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POST ROCK E DINTORNI – Il Versante Strumentale

di Marco Tagliabue

28 giugno 2015

Le Origini

E’ curioso annotare come fra gli (inconsapevoli) ispiratori di quell’estetica rock (recupero della psichedelia, della scuola di Canterbury e del krautrock; riesumazione di certi virtuosismi strumentali sotterrati dal punk; abbattimento degli schemi tradizionali della canzone a favore di una dilatazione della struttura e di una rinnovata libertà di sperimentare) che, forse per non scomodare i fantasmi ingombranti di un passato troppo…progressivo, si è furbescamente ascritta alla galassia post, ci siano le emanazioni di due gruppi seminali della scena psichedelica dei tardi anni ottanta, i Loop e gli Spacemen 3.
Gli Experimental Audio Research di Sonic Boom (Spacemen 3), Kevin Martin (God), Kevin Shields (My Bloody Valentine) e Eddie Prevost (A.M.M.) sono, più che altro, un vero e proprio supergruppo che, facendo proprie le intuizioni già sviluppate dai tardi Spacemen 3 di Dreamweapon (1990), elabora una serie di esperimenti (l’appellativo di album è forse un tantino improprio…) inquadrabili nell’ambito minimal-isolazionista più estremo: strumenti trattati e tesi fino a diventare un sottilissimo filo che si aggroviglia nei meandri della psiche; sibili e rumori, alte e basse frequenze, suoni scarnificati ed essenziali ai limiti dell’udibile. Non è più ambient e non è semplice elettronica: forse è davvero l’ultima frontiera della psichedelia.
Includere anche i Main di Robert Hampson (Loop) in questa trattazione sul rock senza parole potrebbe sembrare a prima vista un paradosso, ma l’utilizzo che essi fanno della voce, considerata al pari di qualsiasi altro strumento ed, a questo scopo, registrata ad un volume pari, se non addirittura inferiore, come parte di un corpus unico e indistinguibile, ci pare possa giustificare ampiamente la scelta. Dopo un inizio ancora nel segno dei gloriosi trascorsi (gli ep Hydra-Calm e Dry Stone Feed del 1992), i Main elaborano un sound sfrondato da ogni componente rock tradizionalmente intesa, in cui scompare del tutto la batteria e anche l’altra strumentazione, chitarra in testa, perde ogni connotazione ritmica a favore di una chiara matrice isolazionista di derivazione psichedelica ben rappresentata dai lavori della maturità: i due Firmament ep (1993 e 1994), gli album Motion Pool (1994) e Hertz (1996).
Fra i gruppi che gravitano intorno alla Too Pure, gloriosa label di tendenza in tutta la prima metà degli anni novanta per quella scena ancora poco allineata che sta a metà fra rock ed elettronica, con radici ben piantate nei fermenti migliori della new wave britannica dei primi anni ottanta ed in certe derivazioni kraute del decennio precedente, i primi a raccogliere l’eredità spirituale di Main ed E.A.R. ed a trasformarla, a loro volta, in testimone per le generazioni successive, sono i Seefeel di Mark Clifford. Nel breve volgere di una carriera repentina ma dispensatrice di semi importanti, attraverso i due album ufficiali su Warp, Quique (1994) e Soccour (1995), la band porta a compimento quel processo di appiattimento e stravolgimento di ogni significato ritmico di cui abbiamo appena celebrato i pionieri, spostando progressivamente l’asse delle proprie reiterate geometrie verso un’elettronica che ha anche Brian Eno o i My Bloody Valentine fra i propri numi tutelari. Il tutto, e qui sta la vera novità del progetto, senza dimenticare né rinnegare le proprie radici e la propria strumentazione rock, considerando anzi come la cosa più naturale del mondo l’evoluzione del concetto di canzone in un mantra ossessivo di chiara matrice elettronica.

