New York Rock Art
di Marco Tagliabue
20 ottobre 2015
Guardare avanti è sempre stata una loro prerogativa. I Talking Heads debuttano nell’anno zero del punk rock con un album dal titolo inequivocabile. Ascoltando ’77 (Sire, 1977) è difficile però inquadrare la band di David Byrne sul carrozzone di Ramones & Co. e, soprattutto, immaginare quei quattro ragazzi pettinati e ben vestiti sulle assi del CBGB’s, veterani e protagonisti di una rivoluzione davvero poco silenziosa. Le loro canzoni pescano dalla tradizione americana, flirtano con il pop più scanzonato ma, soprattutto, cercano un contatto inedito con la musica nera ed, in special modo, con quella più danzabile. Il riuscitissimo esordio stempera la sua quarantina scarsa di minuti in una serie di confetti psicotici e minimali confezionati con gusto e competenza. Un gusto, si direbbe, superiore che sposa basi ritmiche nervose sconfinanti sovente in vera e propria isteria, punzecchiature di chitarra in salsa quasi funky, melodie oblique e accattivanti ed una voce, quella del leader, stranita ed imbambolata, fredda e distaccata ma, neanche a farlo apposta, perfettamente funzionale. Loves Come To Town, New feeling e, soprattutto, Psycho Killer sono già dei piccoli casi in città.
Quando Babbo Natale bussa alla loro porta sotto le mentite spoglie di Brian Eno, i Talking Heads allargano di fatto la formazione a cinque elementi con il nuovo membro occulto e si preparano al grande salto. Il primo atto del trittico che li consegnerà ai libri di storia, More Songs About Buildings And Food (Sire, 1978), registrato interamente a Nassau con la supervisione dell’ex Roxy Music, elimina certe asprezze dell’esordio a favore di una maggiore coesione di fondo e, soprattutto, di una completa sottomissione al fattore ritmico, verso il quale sembrano convergere tutti gli strumenti. Sarà la cover di Take Me To The River di Al Green a scalare le charts. Con il successivo Fear Of Music (Sire, 1979), cui fa da fortunato apripista il singolo Life During Wartime, la sezione ritmica, sempre più incalzante, comincia a respirare vapori etnici ed a filtrare un numero crescente di interferenze elettroniche. La strada è ormai spianata per il capolavoro. Remain In Lights (Sire, 1980), a quasi venticinque anni dalla pubblicazione, è opera sfuggente, imprevedibile, imprendibile: ammicca da un futuro imprecisato, da un domani misterioso. A noi, poveri mortali, solo l’illusione di toccarlo con un dito per scoprire che, invece, con il passare del tempo, le distanze si accentuano anziché attenuarsi. Forse perché nulla suona ancora così moderno. Sonorità terzomondiste, africane ed asiatiche in testa, si sposano alle ritmiche funky dei neri americani ed al rock dei visi pallidi in un complesso gioco di stratificazioni officiato dal Gran Sacerdote e dalle sue manipolazioni elettroniche. Oriente ed occidente si scoprono infine neanche troppo lontani, le nevrosi metropolitane ed i morsi della fame sono due facce della stessa medaglia: la globalizzazione incomincia da qui ed a nessuno passa per la testa di protestare. My Life In The Bush Of Ghosts (Sire, 1981), naturale appendice di Remain In Lights a firma della coppia Eno/Byrne, sposa elettronica, musica etnica e campioni vocali razziati per l’etere in un cut up di inaudita suggestione in cui musica bianca e nera annullano le distanze nello stesso palpito emozionale. Il futuro non è mai parso così a portata di mano.
Se depuriamo il suono dei Talking Heads dalle componenti etniche e dalle cadenze funky, lasciando immutata la sua ritmica incalzante; se esaltiamo quelle componenti minimalistiche presenti soprattutto nel primo album e sostituiamo il loro pigmalione con un altro santone della New York alternativa, il compositore d’avanguardia colta Philip Glass, arriviamo in un batter d’occhio alla corte dei Polyrock. Il gruppo, che nasce nel 1979 per iniziativa di Billy Robertson, rimane con tutta probabilità la migliore espressione di una stagione breve ma intensissima della musica newyorkese, quella della cosiddetta minimal wave, che tenta un improbabile accostamento fra minimalismo e rock elettronico di tendenza. I Polyrock dell’omonimo debutto (RCA, 1980) consegnano alla storia quello che rimane probabilmente il pezzo più pregiato dell’intera corrente: un miracolo d’equilibrio fra sperimentazione e B’52s, qualcosa di unico e travolgente nella discografia di quegli anni. Le canzoni si rivestono di ritmi frenetici, di effetti psichedelici, di un chitarrismo nervoso ed irriverente, di tappeti armonici schematici e ripetitivi, di un canto nevrastenico e pulsante. Il Sacro ed il Profano si prendono per mano e provano a fare due passi insieme: la musica colta mostra qualche smania commerciale in un equilibrio instabile ma perfetto, che già nel successivo Changing Hearts (RCA, 1981) comincerà a tendere pericolosamente, ma ancora molto piacevolmente, in direzione del mercato.
