stessa chitarra di Myers in più di un’occasione sembra venire dal secolo scorso – quanto da quegli organi da sottofondo imperiale del classico country-soul.

Eppure definire questo disco country soul (qualcuno lo ha fatto) è decisamente fuorviante.

Così come definirlo commerciale, è vagamente orecchiabile semmai, ma non commerciale.

Il lato A offre subito una cinquina di brani pregevoli, dal singolo trainante (che apre la facciata) intitolato Sedona, cantato da Myers, a Otis in cui la voce è invece quella della Toupin: due composizioni tutto sommato abbastanza nello stesso stile (la caratteristica del disco è quella di sfuggire però ad una definizione generale). 15 Years è un brano molto psichedelico, moderatamente garage, ruvido, totalmente differente dal successivo For No One, una perla acustica di Myers, a metà tra deserto e Dylan. Black Gold chiude degnamente questa prima parte, con una bella chitarra ed un motivo coinvolgente.

Honey Slide, con l’apertura di un bell’organo di sottofondo su cui la chitarra s’inserisce alla perfezione, è la giusta partenza per la seconda facciata, con un bel refrain a due voci; My Cousin Greg non è male, forse un po’ più di routine, una sorta di versione grezza di Bob Dylan & The Band, con Myers e la Toupin che si dividono le parti vocali, mentre Gasoline è un altro riuscito brano acustico, stavolta con la voce della tastierista e il coro degli altri soci. Bella chitarra quella che guida By God, forse il brano in cui le influenze country di Nashville e di Cobb si fanno sentire ma senza esagerare, perché comunque, a questo punto lo si può dire, il sound è proprio Houndmouth. Say It è di nuovo molto sixties, qualche reminiscenza stonesiana nel cantato, non fosse per il suono Farfisa delle tastiere, sicuramente più importante il brano con cui il disco si chiude, Darlin’, ballatona da applausi con un tappeto d’organo imponente e un andamento che rimanda un po’ (voce a parte) a Blonde On Blonde, un disco che era stato – guarda caso – prodotto proprio a Nashville quarantanove anni prima.

Peccato siano spariti dalla circolazione… ma forse sono solo in stand by…