DAVID BOWIE – Intorno alla trilogia berlinese
di Marco Tagliabue
1 febbraio 2016
Innanzitutto perché, ormai per consuetudine, continuare a parlare di trilogia, se è vero che solo “Low” e “Heroes” furono realizzati interamente a Berlino, se pure la gestazione del primo avvenne probabilmente ancora in terra francese, mentre “Lodger”, che è stilisticamente agli antipodi rispetto ai suoi predecessori, fu registrato e prodotto in Svizzera? (anche se, per amor di chiarezza, bisogna ammettere che è stato in parte concepito nella metropoli tedesca). Diciamo che è quantomeno un concetto di trilogia piuttosto allargato, al quale per convenzione ci accodiamo volentieri, per quanto, a voler essere precisi, l’essenza del Bowie berlinese è nei soli “Low” e “Heroes” e, restringendo ancor di più il campo d’azione, nelle seconde facciate dei due lavori, che ospitano le pulsioni più sperimentali, più ambientali (ovvero più influenzate dall’atmosfera in cui era calato) mai scaturite dalla penna del Duca Bianco. E poi perché continuare a pensare, per una fin troppo scontata associazione di idee, che sia stato Brian Eno a produrre la trilogia, quando in cabina di regia sedeva ben saldo il solito Tony Visconti? Il ruolo di Eno ebbe sicuramente grande valore, e soprattutto nelle composizioni più “berlinesi”, parte delle quali scaturirono anche dalla sua penna, ma si limitò, se così si può dire, oltre che ad una presenza fisica dietro le sue diavolerie elettroniche durante le sedute di registrazione, ad una sorta di eminenza grigia, di fonte ispirativa per i nuovi orizzonti che si andavano delineando nella mente di Bowie. La sua “Discreet Music” già aveva fatto parlare di sé, indicando che, anche nella musica pop, un nuovo mondo era possibile. Ed a Berlino il peso della storia si bilanciava perfettamente con le aspettative per il futuro.
“Low” (RCA, 1977) offre fin dalla copertina un profilo arcigno, quasi militaresco di un Bowie pensoso, corrucciato, cappuccio sulle spalle e bavero alzato, contro un cielo arancio vivo che sembra destinato ad infuocarsi da un momento all’altro. Inutile dire che Ziggy Stardust pare sepolto sotto due metri di terra. Un album spaccato a metà, con due facciate diverse come il giorno e la notte. Ma anche il giorno è di quelli senza sole, con le nuvole basse cariche di pioggia sempre in procinto di scoppiare. Uno di quei giorni nervosi e frenetici, pulsanti e schizofrenici. Un giorno in cui tutto sembra precipitare senza scampo verso un epilogo che non era stato messo in conto. Speed Of Life è il brano strumentale che apre l’album: un ponte perfetto fra il vecchio, che è una frase allegra dei fiati sintetizzati ripetuta a mo di fanfara, ed il nuovo, rappresentato dagli intermittenti tetri fondali di tastiere che introducono ad una nuova dimensione, glaciale e marziale al tempo stesso. Breaking Glass è un brano breve, spigoloso e psicotico, non dissimile dalla successiva What In The World, che ospita la voce di Iggy Pop, nella quale una struttura più tradizionale è scossa da ritmi sussultanti e scomposti, mentre chitarre, organo Farfisa e sintetizzatori sembrano prendere direzioni diverse in una sorta di pluralismo cacofonico. Sound And Vision, singolo di successo in Inghilterra, è il brano pop dell’album, ma non sfugge ai canoni, ovvero alla mancanza di canoni, di un lavoro che fa di coraggio e disinvoltura il suo asse portante. Una lunga intro strumentale fra le linee guida della chitarra, una frase del sassofono e qualche svisata sintetica, che sfocia in strani cori e nei celebri contrappunti vocali di un canto che è per metà parlato. Il canto è un caldo recitativo anche nella successiva Always Crashing In The Same Car, una base avvolgente anche se in buona parte sintetica, con la spina dorsale delle chitarre