FreaKraut – 2. CAN

Stanno ormai già veleggiando intorno alla trentina quando, sospinti da un irrefrenabile e misterioso impulso, Irmin Schmidt e Holger Czukay, decidono di costituire una rock band per portare un po’ di sconquasso in un mondo a loro perfettamente estraneo. Siamo intorno alla fine degli anni sessanta e per i due l’età delle ragazzate è finita da un pezzo. O forse, pensandoci bene, non è ancora cominciata… Schmidt è già un affermato direttore d’orchestra: allievo di Stockhausen, di Berio e di Ligeti, è ancora fresco di un soggiorno a New York che ha sancito gli stretti legami della sua arte con La Monte Young, Terry Riley e Steve Reich e che, al tempo stesso, ha portato quasi certamente i suoi malcapitati passi nei vicoli poco ortodossi frequentati dai Velvet Underground. Czukay, vecchio compagno di corso sotto la bacchetta del professor Stockhausen, ha avuto una formazione diversa, più improntata al jazz in qualità di chitarrista della Holger Schuering Jazz Band prima di volgere all’insegnamento del pentagramma in terra elvetica. Sarà proprio un vecchio allievo di Czukay, Michael Karoli, artefice tra l’altro della conversione al rock dell’attempato maestro nel segno di qualche ascolto clandestino di Velvet, Hendrix e Zappa, a raccogliere la chitarra nell’entità nascente consentendo allo stesso Czukay di spostarsi al basso. Completeranno il quadro Jaki Liebezeit, solido batterista jazz con gloriosi trascorsi alla corte di Chet Baker, pronto a mollare un tranquillo impiego nel Manfred Schoof Group, e Malcolm Mooney, scultore nero americano di ritorno dall’India con la giusta dose di misticismo ed i favori di Buddha nelle corde vocali.

Qualche conoscenza, si sa, rende la vita meno attraente ma semplifica spesso le cose. Grazie ad un anonimo mecenate, che offre loro la possibilità di installare uno studio di registrazione in una sala del castello di Schloss Norvenich di sua proprietà, i nostri possono jammare fino ad essere sopraffatti dal sonno in piena libertà e senza l’assillo di un affitto da pagare. Sarà la maniera ideale per sviluppare la conoscenza reciproca e, magari, qualche qualità extrasensoriale che si rivelerà indispensabile nella creazione di un nuovo concetto d’improvvisazione: “Niente è pianificato, sia in studio che sul palco. Tutti nel gruppo sono telepatici. Non c’è niente di particolarmente misterioso nella telepatia, è qualcosa che riguarda ogni giorno ciascuno di noi. Come qualsiasi altra cosa, necessita di allenamento: quando raggiungi un certo livello di telepatia devi sviluppare il gradino successivo. E’ quello che io chiamo il punto critico, ed è alla base della creatività.” (Schmidt).

Il primo esito concreto di queste sessions infinite sono dieci minuti di pura anarchia sonora che prendono il titolo di Get The Can: un biglietto da visita talmente scomodo ed imbarazzante da costringere la meteora David Johnson, flautista di estrazione classica orbitante intorno al primo nucleo del gruppo, a partire alla ricerca di qualche via lattea un tantino più armoniosa. E così, punto critico dopo punto critico, il 1969 saluta la pubblicazione di Monster Movie, debutto a 33 giri dei Can. Originariamente edito in una tiratura assassina di 500 copie per la piccola Music Factory, label privata della band, e prontamente ristampato dalla United Artists, che nel frattempo ha messo sotto contratto il gruppo, Monster Movie paga pegno alla psichedelia più classica di Pink Floyd e Co., ma esprime già pienamente le linee essenziali del sound in via di definizione. Nelle cadenze ipnotiche e ossessive del lungo mantra tribale You Doo Right, che monopolizza il secondo lato all’insegna di un nuovo concetto di suite, più affine agli standard del minimalismo e del concetto di reiterazione, ma anche nei toni lirici della sublime ninna nanna lisergica di Mary, Mary, So Contrary, nelle linee scarne dell’ipnosi iniziale di Father Cannot Yell, in cui le sferzate della chitarra di Karoli fanno il paio con i registri cupi dell’organo di Schmidt in un crescendo ad alto tasso emozionale, e nei ritmi più rock della velvettiana Outside My Door.

