FreaKraut – 4. POPOL VUH

Con un nome preso in prestito dal Libro dei Morti degli antichi Maya, Florian Fricke, critico e regista cinematografico diplomato in pianoforte presso il conservatorio di Friburgo, costituisce il nucleo originale dei Popol Vuh agli inizi del 1969. Sono della partita Frank Fiedler, sintetizzatore, e Holger Trulzsch alle percussioni. Cultore appassionato di civiltà arcaiche e studioso di tematiche religiose, Fricke cerca di trasporre nella sua arte la sacralità delle proprie passioni. Una ricerca di spiritualità che non è figlia della musica classica né, tantomeno, della musica rock: sembra porsi piuttosto ad un crocevia, in un punto di osservazione privilegiato che scandaglia attraverso l’essenzialità di un suono limpido e solenne al tempo stesso le regioni più profonde dell’essere, che attinge direttamente dalla dimensione del sogno, dell’inconscio, dell’impalpabile, dell’irrazionale per spiccare un volo verso l’alto, per tentare il contatto con un’Armonia Superiore.

 

 Un anelito che, pur presente, trasuda ancora a stento da Affenstude, l’album d’esordio dei Popol Vuh pubblicato nel 1971 e troppo comodamente affiliato alla nascente scuola cosmica di Tangerine Dream e Klaus Schulze, ma che libera con decisione la propria forza fin dal successivo In Den Garten Pharaos (1972). Il Giardino Dei Faraoni reca il peso, il mistero e l’inquietudine di una storia millenaria scandita attraverso riti ancestrali, d’antiche divinità che attendono al dogma della creazione, di una natura incontaminata che ne cadenza le tappe con l’armonia dei propri suoni. La title-track, che occupa la prima facciata con i suoi 17’39”, si libera lentamente tra lo scrosciare dell’acqua: un filo di moog si attorciglia nei sensi dell’ascoltatore fino al sopravanzare di un fitto tappeto percussivo; ma il processo di purificazione giunge a compimento poco più avanti, sulle note paradisiache di un piano Fender che volge fin quasi alla fine, prima di essere restituito al silenzio dagli stessi rigurgiti d’acqua che proprio dalla quiete lo avevano strappato.  Ma è Vuh, sul secondo lato, a togliere il fiato e spingere il cuore in gola. 19’58” scanditi da un gong e da un unico, immane ciclo continuo di organo a canne al quale si aggiungono, in un crescendo apocalittico ad altissima tensione emotiva, percussioni, timpani e cori filtrati. Un suono che si fa sempre più pesante e pressante, fino a contorcersi, a mutare direzione, a cercare un’impossibile via di fuga prima di venire gradualmente riassorbito in una dimensione più umana per sfociare finalmente nel nulla eterno, nel silenzio redentore.

Dopo una prova impressionante come In Den Garten Pharaos, Fricke scioglie il gruppo per una breve collaborazione con i Tangerine Dream di Zeit, salvo poi riesumare la vecchia sigla nel volgere di pochi mesi per trasformare il progetto in un ensemble instabile orbitante intorno alla propria carismatica figura. Per il successivo Hosianna Mantra, che uscirà sul finire del 1972, Fricke ingaggia cinque collaboratori di scuola classica: la soprano coreana Djong Yun, Conny Veit (chitarra), Klaus Wiese (percussioni), Robert Eliscu (oboe) e Fritz Sonnleitner (violino). Il lavoro, che contende storicamente a In Den Garten Pharaos  la palma di capolavoro del gruppo, persegue, e porta al massimo grado d’intensità, lo stesso anelito del nobile predecessore, ma sceglie nuove e impensabili traiettorie per portare a compimento il proprio tormentato cammino spirituale. La Messa più sublime dell’intera cultura rock si fonda, innanzitutto, su una completa abiura della strumentazione elettronica. Per celebrare la purezza di un suono che raggiunge un grado d’intensità tale da rasentare la soglia del dolore, Fricke sceglie una strumentazione quasi esclusivamente acustica: piano, oboe, violino, tamboura, oltre alla voce celestiale della Yun ed a qualche nota dolcemente pizzicata sulle corde di una chitarra elettrica. Poi opera una totale scarnificazione del suono e della melodia: poche note preziose e una totale assenza di ritmo per restituire la musica alla sua dimensione più intima e naturale, per innalzarla ad una realtà mistica e sovrannaturale. Hosianna Mantra è il compimento di un cammino che passa attraverso la cultura indiana e quella rinascimentale, i temi barocchi e i canti gregoriani, la musica classica e quella minimalista: la sua influenza, giusto per citare un esempio, su tutta la scuola del cosiddetto folk esoterico (David Tibet/Current 93) sarà fortissima e determinante. L’iniziale Ah si sviluppa intorno ad un tema circolare per pianoforte, cembalo e violini, mentre il successivo Kyrie è un canto sacro dolcemente sussurrato su un fondo di piano, oboe e tamboura. Il brano eponimo fluttua in un’atmosfera via via più onirica e paradisiaca dominata dal tessuto armonico dell’oboe, protagonista anche del successivo Abschied, che richiama quasi temi rinascimentali. In Segnung e Nicht Noch Im Himmel si affidano agli eterei vocalizzi della soprano per portare al massimo grado un afflato celestiale che si fa, nel finale, incanto, visione divina di una grazia celeste cui tendere, finalmente, senza timore alcuno.

In Den Garten Pharaos e Hosianna Mantra saranno destinati a rimanere capolavori ineguagliati anche se Fircke, mai domo, insisterà negli anni successivi con un’intera trilogia ispirata ai testi sacri. Ma Seligpreisung (1973), Einsjager Und Siebenjager (1974) e Das Hohelied Salomos (1975) denoteranno, più che altro, un parziale avvicinamento a schemi più prevedibili ed un progressivo abbandono dell’ispirazione da parte del leader. Andrà un tantino meglio con le numerose colonne sonore per i film del regista tedesco Werner Herzog, Aguirre, Fitzcarraldo, Nosferatu, ma saranno ancora tantissimi i titoli di una nutrita discografia che attraversa, in pratica, tre decadi senza aggiungere nulla di nuovo ad un discorso che, nei suoi temi essenziali, era già stato del tutto sviluppato.

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