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Due capolavori del calibro di The Stooges e Funhouse evidentemente avevano dato alla testa anche a lui: nel 1972 Iggy Pop era già completamente svuotato. Aveva mandato al diavolo gli Stooges, aveva mandato al diavolo la musica e, con tutte le sue forze, stava cercando di mandare al diavolo anche se stesso. Ma Lucifero lo precedette: gli si presentò sotto le mentite spoglie di un David Bowie non ancora Duca Bianco, lo raccolse dalla strada ripulendolo dalla spazzatura che aveva addosso e fece del suo meglio per togliergli la maggior parte di quella che aveva in corpo. I due siglarono un patto che doveva essere di un acciaio tutto speciale, visto che ancora oggi, a trenta e passa anni da quel giorno, è saldo più che mai. Bowie spedì l’Iguana in Gran Bretagna insieme al fido chitarrista James Williamson, vecchia conoscenza con un breve trascorso negli Stooges, e gli finanziò la registrazione di un disco attraverso il proprio team di produzione MainMan. Improvvisamente spuntarono fuori anche i fratellini Asheton che rimediarono una tregua con il vecchio amico ed entrarono a far parte del gioco: Ron, spodestato dal nuovo arrivato, a malincuore dovette mettere a tracolla il basso, mentre Scott poté tranquillamente continuare a sfogare la propria rabbia dietro alle consuete pelli. Sarebbe stato un armistizio di breve durata: giusto il tempo di ultimare le registrazioni prima che il buon Iggy, ritornato improvvisamente in se, decidesse di rimandare tutti all’inferno saltando sul primo volo per New York. Raw Power diventò così, inaspettatamente, il terzo album degli Stooges e, soprattutto, il prologo ufficiale di un ‘77 ancora di lì a venire. Raw Power è il prodotto di una mente allo sbando, è il risultato di un degrado che è morale prima ancora che materiale: un disco sporco, tirato, arrabbiato, viscerale. Un album registrato male, cantato male, suonato male ma di una sconsiderata sincerità: anche il peccato può celare una autentica, torbida purezza. Brani grezzi e malati i cui la voce di Iggy, sempre più contorta, ritaglia difficili melodie fra fasci di chitarre lancinanti (Search And Destroy, Your Pretty Face Is Going To Hell, Raw Power, Shake Appeal), un’oasi acustica deturpata dalla sofferenza (Gimme Danger), torbide istantanee di un’apparente, convulsa rilassatezza (Penetration, I Need Somebody) e, infine, l’unico epilogo possibile: una discesa negli inferi, una sorta di autoflagellazione; la ricerca, attraverso la scarnificazione, di una rinnovata purezza (Death Trip). Un disco selvaggio ed estenuante, l’espressione più sincera del dramma psicologico e sociale della generazione che avrebbe rivoluzionato il rock. E l’attestazione definitiva del suo padre putativo: non credete a chi vi dice che il punk è nato con Never Mind The Bollocks…

da LFTS n.67

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