trattate di Eno che lascia il posto ad un vero e proprio assolo nel finale del brano. Be My Wife è un brano semplice, diretto, su un ritmo pulsante e spigoloso ricco di soluzioni chitarristiche. Il cerchio si chiude sul primo lato con un altro episodio senza parole, A New Career In A New Town, in cui strumenti tradizionali e sintetici si fondono in fluide trame ipnotiche che stendono un ponte fra la sensibilità pop dei brani precedenti e le atmosfere ambient nelle quali ci si sprofonderà girando il disco. Nella seconda parte la mano di Eno si fa più pesante e Berlino diventa una presenza palpabile, incombente, implacabile, anche se la prima, memorabile traccia è intitolata a Warszawa. Imponente e dolcissima, marziale ma di una tristezza infinita, condita da incredibili vocalizzi che paiono urla di dolore destinate a rimanere inascoltate, è musica troppo grande per essere definita ambient: è l’idea di un mondo sconosciuto nascosto da una cortina d’acciaio, il battito di un cuore pulsante coperto da uno strato di ghiaccio. Inestimabile la sua influenza sulle generazioni successive: basti pensare che il suo titolo ispirò il nome della prima incarnazione dei Joy Division, i Warsaw. Art Decade sono ancora tetri fondali sintetici, disperati rantoli e riverberi spaziali: pur non possedendo la maestosità del brano che la precede, ne amplifica il senso di frustrazione e disperazione, e se ne va senza lasciare alcuna speranza. In Weeping Wall Bowie fa tutto da solo creando una sorta di mini sinfonia post industriale, fra tetre tessiture sintetiche, in un movimento solcato da dilanianti effetti chitarristici, che le pulsazioni minimali dei sintetizzatori scandiscono come un metronomo impazzito. Subterraneans chiude l’album con uno strumentale cupo, imponente, disperato, che si sviluppa fra glaciali melodie sintetiche, strane litanie vocali e malinconiche frasi di sassofono profonde e tenebrose, quasi a rappresentare una sorta di calore umano, un anelito di respiro in mezzo a tanto tormento. Un’atmosfera surreale da “Blade Runner” prima di “Blade Runner” che lascia un dubbio irrisolto sulla natura del vincitore, uomo o macchina che sia. Ma forse, a vincere, è semplicemente Berlino.
“Heroes” (RCA, 1977) è il tentativo di restituire “Low”, di cui ricalca in buona parte gli schemi, con un volto più umano, già a partire dalla posa plastica nel leggendario scatto di copertina. Ancora una facciata di canzoni ed una quasi interamente strumentale, ma un’atmosfera sicuramente meno opprimente, meno claustrofobica, meno schizoide, come se Berlino, che aveva ammantato con la sua ingombrante presenza l’intero lavoro precedente, fosse ormai metabolizzata, somatizzata, interiorizzata, quasi addomesticata, e la sua ombra lunga spezzata da qualche raggio di luce. Beauty And The Beast è all’apparenza un brano semplice e leggero, con quei coretti frivoli, nonostante una solida base ritmica quasi funk e le incredibili parti di chitarra nelle quali gli strumenti vengono filtrati, trattati, effettati fin quasi a risultare irriconoscibili. Joe The Lion segue energica e pulsante sulla stessa linea interrotta dalla fine del brano precedente, con il quale ha in comune anche un’infinità di trame chitarristiche scardinate e processate. Della disperata maestosità della title-track, per la quale ci piace ricordare l’incredibile trattamento riservato da Robert Fripp alla chitarra, non c’è poi bisogno di dire molto: ognuno la conosce e la ama a suo modo, mentre è più interessante notare come il brano successivo, Sons of The Silent Age, lento, rilassato ed atmosferico, operi quasi da camera di decompressione, a lenire l’effetto di un brano potente quale Heroes piuttosto che provare a reiterarlo. La prima facciata si chiude con Black Out, un brano