JASON ISBELL AND THE 400 UNIT – Live From The Ryman
di Paolo Baiotti
6 febbraio 2019
JASON ISBELL AND THE 400 UNIT
LIVE FROM THE RYMAN
Thirty Tigers 2018
L’ascesa di Jason Isbell, quarantenne di Green Hill, Alabama, nel settore roots-rock è stata lenta e costante. Dopo l’addio ai Drive By Truckers nell’aprile del 2007, l’autore, cantante e chitarrista ha esordito come solista con Sirens Of The Ditch nello stesso anno, seguito da Jason Isbell & The 400 Unit nel 2009 e da Here We Rest nel 2011. Questi tre dischi hanno preparato il terreno per il salto di popolarità avvenuto con l’intimo e personale Southeastern, consolidato con Something More Than Free e The Nashville Sound, entrambi entrati nella top ten americana nel 2015 e 2017. In questo periodo Isbell è stato nominato più volte agli Americana Awards vincendo per la canzone dell’anno, tre volte per il migliore album e nel 2015 come migliore artista.
Live From The Ryman, tratto da sei concerti del 2017 al leggendario Auditorium di Nashville, è una sorta di celebrazione e di riassunto degli ultimi tre dischi, trascurando il repertorio precedente già ripercorso, almeno parzialmente, in Live From Alabama del 2012 e in un paio di Live pubblicati in edizione limitata per il Record Store Day. Peccato che il disco, uscito un po’ in sordina con una copertina scura e poco attraente, risulti frammentario e incompleto proprio per la sua natura, raccogliendo tredici canzoni per un’ora scarsa di musica che riflettono solo parzialmente l’atmosfera e lo svolgimento di un concerto dell’artista. Le canzoni sono di qualità, Jason ha una voce espressiva e matura e la band lo segue con precisione e attenzione (anche troppa), mancando forse di un pizzico di inventiva e coraggio nelle interpretazioni. The 400 Unit sono formati da ragazzi dell’Alabama, Chad Gamble (batteria), Jimbo Hart (basso) e Derry De Borja (tastiere, ex Son Volt) da tempo insieme, ai quali si sono aggiunti la chitarra di Saldler Vaden (ex Drivin’ N Cryin’) e il violino di Amanda Shires, dal 2013 anche signora Isbell, la donna che lo ha salvato dall’alcolismo e che ha meriti non trascurabili nella sua ascesa, avendogli dato serenità dopo il turbolento matrimonio con Shonna Tucker, bassista dei Drive By Truckers e gli anni trascorsi abusando di cocaina e alcolici.
Negli ultimi dischi Isbell ha affinato la capacità di scrivere ballate intimiste come la dolente Something More Than Free, l’intensa Flagship, la drammatica Elephant e la desolata Cover Me Up sull’alcolismo, che si alternano a tracce più ritmate come l’aspro roots-rock di Hope The High Road, la febbrile 24 Frames e il robusto mid-tempo White Man’s World, caratterizzata da un messaggio antirazzista e da un dialogo serrato tra violino e slide. La scrittura di Jason non trascura accenti pop come in The Life You Choose e influenze sudiste come nell’epica Flying Over Water, ma sembra avere trovato la sua cifra di riferimento nelle ballate. Oltre a quelle già citate emergono due tracce da The Nashville Sound, la sofferta Last Of My Kind, cantata splendidamente e arrangiata con spruzzate di violino, chitarra acustica e punteggiature di slide fino alla sezione strumentale dove finalmente gli strumenti si lasciano andare e la conclusiva If We Were Vampires, una delle più delicate love songs degli ultimi anni, non a caso premiata come Best American Roots Song agli Americana Awards del 2018.
Per i motivi sopra indicati Live Form The Ryman sembra un’occasione non pienamente sfruttata, anche per la qualità del suono che non convince del tutto, nonostante il missaggio di Dave Cobb, produttore di punta di Nashville che ha prodotto gli ultimi dischi in studio di Isbell.