BOB WEIR – Blue Mountain

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BOB WEIR
Blue Mountain
(Columbia/Legacy/Roar/Tri 2016)

Chi lo avrebbe mai detto che, tra un tribute a Jerry Garcia, una celebrazione dei Grateful Dead e altri progetti sparsi qua e là, Bob Weir, alla vigilia dei settant’anni, potesse trovare il tempo anche per un disco solista, argomento riguardo al quale in passato era stato per altro assai parco?

E invece eccolo qui, chissà quanti lustri fa è stato il suo ultimo disco da solo, con un bel doppio vinile (o singolo CD, ma inutile dirvelo, io ho preferito la versione vintage) che ci offre dodici nuove canzoni in bianco e nero, proprio come l’ottima foto di copertina e come quelle inserite nelle buste interne. E forse questo è il suo primo vero disco solo, quello che è maggiormente nelle sue corde: Bob Weir infatti ha soprattutto pubblicato dischi di gruppo, che fosse con i Kingfish o con l’allstar band Bobby & The Midnites (peraltro incredibile sulla carta quanto poi inconsistente su disco), con i Ratdog, o in duo con Rob Wasserman. Di fatto la prova migliore di Weir finora era stato il suo ottimo esordio del 1972, Ace, che in realtà potrebbe essere considerato un disco dei Grateful Dead senza le canzoni di Jerry Garcia e senza i blues di Pigpen.

Il nuovo disco è in tutto e per tutto un disco solista, con ospiti ricorrenti, ma di fatto un progetto unitario targato Weir a tutti gli effetti, anche se come nei dischi precedenti, l’ex Grateful Dead si fa assistere da un paroliere che stavolta non è il fedele John Barlowe, bensì Josh Ritter, cantautore con una rispettabile carriera a proprio nome a cui Weir ha affidato i temi da trattare nel disco, un disco ispirato alla sua adolescenza come apprendista cowboy, nei primi anni sessanta, quando dal sole della natia California si trasferì per un po’ nel montagnoso e freddo Wyoming.

Il disco non è comunque un disco di canzoni country o cowboy songs in senso lato, e tantomeno è una rievocazione delle sonorità dilatate esplorate nei trent’anni di permanenza nei Grateful Dead, per quanto qua e là ci sia qualcosa che sarebbe stato interessante ascoltare suonato insieme a Garcia e a gli altri, in particolare l’iniziale e struggente Only A River che non a caso prende le mosse da Shenondoah, un brano tradizionale che lo stesso Jerry aveva rivisitato insieme a David Grisman su Not For Kids Only (l’ultimo dei tanti dischi col mandolinista che fu pubblicato con Garcia ancora in vita): in quel caso Garcia faceva sfociare la splendida ballata nella Ninna Nanna di Brahms, qui Weir ci riscrive attorno una canzone nuova, bellissima ed ispirata.

Merito della riuscita del disco è la scelta dei suoni m
essa a punto da Weir stesso con Josh Kaufman, produttore legato alla scena alternative country che ha lavorato in passato con Ritter e con i National, che guarda caso sono tra i musicisti coinvolti nelle registrazioni e nell’ultimo anno si sono sbizzarriti nell’assemblare un quintuplo tributo ai Grateful Dead dai risultati molto discutibili (nel senso che “ce n’era bisogno?”).
Considerazioni a parte, il risultato della collaborazione tra Kaufman, Weir e i National, sembra più che positivo e la dice lunga sul fatto che troppo spesso i gruppi di alternative country o new folk vengano incensati con troppa facilità a dispetto della completa mancanza di buone canzoni o di voci memorabili. C’è un gran lavoro sui suoni, ma poi manca la sostanza. Qui invece, a suoni e bravura si possono sommare come valori aggiunti la gran voce di Weir e delle composizioni all’altezza. Il risultato brilla di luce propria. Ci sono brani intimisti come Cottonwood Lullaby e Whatever Happened To Rose, citazioni alla Johnny Cash (Gonesville, impreziosita da una bella armonica suonata dal batterista Ray Rizzo), brani ossessivi come Lay My Lily Down, escursioni quasi solitarie come Ki-Yi Bossie – con tanto di yodel di Ramblin’ Jack Elliot in sottofondo – e la conclusiva One More River To Cross.

La voce di Weir risuona cavernosa e venata di tonalità e sfumature che non starebbero male tra le corde vocali di Nick Cave, quello delle ballate criminali soprattutto, e i suoni sono tutti misurati su chitarre d’ogni tipo, pedal steel, elettriche, acustiche, tastiere discrete ma fondamentali. E i testi ci raccontano storie di fughe al galoppo per sfuggire all’arresto da parte di uno sceriffo che richiama alla memoria quello della deadiana Friend Of The Devil, storie di bimbi nati morti per cui un padre disperato scava una fossa nella terra fredda, di fiumi da attraversare, deserti, pianure e città fantasma con le finestre rotte, quasi a riscrivere un percorso già noto (pensiamo alle molte canzoni di Merle Haggard, Marty Robbins, Johnny Cash che Weir cantava dal vivo coni Dead) vestendolo con nuovi abiti sonori.

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