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GRAYSON CAPPS – Scarlet Roses

di Paolo Crazy Carnevale

22 gennaio 2018

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GRAYSON CAPPS – Scarlet Roses (Appaloosa/IRD 2017)

Credo di non essere l’unico ad aver incontrato per la prima volta Grayson Capps al cinema: nella colonna sonora di A Love Song For Bobby Long, in mezzo ad altre ottime canzoni c’erano soprattutto le sue composizioni, tanto suggestive da rendere necessario il trovarne il CD. Quelle canzoni erano parte irrinunciabile del film, al pari della bellezza disarmante di Scarlett Johannson e della sofferente indolenza del personaggio di John Travolta.

Sono trascorsi anni da quella colonna sonora e dal debutto di Capps su Hyena Records, ma questo nuovo disco, l’ottavo del cantautore dell’Alabama, è diretto discendente dei temi e delle atmosfere degli esordi, prodotto come allora in tandem con la moglie Trina Shoemaker: si tratta di una raccolta di ballate elettriche a metà strada tra Lou Reed e James McMurtry, ma rispetto a Reed, Capps è un campagnolo, le sue storie sono storie da spazi aperti, non c’è posto per le metropoli nella poetica cappsiana, e rispetto a McMurtry il cantato del longocrinuto Capps è sicuramente meno monocorde. Nove composizioni dolentissime sono il bagaglio di questo Scarlett Roses, dalla title track alla conclusiva Moving On, nove canzoni venate di sofferenza e fughe. Quelle fughe da America periferica che abbiamo visto tante volte al cinema o letto nei libri: no, se cercate aria nuova, Capps non è probabilmente quanto fa per voi, niente suoni nuovi, solo ritmica nervosa e grandi chitarre devastanti che ben si adattano alla voce e alle liriche del songwriter.

Se la title track è una canzone d’addio dal riuscito giro musicale, Hold Me Darlin’ è un po’ più scanzonata, mentre la lunga Bag Of Weeds sembra la cronaca di una fuga post adolescenziale, un sacchetto d’erba, una cassa di birra, del whiskey per andare a passare qualche notte nel bosco, ma anche disperazione e musica ad alto volume nel pick-up. You Can’t Turn Around e Thankful hanno chitarre infuocate e riff dominanti, d’altra parte oltre che essere un songwriter, Capps è anche uomo del sud e ci sta tutto che le sue canzoni risentano dell’atmosfera southern rock che queste chitarre appunto le conferiscono.

Un’armonica soffiata con delicatezza e un arpeggio di chitarra acustica tessono invece le trame sonore di New Again prima che esploda lo sferragliare di Hold ‘Em Up Julie, brano in cui sembrano tornare a mordere i binari fossero i vecchi amati treni di Johnny Cash.
Il tutto a preludere agli otto minuti della devastante Taos, la canzone più drammatica del disco, forse quella in cui si evidenzia maggiormente la poetica del nostro, una lunga introduzione di chitarra, un racconto che sembra figlio della springsteeniana The River, almeno nell’idea di partenza della fuga a due (anzi quasi a tre), ma qui non ci sono le acque purificatrici del fiume. I risvolti sono un pugno allo stomaco, tanto forte da necessitare una distorta appendice sonora in odor di feedback younghiani. A nulla può la conclusiva e più ottimistica Movin’ On. La redenzione non è di questo mondo.