L’asse Luisville/Chicago

Durante la sua lunga ed avventurosa traversata oceanica, quel modello compositivo che abbiamo testé celebrato come il progenitore di una nuova estetica del rock, si svuota progressivamente di ogni componente elettronica attraverso il recupero della tradizionale triade strumentale ed il ripristino di una struttura più vicina, almeno nelle sue connotazioni ritmiche, alla forma canzone. E se Albione getta il seme è l’asse Luisville/Chicago a far proliferare la pianta ed a raccoglierne i frutti, arricchendone il gusto di nuovi ed allettanti sapori. La crescente attenzione dei media, da poco orfani del grande carrozzone grunge e del suo attore principale, fa il resto in pochissimo tempo provvedendo allo sdoganamento ufficiale del post rock, alla sua esatta definizione stilistica ed alla sua completa affermazione commerciale. Dobbiamo ad onor del vero ammettere che tutto era cominciato a Luisville nel 1991, con i mai troppo incensati (da morti, naturalmente…) Slint di Spiderland, ma allora il mondo era davvero in tutt’altre faccende affacendato ed a nessuno, ma proprio nessuno, passò per la mente di spendere due parole per una delle pietre miliari della nostra epoca, condannando il quartetto ad un oblio profondo ma, per fortuna, non definitivo. A ben vedere è già tutto nei due dischi di questa band (l’altro è il predecessore Tweez del 1989): la metamorfosi dell’hard core in lunghe composizioni dalle strutture più instabili e dilatate che non sono più hard core ma non sono nemmeno rock; partiture quasi sempre strumentali o comunque cantate, magari solo parlate, in assoluto spregio alla tradizione; strutture ritmiche ora nervose, incostanti, incoerenti, ora lente, catatoniche, avvolgenti; chitarre pulite, affilate ma gentili. Sembra che tutto proceda per caso, ma tutto funziona (casualmente?) a meraviglia: uno spirito anarchico perfettamente premeditato.
E se gli Slint, anche dall’alto della loro importanza, rientrano solo marginalmente del nostro discorso, che riguarda il versante puramente strumentale, ci rimettiamo prontamente in carreggiata senza spostarci troppo dedicando un pensiero agli Aerial M, forse il più importante fra i progetti post mortem del chitarrista della band David Pajo. Nell’ottimo debutto omonimo, pubblicato dalla Drag City nel 1998, lo spirito del gruppo madre rivive attraverso sottili arabeschi di chitarra, linee semplici, pulite e sottili che si rincorrono e s’intersecano senza posa, dall’alto di una purezza che non ha bisogno di nessun altro orpello per rivelare appieno la sua magia. Accordi ipnotici e circolari che sposano minimalismo e tradizione folk in un insieme unico e di raro fascino.
Ciò che è stato negato, in termini di popolarità e riscontri commerciali ai padri riconosciuti Slint, è stato elargito a piene mani dal solito destino beffardo ai chicagoani Tortoise, i veri campioni, a livello mediatico, del movimento: un primato conquistato a suon di copertine, interviste e copie vendute che nessuno è riuscito in seguito a mettere in discussione. Curiosamente, ma non troppo, sono gli stessi Tortoise i primi a non riconoscersi in minima parte nell’etichetta –il post rock- che la stampa specializzata gli ha cucito a doppio filo (sentimento del resto comune alla quasi totalità dei gruppi coinvolti, più o meno a loro insaputa, nell’effimero movimento), ma è altresì innegabile che il combo incarna alla perfezione tutte le caratteristiche che hanno costituito il famigerato cliché: musica esclusivamente strumentale, innanzitutto, poi grandi qualità tecniche e interscambiabilità dei ruoli; composizioni più o meno lunghe strutturate in maniera che non ricalca neanche lontanamente gli stilemi della canzone tradizionale, aperte all’elettronica ed a mille contaminazioni diverse, dal jazz al dub, dal minimalismo al krautrock, dal progressive alla new wave, dalla psichedelia all’ambient… L’esplosione a livello planetario dei Tortoise avviene con il secondo album del 1996, quel Millions Now Living Will Never Die, disco dell’anno per gli argutissimi critici di The Wire, che oggi è considerato, magari a torto, il disco capitale dell’intero movimento. L’omonimo debutto di un paio di anni prima passa, invece, del tutto inosservato anche se racchiude già in sé tutti gli elementi fondanti del nuovo suono e, soprattutto, li elabora alla perfezione con impensabile maturità stilistica e compositiva: è da ritenersi, di fatto, ancora più importante del fortunato successore. Ma, è inutile negarlo, ce lo siamo comprati tutti dopo