Non lo abbiamo ancora detto, ma tutto sembra ruotare intorno alla voce di Mooney, vero e proprio raccordo per gli strumenti ed elemento trainante della band. Monster Movie sarà anche il suo testamento: la sua mente sempre più instabile e la vera e propria ossessione che la sua visibilità in quanto membro dei Can possa in qualche modo allertare le patrie Forze Armate per un richiamo in Vietnam già più volte scampato, lo costringeranno a fare armi e bagagli per tornare in America dove, riacquisita una certa tranquillità, potrà dedicarsi ad un più anonimo insegnamento nelle facoltà artistiche. Avete presente i due terribili vecchietti del film Una Poltrona Per Due che raccolgono dalla strada uno straccione per scommettere sulla sua abilità come agente di borsa? E’ più o meno quello che succede a Liebezeit e Czukay allorché quest’ultimo, seduto al tavolo di un caffè di Monaco e attratto dalle litanie offerte a chissà quale divinità pagana da un artista di strada dalle fattezze orientali, indica in lui all’incredulo amico il prossimo cantante dei Can, che saranno oltretutto in scena quella sera stessa in un club della città. Perché no? Questa sera non ho niente da fare… sarà la risposta di Damo Suzuki che, nell’esibizione serale al Blow Up, con una performance che dagli iniziali toni meditativi si trasformerà in un vero e proprio assalto contro il pubblico inerme, riuscirà a svuotare anzitempo un locale che contiene 1500 persone…: tra i 60 entusiasti che assisteranno fino alla fine del concerto la leggenda, pensate un po’, segnala anche l’insospettabile profilo hollywoodiano di un incredulo David Niven!

L’esame, naturalmente, potrà dirsi brillantemente superato e Suzuki il dono della Provvidenza che eserciterà un peso decisivo nei successivi momenti chiave della storia dei Can. Momenti che, dopo l’interlocutorio Soundtracks (1970), che merita comunque di essere ricordato, quantomeno, per la magnifica Mother Sky, assumeranno le fattezze di quel vero e proprio caposaldo dell’Arte del novecento che sarà il successivo Tago Mago (1971). Monumentale sia nella forma che nella sostanza, Tago Mago è, al pari di Trout Mask Replica o White Light/White Heat, una delle opere più innovative ed influenti della musica, non solo rock, del ventesimo secolo. Punto. Figlio della musica colta di Stockhausen e La Monte Young, ma anche della psichedelia e delle musiche etniche, del rock blues, della contemporanea e del free jazz, l’album si snoda attraverso quattro facciate che anticiperanno molte delle tendenze a venire: dalla new wave alla musica industriale, da certa elettronica alla neopsichedelia. La catarsi è lenta e graduale, comincia dalle linee, ancora amiche, di Paperhouse, sorta di folk del dopo bomba dalle atmosfere struggenti e rassicuranti, per sprofondare nelle tonalità alienate e psicotiche di Mushroom e nel raggio di sole dopo un temporale estivo di Oh Yeah. Ma la discesa agli inferi è ormai irreversibile. Halleluwah e Augmn occupano per intero la terza e la quarta facciata. La prima, con le sue linee di basso vagamente dub, con le sferzate nervose della chitarra di Karoli, con il drumming metronomico di un virtuosissimo Liebezeit, con le dissonanze vocali di uno strambo Suzuki, oltre ad essere –in sé- una grande opera di musica contemporanea, prefigura con incredibile esattezza Metal Box dei PIL, ma anche Wire, Devo, Fall, Pop Group. La seconda, agghiacciante viaggio nel delirio di una mente umana a base di soluzioni sempre più ardite ed epilettiche, in un crescendo spasmodico verso un finale caratterizzato da inserti rumoristici e di musica concreta, sarà un inevitabile terreno di prova per la corrente industrial e lascerà un’impronta indelebile su esperienze del calibro di Residents, Sonic Youth, Cabaret Voltaire. Chiudono il lavoro i vocalizzi in salsa free jazz di Peking O ed il clima più rassicurante nella nenia psichedelica di Bring Me Cofee Or Tea.

Il poco spazio che rimane ci impone di passare con un bel paio di cesoie su un altro paio di capolavori, quali i successivi Ege Bamyasi (1972) e Future Days (1973), e sul comunque più che dignitoso Soon Over Babaluma, che esce nel 1974 dopo la conversione di Suzuki al culto dei Testimoni di Geova ed il conseguente abbandono dei Can, regalando ai superstiti l’illusione di poter proseguire come se nulla fosse agli abituali, elevatissimi standard. Ege Bamyasi varca territori molto meno accidentati rispetto all’illustre predecessore e viene ricordato in particolar modo per il brano che lo chiude, Spoon, che raggiungerà addirittura il primo posto nelle classifiche tedesche grazie al traino di una popolare serie televisiva. Future Days e Soon Over Babaluma, il secondo con Karoli e Schmidt che si alternano –senza troppa fortuna- alla voce, sono lavori di fattura più squisitamente elettronica, caratterizzati da un sound più mellifluo ed etereo che, dopo aver esplorato gli abissi della pazzia, pare quasi voler riappropriarsi della quotidianità, del gusto della normalità. Esemplari, in questo senso, la suite Bel Air, che occupa il secondo lato di Future Days, e Come Sta La Luna o Quantum Physics, dal successore. Per noi solo il tempo di dire che la storia dei Can che più ci stanno a cuore finisce qui: ci sarà spazio anche per altri lavori, progressivamente più inconsistenti, e per una dignitosa reunion nel 1989 con Mooney alla voce per l’album Rite Time. Della pletora di pubblicazioni postume che scavano negli archivi della band, citiamo infine gli imprescindibili Delay 1968 (1981) e Unlimited Edition (1976), che documentano, fra l’altro, gli esperimenti pre Monster Movie.

da LFTS n.70

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