concitante e febbrile, molto ricco a livello strumentale, nel quale Bowie si muove a suo agio fra i dissacranti coretti di Tony Visconti. V-2 Schneider, in omaggio a Florian Schneider dei Kraftwerk, è il brano strumentale che inaugura l’altro lato del disco, con un tema portante comunque molto lontano dalla cupa maestosità della seconda parte di “Low”. Mentre i sintetizzatori scandiscono trame ritmiche circolari, il sassofono di Bowie lancia strane frasi in apparenza disallineate e la sua voce robotica ripete a tratti la stessa frase sconnessa. Le tensioni si allentano in una struttura più aperta e giocosa. Sense Of Doubt, però, riporta tutto ad una dimensione scarna e spettrale con uno strumentale tetro, solcato da gelidi venti sintetici, in cui la tecnologia sembra cercare un compromesso con il silenzio. Moss Garden, che insieme alla successiva Neukolin si sviluppa senza soluzione di continuità dal brano precedente, quasi a costituire un’unica suite divisa in tre movimenti, è un altro ambient cupo, che sembra portare ad una stazione successiva il discorso iniziato appena prima. Solo un morbido tappeto sintetico solcato dai disperati arpeggi del koto, uno strumento tradizionale giapponese a 13 corde, mentre in lontananza, a tratti, sembra quasi di udire il latrato di un cane, forse l’unica forma di vita alla deriva in un oceano di solitudine che sembra non lasciare scampo. Neukolin, allora, chiude questo trittico oscuro squarciando la disperazione con qualche scoppio di sax, le frasi distorte della chitarra e le consuete tessiture sintetiche. Ma la scelta, questa volta, è quella di destinare all’epilogo una nota di speranza, quasi a risollevare una situazione che sembrava senza via d’uscita. E allora ecco The Secret Life Of Arabia, una canzone “normale”, vagamente orientaleggiante, fra le più leggere incise da Bowie in quegli anni, che chiama un raggio di sole, forse inutile, certamente incongruo rispetto al clima generato, ma da accettare come scelta di luce, desiderio di normalità.
E di normalità, in “Lodger” (RCA, 1979), ce n’è fin troppa. Un disco che, diciamolo francamente, non vale la metà dei due lavori precedenti, magari non tanto per demerito suo quanto per il valore intrinseco dei suoi contendenti, e di fronte al quale, per il discorso che ci interessa, non è neppure il caso di spendere troppe parole. Diciamo che Berlino, prima ancora di sparire sotto la suola delle sue scarpe era già venuta meno negli orizzonti artistici di Bowie, e che anche un’altra magia, quella scaturita da e con Brian Eno, era ormai in procinto di svuotarsi. Per quanto, paradossalmente, “Lodger” sia il capitolo della trilogia in cui il peso specifico di Eno è forse, a livello strumentale e compositivo, il più evidente, è difficile scrollarsi di dosso la sensazione che il risultato finale sia l’esito di un compromesso, e nemmeno troppo riuscito, fra i due. Ecco allora, accanto ai brani dalla struttura più canonica (Fantastic Voyage, Move On, Red Sails, Repetition), la via terzomondista di African Night Flight, spasmodica, poliritmica ed a più voci, non troppo lontana da ciò che avveniva dall’altra parte dell’oceano in casa Talking Heads ad opera dello stesso mentore; ecco la danza orientaleggiante di Yassasin (Turkish For: Long Live) condotta dal violino dell’ex High Tide Simon House, presente in molti brani dell’album, ed ecco ancora, fra gli episodi migliori del disco, la chiusura affidata a Red Money, un brano chitarristico, pulsante, con una struttura solida che trema sotto le incursioni delle sei corde. In mezzo, poi, qualche brano insipido e ballabile (DJ, Look Back In Anger) che già prefigura il Bowie che verrà: quello ancora dignitoso di “Scary Monsters” ma, soprattutto, quello sciatto e insulso di “Let’s Dance”.
da LFTS n.103