FRANCESCO E GREGORI – Amore e furto

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FRANCESCO E GREGORI
Amore e furto
(Caravan/Sony 2015)

Amore e furto… D’istinto il titolo di questo disco potrebbe sembrare solo un rimando o una citazione del titolo di uno dei migliori dischi pubblicati da Bob Dylan – per quanto mi riguarda il suo ultimo bel disco davvero –, a ben vedere, e sentire, direi che è soprattutto una dichiarazione d’intenti da parte di Francesco De Gregori. Ho ascoltato il disco diverse volte quando è uscito, poi se ne è cominciato a parlare troppo, sulla carta stampata, nel web, tra amici, così ho deciso di lasciarlo decantare per un bel po’, per evitare di farmi suggestionare nel mio giudizio: questo genere di dischi di solito ha solo detrattori per partito preso o estimatori oltranzisti secondo i quali di questi artisti si deve solo parlare bene.

Così questa mia recensione arriva ad un anno dall’uscita del disco. Non so se servirà a qualcuno.

Comunque il disco è bello. Credo sia la cosa principale. Se un disco non è bello può essere così così, può essere carino, bruttino, brutto, pessimo… ma non sarà comunque bello. Certo, con delle canzoni come quelle del neo-Nobel è difficile fare un disco brutto, però poteva diventare un disco poco riuscito o per niente riuscito.

Invece De Gregori ce l’ha fatta, ce l’ha fatta proprio in virtù del titolo del disco, amore e furto: amore perché è cosa nota, e non da ieri, che in casa De Gregori la musica americana la si ama, e non è da ieri che si provano a tradurre nell’italico idioma le canzoni dei songwriter d’Oltreoceano, Francesco aveva già messo mano proprio sulla dylaniana Desolation Row insieme a Fabrizio De André, il fratello Luigi Grechi ha tradotto e adattato cantautori come Guy Clark e Tom Russell, e ancora Francesco aveva collaborato con Mimmo Locasciulli ad altre traduzioni dylaniane.

Un disco così, quindi, prima o poi bisognava aspettarselo.

Quanto al furto, quello va da sé, si tratta comunque di canzoni rubate, rubate e rimaneggiate, ma non è stato forse Bob Dylan un maestro di furto musicale? A quante canzoni popolari ha sottratto truffaldinamente le melodie per piazzarle sulle sue canzoni degli esordi?

La carta vincente di Francesco De Gregori – oltre ad un’ispirazione superlativa – è la conoscenza della materia da vero esperto, Bob Dylan per lui non è un esperimento, è proprio amore a primo ascolto; poi ci sono dei musicisti con le cosiddette contropalle che riescono a dare un suono uniforme ad un repertorio che originariamente risaliva a periodi ed incisioni differenti, e quindi suonato da Dylan in modo diverso. Il colpo di genio è però nella scelta del repertorio: pur spaziando dal 1965 di Acido seminterrato (Subterranean Homesick Blues) al 2001 di Tweedle Dum e Tweedle Dee, il cantautore romano privilegia il Dylan degli anni ottanta e novanta, evitando quasi del tutto di misurarsi con i classici fin troppo coperti ed usurati.

Qualcosa non è proprio del tutto nuovo, la versione di Via della povertà (Desolation Row) prende le mosse proprio da quella realizzata con De André, ma qui ci sono variazioni al testo e, soprattutto, l’arrangiamento è vibrante, lontano anni luce da quello acustico con cui Dylan aveva vestito questo brano torrenziale; Una serie di sogni (Series Of Dreams) era stata incisa con questo testo da Mimmo Locasciulli e Non dirle che non è così (If You See Her Say Hello) era stata incisa dallo stesso De Gregori per la colonna sonora di Masked & Anonymous (il film interpretato da Dylan nel 2003).

Le sorprese sono invece Come il giorno (I Shall Be Released), con un organo hammond e dei cori gospel che onorano una grande canzone che forse Dylan non ha mai inciso davvero sul serio, o la struggente Non è buio ancora (Not Dark Yet), una delle più belle tra le composizioni recenti, nota anche al grande pubblico grazie alla cover che ne ha fatto la britannica Adele qualche tempo fa: la versione di De Gregori è molto fedele all’originale, gli intrecci delle chitarre (la pedal steel di Alex Valle è da brividi) e il tappeto di tastiere sono un capolavoro.

E ancora la quasi filastrocca Tweedle Dum e Tweedle Dee, in cui la voce di De Gregori si fa quasi cavernosa come quella dell’autore quando pronuncia i nomi dei due protagonisti del brano. Dignità (Dignity), che chiude il disco conferma ampiamente la propensione del titolare a far proprio il Dylan più recente.

Vi chiederete come sono i testi. Che domande? Belli. Magari non sempre letterali, ma sempre in grado di rendere il senso (o il non senso) del brano originale. Tutt’altra cosa rispetto a quelle terribili traduzioni di Tito Schipa Jr. che l’Arcana pubblicò in tre eccessivamente acclamati volumi negli anni novanta.

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