Millions, stregati da quei cinque pezzi che hanno rivelato al mondo il nome dei Tortoise. La monumentale Djed, innanzitutto, una lunga suite (una suite! Da quanto tempo non se ne vedeva una?) che incrocia buona parte dello scibile rock strizzando l’occhio anche a certe sonorità, pensiamo al trip-hop ad esempio, all’epoca molto in voga, e poi giù fino alla chiusura maestosa, solenne e misteriosa di Along The Banks Of Rivers, un incantesimo che lascia a bocca aperta. La magia purtroppo non sarà più tale già a partire dal successivo TNT (1998), influenzato più direttamente dal jazz, che comincia a conoscere momenti di stanca che saranno ancora più evidenti nei ritmi nervosi, tutti spigoli, di Standards (2000) e nelle linee melliflue e circolari, ma piuttosto inconcludenti, del recentissimo It’s All Around You (2004). Prima di abbandonare la dimora dei Tortoise solo un cenno per il progetto collaterale degli Isotope 217, sorta di appendice jazz al gruppo madre con un paio di album interessanti alle spalle, The Instable Molecule (1997) e Hodah (1999).
Spostandoci verso Luisville siamo costretti a schivare, per restare in tema con il nostro discorso, i grandissimi June Of 44, che della voce fanno uso largo e pure un tantino irriverente, ma, prendendo in prestito il loro ultra eclettico batterista Doug Scharin, figura davvero fondamentale dell’intera scena con le bacchette in una miriade di progetti, uno più interessante dell’altro, ci fermiamo un attimo dalle parti degli Him. Il debutto del 1995, Egg, resta probabilmente il loro lavoro più interessante: una cascata di ritmi che mischia, come fosse la cosa più naturale del mondo, elementi etnici, influenze jazz, psichedelia e reminiscenze della new wave più anarchica e visionaria, linee dub, voci sconnesse e chissà che altro ancora. Nei lavori successivi avrebbe preso progressivamente piede uno spirito legato alla world music ed a sonorità più calde e levigate ma mai meno che dignitose. Se pur di diversa collocazione geografica, ma di indubitabile unitarietà stilistica, meritano a questo punto una citazione anche gli Ui, i cui destini si sono del resto in più di un’occasione incrociati con quelli dei testé menzionati Him. Nella formazione degli Ui, già attiva dai primissimi anni novanta, qualcuno ha voluto riscontrare dei Tortoise ante litteram ed, in effetti, tale accostamento non è poi così ardito come appare a prima vista. Il trio newyorkese era del resto inizialmente un quartetto, e che quartetto!: due bassisti, un Dj ed un batterista e, naturalmente, la voglia di fare a pezzi la tradizione rock. Gli inizi, l’e.p. The Two Sided del 1993, sono in nome di un sound grezzo, che ha chiare radici funky ma contiene anche elementi di dub e di jazz, molto vicino a quello dei Primus migliori. Nei due lavori successivi sulla lunga distanza, Sidelong (1996) e Lifelike (1998), il processo di maturazione della band sembra seguire da vicino la parabola dei Tortoise ed il loro progressivo avvicinamento a sonorità sempre più contaminate con il jazz: il loro nume tutelare diventa il Miles Davis di In A Silent Way e Bitches Brew e, come confermerebbe il maligno, in qualche occasione sembrano addirittura surclassare i cugini più ricchi e famosi.
L’ultimo pensiero, prima di abbandonare definitivamente questo ambito geografico, è per i Rachel’s e per le loro partiture romantiche e fantasiose, molto più vicine alla musica classica che al rock d’ogni tempo, pre o post che sia. Ma, come farne loro una colpa?, si sono ritrovati in un particolare momento in un determinato luogo, hanno composto musica piuttosto lontana dal comune sentire ed, allora, eccoli qui! La loro storia continua fino ai nostri giorni, ma ci soffermeremo solo sui tre album che hanno rivelato a chi ha avuto orecchie abbastanza fini per captarne i segnali, il genio e l’originalità di questo strano ensemble. Il debutto di Handwriting (1995) ed il successivo Music For Egon Schiele (1996) sono dei piccoli capolavori di lirico intimismo, due tavolozze di colori autunnali che evocano ricordi, malinconie, nostalgie e piccoli drammi: una miriade di sensazioni personali altrimenti inconfessabili, specie a se stessi. Il terzo album, The Sea And The Bells (1996), allarga gli elementi della formazione e, di conseguenza, amplia le componenti del sound con timide incursioni rumoriste, percussioni e tentazioni minimaliste. Ma l’autunno rimane la stagione predominante e la notte continua a custodire, insieme al nostro sonno, queste piccole e misteriose storie di grandi sentimenti.

