RIDE – Come un sogno ad occhi aperti
di Marco Tagliabue
7 dicembre 2014
Furono le labbra sensuali di Nastassia Kinski, impresse a fuoco sull’etichetta tonda del vinile, a costituire lo strano lasciapassare dei Ride per il rutilante mondo dell’indie rock d’Albione. Erano avviluppate in un bouquet cartonato di avvenenti rose rosse, la fuorviante copertina del Ride EP che, con i primissimi vagiti dell’anno di grazia 1990, portò per la prima volta il nome della band fra le grinfie di pubblico e media. Fuorviante perché il contenuto del supporto, in effetti, poco rifletteva il romanticismo del suo aspetto esteriore: quattro brani devastanti in cui melodie ora stralunate (Chelsea Girl), ora liriche (Drive Blind, All I Can See), ora semplicemente sublimi (Close My Eyes), galleggiavano indisturbate in oceani di feedback attraversati da densi miasmi psichedelici. Non ancora tantissimo, a ben pensarci, ma già abbastanza da far gridare al miracolo la lungimirante stampa d’oltremanica che, anche in tempi di magra per le chitarre com’erano quelli, non vedeva l’ora di scoprire il vassoio d’argento della next big thing. Stretti in una morsa fra il ricordo, ancora vivido, dei confetti propinati dai Jesus And Mary Chain nel loro prodigioso debutto del 1985 e l’attesa, sempre più asfissiante, del seguito che i My Bloody Valentine avrebbero dato al masterpiece d’un paio d’anni prima, i Ride si trovarono in groppa alla tigre senza nemmeno rendersene conto e, quel che più conta, riuscirono a non farsi disarcionare dai primi calcioni: i cuori in crisi d’astinenza da feedback che rifiutavano a priori i lustrini colorati del carnevale di Madchester già battevano tutti per loro.
Andy Bell, Mark Gardener, Stephan Queralt e Lawrence Colbert si erano conosciuti appena adolescenti fra i banchi dell’Art College di Banbury, provenienti dalla signorile Oxford, e, prima ancora delle pagelle, fu la monotonia di quella vita da reclusi a convincerli ad abbracciare gli strumenti: quando il guru della Creation Alan McGee li vide suonare e decise istantaneamente di metterli sotto contratto non avevano neanche vent’anni.
Dopo il primo posto nelle indie charts inglesi e il ragguardevole traguardo delle oltre ventimila copie vendute, toccò all’impronta suadente delle labbra meno famose di Pamela Bordes e ad un fitto tappeto di gialle giunchiglie primaverili il compito gravoso di annunciare l’estate ed il successore del fortunato debutto. Play EP uscì nei primi giorni di aprile e seppe fare ancor meglio del suo predecessore. Nei contenuti innanzitutto, con le dolci melodie vocali di Like A Daydream, le oscure ed immaginifiche derive psichedeliche della magnifica Silver, le accecanti cavalcate elettriche di Furthest Sense e Perfect Time, perennemente in bilico fra melodia e feedback. E nelle vendite, naturalmente, con la testa delle indie charts ed il sospirato ingresso nei top 40 delle classifiche ufficiali. Il processo di beatificazione giunse al suo naturale compimento nell’arena estiva del festival di Reading: qualcuno sorprese i loro occhi fissi sulle assi del palco e poco ci volle per farne i leader della scena shoegazer, la cui delicata e malinconica vena di autocompiacimento era, tanto per cambiare, quanto di più lontano potesse esserci dall’estetica e dal sound dei quattro Oxfordiani.
Kim Gordon si sarebbe scoperta perfino sex symbol nel vedere, qualche mese più tardi, le proprie labbra marchiare il Fall EP, mentre sulla copertina i consueti temi floreali venivano calpestati da un branco di pinguini nella tormenta. E così, mentre fuori tirava un’aria sempre più pesante e un altro Bush si preparava a scaraventare il proprio arsenale bellico contro lo stesso Saddam, i Ride partorivano un sogno con il loro capolavoro assoluto, la lunga Dreams Burn Down, soave melodia magicamente avvolta da cristalline trame chitarristiche ed improvvisi muri di feedback, regalavano splendide conferme con Taste e Here And Now, comunicavano la loro angoscia con la lunga e sinistra Nowhere, puro delirio psichico in libero vagabondaggio per gli anfratti della mente. Le onde del mare in chiusura del brano, nessuno se lo sarebbe immaginato, avrebbero custodito il segreto di un chiaro segno premonitore.
Già, perché sarebbe stata una delicata increspatura in uno sconfinato oceano carta da zucchero l’immagine di copertina del sospirato album di debutto, Nowhere: un bel colpo d’occhio nei freddi scaffali dei negozi di dischi proprio sul finire del 1990. Dopo tre EP di sconcertante bellezza i Ride erano allo zenith del proprio percorso creativo: i ragazzi ancora non lo sapevano, ma ad appena un anno dall’esordio, dopo i fasti di un’opera prima lungamente attesa e frettolosamente consumata, stavano già per imboccare la parabola discendente. Fuori, del resto, gli Happy Mondays bussavano con sempre maggior violenza: nuovi nomi, nuove note, nuovi sogni e, forse nuovi incubi…la stampa inglese, si sa, ama cambiare i propri cavalli appena dopo avergli dato l’illusione del traguardo.
Preceduto da un altro ottimo EP (Today Forever, 1991), il secondo album Going Blank Again del 1992 rivelava una band ancora in eccellente forma proseguire il discorso interrotto un paio d’anni prima fermandosi, come sempre in questi casi, qualche gradino più sotto, anche per colpa di qualche tentazione smaccatamente pop. Venne il tempo dei primi litigi e di quella che, anche in amore, viene chiamata una pausa di riflessione. Sarebbe stato Carnival Of Light, nel 1994, a segnare una tregua nelle ostilità: un album intriso della psichedelia più tradizionale, con un occhio alla West Coast classica, che avrebbe deluso i vecchi fans senza aggiungerne di nuovi. Tarantula, quarto ed ultimo album uscito nel 1996 dopo lo scioglimento della band, avrebbe fatto ancora di peggio. Forse volutamente, come mi piace sperare, con il malcelato intento di non lasciare troppi rimpianti…