DEWA BUDJANA – Zentuary

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DEWA BUDJANA – Zentuary (Favored Nations/Moonjune Asia 2016, 2 CD)

Sembra davvero inesauribile la vena di questo chitarrista indonesiano che in quattro anni è giunto al quinto disco, per di più doppio, senza perdere un briciolo di smalto e, anzi, divenendo sempre più convincente, per quanto già dall’esordio del 2013 avevamo intuito di trovarci di fronte ad un soggetto di indubbio interesse ed elevate capacità. Per produrre questo Zentuary ci si sono messe ben due etichette, il dipartimento asiatico della Moonjune Records (a cui si devono anche i quattro predecessori) e la Favored Nations di Steve Vai.

Non solo, se nelle opere precedenti si era già assistito ad uno schieramento di accompagnatori di grido reclutati tra gli abituali collaboratori della Moonjune e turnisti titolati, stavolta il gruppo di base è a dir poco da Hall of fame: Dewa ha al suo fianco il bassista Tony Levin e i batteristi Jack De Johnette e Gary Husband (che siede anche alle tastiere e al piano), tutta gente dal curriculum enciclopedico e dal talento indiscusso.

Il doppio disco, il cui titolo è una crasi tra “zen” e “sancturay” è un omaggio del titolare alla madre scomparsa e ci offre varie sfaccettature del chitarrismo di Budjana che con una band solida alle spalle può davvero fare ciò che vuole.

La sua fusion (un brutto termine, ma davvero è difficile trovarne di più appropriati) è un continuo mescolamento tra oriente e occidente, con fraseggi di chitarre e pianoforte che si rincorrono (in particolare il primo dei due dischi sembra particolarmente riuscito) con una sezione ritmica che non perde un colpo e gli immancabili richiami alla madrepatria, qui rappresentata dal flauto tradizionale di Saat Syah e dalle vocalist Risa Saraswati e Ubiet, oltre che dalle frequenti citazioni geografiche indonesiane nei titoli delle tracce del disco.

Non solo, in due brani c’è anche l’Orchestra Sinfonica Ceca, con cui Budjana, a Praga, ha registrato proprio le prime tracce di questo disco, e ancora la chitarra di Guthrie Govan e i fiati di Danny Markovich e Tim Garland.

Sei brani per disco, tutti piuttosto lunghi ed evoluti: la prima composizione, Dancing Tears è già grandiosa, un viaggio di oltre nove minuti in cui Dewa suona anche una chitarra acustica, e il tenore del disco non si abbassa di un tono nella successiva e altrettanto lunga Solas PM, dove davvero chitarra e piano sono protagonisti lanciandosi in fughe con rincorsa.

Cambio di rotta per l’ariosa Lake Takengon, dall’inizio spiazzante e impreziosita da un assolo lancinante nel mezzo. Suniakala, unico brano del disco in cui Dewa non è chitarrista unico, vista la presenza dell’ex Asia Guthrie Gowan, è una composizione d’ispirazione meno orientata verso jazz e fusion, quasi rock piuttosto, a cavallo tra certe cose space-rock un po’ alla Pink Floyd un po’ in odor di progressive, senza dubbio uno dei vertici del disco, anch’essa con un bel passaggio di chitarra acustica.
La composizione seguente, Dear Yullman, ha un incedere cadenzato in crescendo, mentre nella finale Rerengat Langit (Crack In The Sky) troviamo finalmente anche l’orchestra ceca mescolata col flauto indonesiano: sicuramente un esperimento interessante di mediazione tra oriente e occidente, abbastanza differente dal resto di questo Zentuary, ma ricco di suggestioni legate anche alla voce di Risa Saraswati.

Nel secondo disco emergono particolarmente l’iniziale Pancaroba dall’andamento bello tosto, Manhattan Temple, un brano dall’impostazione fusion più tipica e dedicato a Leonardo Pavkovich, mentore di Dewa in occidente e responsabile della Moonjune. E ancora , degna di nota, la lunga Uncle Jack (la composizione più lunga del disco), dalle molteplici sfaccettature e – come tutto il disco – con la sezione ritmica in vena di prodigi.

Molto bella e rappresentativa l’immagine di copertina, che rende molto bene l’idea del melting pot non solo musicale. Del disco, udite udite, è disponibile anche la versione in vinile!!!!

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