Kranky Records

Nessuna label al pari della Kranky di Chicago può rivendicare un ruolo di assoluta centralità nello sviluppo di quell’arzigogolata galassia di suoni che, per consolidata prassi, si suole archiviare nel gran calderone del post-rock. E, per meglio circoscrivere i confini che delimitano, almeno nelle sue linee di fondo, quello stile inconfondibile ormai consegnato agli annali a simbolo del cosiddetto “suono Kranky”, diremo che tale comun denominatore riunisce quelle correnti di matrice psichedelica (di una psichedelia prevalentemente eterea e spaziale), che pescano in ugual modo dal krautrock dei grandi corrieri cosmici (Tangerine Dream in testa) come dalla tradizione acustica folk e cantautorale, dall’elettronica colta come dal rock chitarristico, dalla musica per aeroporti di Brian Eno come dai ritmi della catena di montaggio dei Throbbing Gristle.
La scintilla che fece divampare l’incendio fu uno strano 7” degli allora sconosciutissimi Labradford: era la primavera del 1993 e quell’oggettino che spuntava dalle cataste di demo negli uffici di Joel Leoschke e Bruce Adams alla Cargo Distributions di Chicago ebbe il merito di dischiudere ai due le porte di un universo del tutto nuovo e di dare la spinta decisiva ai loro sogni ricorrenti di fondare un’etichetta propria. La Kranky (da “cranky”: sgangherato) nasce così, un po’ per noia ed un po’ per scommessa, ed allo stesso modo, nel novembre di quell’anno, negli scaffali dei negozi specializzati fa la sua comparsa la prima pubblicazione ufficiale della label. Prazision, album di debutto dei Labradford, è ancora oggi musica per palati forti. Lontano dalle fragili e melanconiche tessiture armoniche che ne avrebbero caratterizzato i capitoli successivi, il disco esibisce una serie di contrappunti di stampo isolazionista fra chitarra e sintetizzatore, appena sporcati da qualche lieve tentazione rumorista, fedeli alla tradizione dei corrieri cosmici tedeschi e dei loro più recenti emuli in Terra d’Albione (Spacemen 3, Main). Con il successivo A Stable Reference (1995) il suono della band smussa un po’ di asperità per approdare con l’omonimo terzo album del 1996 ad una sorta di malinconica musica ambientale per anime erranti. Una tentazione che sarà ancora più forte nei due album successivi, Mi Media Naranja (1997) e E Luxo So (1999), in cui la musica sembra tendere progressivamente verso la perfezione del silenzio in un insieme quasi immateriale che dona, secondo gli stati d’animo dell’ascoltatore, grandi suggestioni o grandi sbadigli.
In comproprietà con la label canadese Constellation, altra etichetta simbolo di questi suoni di frontiera (mentale), che meriterebbe ben altra trattazione rispetto alla citazione che le stiamo sbrigativamente elargendo, l’ensamble mutante dei Godspeed You Black Emperor! (ora Godspeed You! Black Emperor, e scusate la finezza!) è un altro dei fiori all’occhiello di casa Kranky. Il debutto sulla lunga distanza del 1998, dall’indecifrabile titolo di F#a#oo, rimane un ottimo esempio di musica senza tempo per ampie distese fisiche o mentali. La formazione aperta (almeno una decina di elementi!) dei GYBE! ci serve un piccolo prodigio di difficile catalogazione: un sound esclusivamente strumentale che pesca in ugual misura da Ennio Morricone e da Angelo Badalamenti, dai Pink Floyd di Atom Heart Mother e dai Popol Vuh di In Der Garden Pharaos. Come sempre in questi casi, l’unico consiglio davvero utile è quello di lasciarsi andare e…ascoltare per credere. Il percorso sarebbe giunto a definitivo compimento, dopo l’interlocutorio e.p. Slow Riot For The New Zero Kanada del 1999, con il mastodontico Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven (2000) ed avrebbe conosciuto inediti sviluppi chitarristici, sotto forma di vere e proprie esplosioni di psichedelia estatica e violenta al tempo stesso, nel 2002 con Yanqui U.X.O. I primi ad essere traumatizzati da una virata così brusca sarebbero stati gli stessi componenti della formazione, che avrebbero variato la propria ragione sociale con l’ormai mitico cambio di collocazione del punto esclamativo…
Gli Stars Of The Lid di The Ballasted Orchestra (1996) e, soprattutto, di Per Aspera Ad Astra (1998), costituiscono l’ideale anello di congiunzione fra la galassia post-rock e le profondità infinite degli spazi siderali che ospitavano i corpi celesti alla deriva dei Tangerine Dream di Zeit, senza dimenticare, naturalmente, un Brian Eno indiscusso nume tutelare. Lunghe e sottili rifrazioni cosmiche, appena percettibili dall’orecchio umano, che riecheggiano senza sosta nel vuoto assoluto dell’Universo: gli ultimi, disturbati segnali radio prima di abbandonarsi definitivamente al Nulla Eterno, vita o morte che sia.