Sono ritmi, per loro stessa definizione, decisamente pazzi anche quelli dei giovanissimi Feelies, leggendaria e misconosciuta formazione di punta della new wave newyorkese di quegli anni. Il loro Crazy Rhythms (Stiff, 1980), stende sul tappeto dei ritmi frenetici e sincopati della batteria di Anton Fier gli arzigogolati dialoghi chitarristici fra gli strumenti di Glenn Mercer e Bill Million, che recuperano il suono delle proprie radici folk (Byrds in testa) per immergerlo nelle vasche ricolme d’acido di Television, Wire e Velvet Underground. Prendete ad esempio The Boy With Perpetual Nervousness, brano d’apertura e manifesto programmatico dell’intero album: la batteria secca e ipnotica, scomposta in una sorta di tribalismo metropolitano; le chitarre affilate in eccitanti arabeschi sonori: limpide, frenetiche, poi nevrasteniche fino a lambire la schizofrenia; la voce fredda e distaccata a mezza strada fra recitativo e declamatorio. Un incedere lento ma inesorabile, imperioso nella sua scarna semplicità: non una strofa né un ritornello, non una nota in più o fuori posto, tutto sembra collimare alla perfezione in senso quasi geometrico. Si potrebbe quasi parlare di math-rock se l’orologio della Storia non fosse ancora così indietro…
Approfittiamo della presenza della batteria di Anton Fier, spina dorsale e cuore pulsante del sound dei Feelies, con brevi ma gloriosi trascorsi anche nei Pere Ubu, per toccare qualche realtà di confine in cui lo stesso è più o meno coinvolto.
Anton è parte della prima e più celebre formazione dei Lounge Lizards di John Lurie, sorta di ensemble mutante che annovera per l’occasione, oltre al sassofono pungente del leader ed alla batteria del nostro, la chitarra di Arto Lindsay, il basso di Steve Piccolo e le tastiere di Evan Lurie. Lounge Lizards (EG, 1981) deve la propria magia alla severa contrapposizione fra una sezione ritmica di ordinata impostazione jazz e l’Armata Brancaleone di chitarra e tastiere, dissonante, anarchica, atonale e un po’ stracciona. Dal conflitto continuo e dissacrante fra queste due anime si sviluppano intere praterie per il sax di John Lurie, protagonista di intrepide cavalcate che si intersecano con maestria nelle intemperanze sottostanti. Persi per strada Lindsay e Piccolo, e di lì a poco anche il buon Fier, il sound della band tenderà, attraverso i continui rimaneggiamenti della formazione, a disciplinare le proprie componenti in direzione di una jazz-fusion sempre più di maniera a scapito, naturalmente, di fantasia e creatività.
Per Anton Fier, da sempre comprimario di lusso, verrà anche il momento di provare l’ebbrezza del leader con i Golden Palominos, una sorta di supergruppo nel quale il protagonista riuscirà a mediare personalità forti e contrastanti quali quelle, ad esempio, di Arto Lindsay, Fred Frith, John Zorn, Bill Laswell. Anche qui la magia dura giusto lo spazio di un album, al massimo due, prima che Fier, afflitto anche da problemi di alcolismo, perda progressivamente la sua funzione di collante e l’ensemble, senza una personalità di spicco, si riduca ad un’accozzaglia di virtuosismi senza coesione, direzione, unità di fondo e d’intenti. Ma intanto godiamoci The Golden Palominos (Celluloid, 1983) ed il suo baccanale di umori e sapori, di ritmi e cacofonie, di intemperanze e distorsioni saldamente legate dal tribalismo esagitato delle percussioni del leader. Anche se crossover è un termine che sarebbe stato d’attualità soltanto molto tempo dopo, ed in ben diversi ambiti, davvero non c’è altro modo per definire l’audacia di queste jam sessions in cui si mischiano, come se nulla fosse, vapori etnici, funk, jazz e rock’n’roll in un insieme nervoso ma perfettamente coeso.
Visto che ne abbiamo seguite le gesta fin quasi dalla culla e che ce lo siamo ritrovati tra i piedi in più di un’occasione, non possiamo almeno non citare gli Ambitious Lovers di Arto Lindsay e quella che rimane, probabilmente, la loro opera più rappresentativa, Envy (Eg-jam, 1984). Con una formazione composta, fra gli altri, da quattro musicisti brasiliani, il nostro si diverte a gettare scompiglio nei locali in della New York alternativa, con una fusion latina dissonante e dissacrante.