Altri (assolati) lidi

Per scoprire le radici degli Scenic di Bruce Licher dobbiamo fare un passo indietro verso la gloriosa trance dei Savage Republic di Ceremonial, ma poiché ci teniamo ad essere fedeli alla nostra intenzione di parlare solo di musiche senza voce, o di musiche in cui anche la voce è musica al pari di qualsiasi altro strumento, sbrighiamo frettolosamente il nostro tributo con una doverosa citazione.
Gli Scenic si rivelano nel 1995, dopo il singolo The Kelso Run, con il debutto capolavoro di Incident At Cima, raccolta di musiche desertiche di grandissimo impatto visivo con radici ben piantate nella psichedelia storica di ambo i lati dell’Atlantico. Con il successivo Acquatica (1996), titolo decisamente fuorviante perché l’unica sabbia che continua ad essere protagonista non è certo quella di una spiaggia assolata, il sound si arricchisce, oltre che nel minutaggio, per l’introduzione di una strumentazione più ricca che in precedenza, con fiati, synth e strumenti etnici. Poi cala il silenzio e quando tutti, ma proprio tutti, sembrano essersene dimenticati, gli Scenic tornano all’alba del 2002 con un altro grande disco, l’album The Acid Gospel Experience, che sviluppa le coordinate già fissate in precedenza in composizioni di ampio respiro ed immutato fascino.
Se abbiamo trovato una Terra Santa, l’asse Luisville/Chicago, e una madre, la Kranky Records, manca solo una figura paterna per la felicità del pargolo al quale abbiamo intitolato queste pagine. E se in molti hanno recuperato addirittura il compianto John Fahey per appiccicargli l’etichetta di padre del post-rock, il merito, più che a certe ispirate pagine dei Gastr Del Sol, va soprattutto ai Cul De Sac di Glenn Jones ed alla collaborazione con il decano dei chitarristi folk per la stesura dell’album capolavoro The Epiphany Of Glenn Jones. In questi solchi le due anime si incontrano in una zona franca in cui il blues di Fahey si fonde con vapori ambient, viene sfregiato dai lampi del synth, si frantuma sotto la pressione irregolare di selve di percussioni tribali, esplode in turbinose distorsioni psichedeliche senza negarsi sparute linee d’ombra in cui pare recuperare uno spirito più tradizionale non esente da qualche elemento di disturbo. Prima di giungere al capolavoro, i Cul De Sac si erano segnalati per l’ottimo debutto di Ecim (1992) e per il successore China Gate (1996), lavori in cui il recupero del krautrock più eversivo si sposa a melodie orientaleggianti sfregiate da digressioni psichedeliche, elaborazioni elettroniche ed accenni di rumorismo.
Per chiudere il cerchio riattraversiamo l’Atlantico in direzione delle lande dalle quali era partito il nostro viaggio: questa volta però approdiamo un po’ più a nord, dalle parti di Glasgow. I Mogwai rappresentano, insieme ai Tortoise, il gruppo di punta dell’intero cartellone, almeno in termini di visibilità sui media e riscontri commerciali. Che ciò sia meritato o meno è annosa questione che lasciamo ai critici di rango o a chi, beato lui!, non ha pensieri più importanti quando chiude gli occhi in attesa di prendere sonno. Ten Rapid (1997), pur essendo una semplice raccolta dei primi singoli, ha la qualità giuste e la giusta dignità per essere considerato, a tutti gli effetti, vero e proprio album. E se è inevitabile il paragone con realtà contemporanee quali i Tortoise o i June Of 44, un ascolto più attento di quelle trame chitarristiche geometriche, di quelle lente progressioni alternate a scatti repentini, di quelle sottili movenze ipnotiche nel loro senso di distanza, rivela, in un gruppo capace di mostrare con la stessa accortezza tutti i suoi muscoli e tutta la propria dolcezza, un più ricercato gusto melodico ed una naturale attitudine psichedelica che riescono a scomodare perfino i primi Pink Floyd. Nell’ottobre dello stesso anno vede finalmente la luce Mogwai Young Team, il vero e proprio debutto della band scozzese. Nel brano di apertura del disco, Yes! I Am A Long Way From Home, una voce femminile, avvolta da una morbida poesia chitarristica in delicato crescendo, avverte che “la musica è più grande delle parole e più ampia delle immagini” e, con tale rigorosa dichiarazione di intenti, il gruppo si premura di regalarci un’opera al di fuori ed al di sopra del tempo, dei generi, delle mode. Ci sono tutti gli ingredienti di trenta e passa anni di dottrina rock in Young Team: gli anni ’60 di Velvet e Pink Floyd, i tardi ’70 dei Joy Division, gli anni ’80 dell’asse Spacemen 3-My Bloody Valentine-Sonic Youth, gli albori dei ’90 degli Slint…ma si fa prima ed è più giusto dire che ci sono i Mogwai. Un’opera prima di una maturità quasi inaudita che fa strage di cuori un po’ dovunque: impossibile del resto non rimanere ammaliati da questi paesaggi mentali immaginari, da quei voli ora tranquilli ora affannati oltre le quattro mura della propria dimora e del proprio pensiero cui è costretto l’ignaro ascoltatore. Epico è forse l’aggettivo migliore per un suono che vive di esplosioni violente e limpidi fraseggi, di dolcissime oasi di meditazione e dilanianti inferni di rumore, e che ha il suo punto di non ritorno nei sedici misteriosi minuti di Mogwai Fear Satan, in cui si rincorrono magicamente limpide progressioni chitarristiche e la dolcissima melodia di un flauto celestiale. Il successivo Come On Die Young (1999) apre la strada verso una sorta di normalizzazione del suono: spariscono quasi completamente gli elementi di disturbo, i ritmi rallentano e le atmosfere si fanno più ovattate: è un sottile senso di malinconia, assieme a sempre più evidenti reminiscenze floydiane, a pervadere inesorabilmente l’ascoltatore man mano che il tempo scandisce le dodici tracce del disco. Ma la novità principale è probabilmente l’introduzione del cantato nella title track: una chiara indicazione per il seguito di Rock Action, nei negozi alla fine dell’aprile 2001, equamente diviso fra canzoni, per la prima volta nel senso tradizionale del termine, con facili melodie, suoni carezzevoli e, soprattutto, la voce e lunghe composizioni strumentali nelle quali è immediatamente riconoscibile l’ormai classica matrice del gruppo. Il senso di disorientamento che pervade l’ascoltatore sarà in parte lenito dal successivo Happy Songs For Happy People (2003), quella che rimane ad oggi l’ultima prova del gruppo sulla lunga distanza, che segna un ritorno alle composizioni strumentali ed alle atmosfere sospese di Come On Die Young.

da LFTS n.74