Ne ci possiamo dimenticare, prima di abbandonare definitivamente questi arditi territori di frontiera, dei Material di Bill Laswell. I due progetti denominati Temporary Music (Elektra, 1979 e 1981) allineano ad una solida base funk-rock elementi di elettronica e sperimentalismo colto, ma è con il successivo Memory Serves (Elektra, 1981) che il sound prende forma e sostanza (grazie anche alla presenza di Fred Frith) nella direzione di una fusion tagliente ed incisiva che incorpora, senza problemi apparenti, umori jazz e tensioni funky, prima che con il seguente One Down (Elektra, 1982) sia avviata una conversione irreversibile verso una sorta di disco music di classe.
Sono gli anni, lo ricordiamo, in cui Laurie Anderson imperversa nei salotti più o meno alternativi della città con il pluridecorato Big Science (WB, 1982), trasposizione su disco di uno spettacolo multimediale cui la Anderson lavora fin dal 1979, nel quale avanguardia e pop scoprono il matrimonio perfetto per mezzo di un uso dell’elettronica estremamente personale, fatto di atmosfere sospese, suoni sintetizzati, voci filtrate. Una lunga trance nella quale la tecnologia, fredda e distaccata, scopre di avere un cuore umano del quale nessuno sospettava. Sarà un successo milionario.
Un successo che, in tali termini, non avrebbe mai premiato una personalità come quella di Glenn Branca che, a conti fatti, ha esercitato un’influenza assoluta e determinante per innumerevoli esperienze su entrambe le sponde dell’oceano, dai Sonic Youth, figliocci riconosciuti, a certo noise degli anni novanta; dallo shoegazing (My Bloody Valentine in testa) a certe frange –quelle di impostazione più chitarristica come i Mogway- del famigerato post-rock.
Dopo le esperienze con Static e Theoretical Girls e prima di una lunga serie di sinfonie chitarristiche progressivamente numerate, Branca trova con The Ascension (99 Records, 1980) il suo personale capolavoro e con i drones chitarristici ivi contenuti, in cui stratificazioni e sovrapposizioni si susseguono con piglio quasi minimalista in un crescendo lento ed imperioso, in una marea lenta ma inesorabile, il banco di prova per mille, e ben più fortunate, esperienze successive.
Glenn Branca è anche il mentore delle Y Pants, un trio femminile legato ai circoli della New York negativa più per coincidenza spazio temporale che per effettiva affinità artistica. Vale comunque la pena di cercare il loro Beat It Down (Neutral, 1982) in cui, nella totale assenza di chitarre, la band di Barbara Ass tesse su uno scarno canovaccio funk intemperanze etniche di varia foggia e colore, ma di vago sentore afro-asiatico, percorse da un canto stranito ed allucinato. Legioni di rock band al femminile ne avrebbero mandato a memoria gli insegnamenti.
Non possiamo concludere questo viaggio attraverso il suono della New York Arty a cavallo fra gli ultimi scampoli della new wave/no wave ed i primi vagiti dell’indie/alternative rock senza passare per i Sonic Youth che, oltre ad essere la più importante ed influente band americana degli anni ottanta, costituiscono di fatto il perfetto anello di congiunzione fra i due fermenti. E’ inutile dilungarsi troppo sulla seminale band di Thurston Moore e Lee Ranaldo: lo abbiamo già fatto in un passato abbastanza prossimo (LFTS #67) e non ci sembra una buona idea, anche per rispetto del lettore, ritornare su concetti già sviscerati in precedenza. Ci corre solamente l’obbligo di segnalare, per rimanere in tema con il nostro discorso, il timido esordio del Sonic Youth e.p. (Neutral, 1982), disco molto strutturato ed ordinato, in totale contrapposizione rispetto alle coeve e distruttive performances dal vivo, figlio probabilmente di un gruppo i cui membri non si conoscono ancora abbastanza. Le tessiture chitarristiche che sarebbero diventate il marchio di fabbrica della band si sviluppano in un ambiente asettico ed un po’ troppo levigato, mostrando senza alcun timore tutto il loro debito di riconoscenza verso le sinfonie di Glenn Branca. Andrà decisamente meglio con il successivo Confusion Is Sex (Neutral, 1983), che mantiene perfettamente fede al titolo mostrando, per la prima volta, il vero volto della band. Un disco sporco ed emozionale, snervante ed alienato, che rappresenta l’incubo della metropoli in una psiche devastata: un sound sconnesso e disperato che si sviluppa attraverso fitti tribalismi percussivi e snervanti trame chitarristiche, fra gemiti, singhiozzi, sussurri ed urla. Claustrofobia allo stato puro. Con Bad Moon Rising (Homestead, 1985) i Sonic Youth trovano un punto di convergenza fra le atmosfere dei due primi dischi ed il capolavoro della loro primavera. L’anarchia sonora diventa coscienza controllata, l’Apocalisse cede il passo ad un timido risveglio: è l’alba di un futuro luminoso. Il resto è ormai Storia.
da LFTS n. 73