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VIOLENTI LUNE ELETTRICHE di Donata Ricci

di admin

14 febbraio 2019

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VIOLENTI LUNE ELETTRICHE
Crema di un futurismo d’antan

Di Donata Ricci

Non ti inquietare Marinetti, se scegliendo il loro nome le Violenti Lune Elettriche si sono concesse una licenza poetica. Tieni conto che, per il resto, il tuo Manifesto del Futurismo lo rispecchiano in pieno, visto che celebrano, a modo loro certo, “le grandi folle agitate dal lavoro” e “le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni”. Anzi, dovresti essere grato che ti scrivano un’appendice sostanziosa, che poi è tutta contenuta nella definizione della loro opera quale “Musica Materica dell’Età del Ferro Atomico Bio-Cibernetico”. Ma ora lasciami scrivere una presentazione più canonica, altrimenti saremo responsabili dell’emicrania del lettore.

Le Violenti Lune Elettriche (d’ora in poi VLE) provengono dalla Bassa cremonese e si muovono sull’asse Crema-Castelleone. Sono in quattro (cinque se consideriamo la presenza spirituale di Gigi Bertuzzi, amatissimo batterista del gruppo, scomparso prematuramente nel 2015). Sfoggiano nomi d’arte che provocano un certo disorientamento: Liv-Liv (voce), G’ino TxD5 (chitarra), mentre la sezione ritmica si mantiene nell’ortodossia con Danilo Somenzi (basso) e Italo Trabattoni (batteria). La loro discografia è più che parca: due dischi in venticinque anni (1991 e 2016) ma non disperiamo… il terzo è già in fase di elaborazione. Nonostante la loro parsimonia produttiva, le loro origini sono antichissime (con l’Età del Ferro quasi ci siamo) se pensiamo che il chitarrista G’ino TxD5 (d’ora in poi Gino e basta, che già mi ha fatto giurare che non avrei svelato il suo vero nome), G’ino dicevamo, ossia l’anima delle VLE, compositore in solitaria di testi e musica, nonché autore dei dipinti che vanno a finire sulle copertine dei loro dischi, è un creativo di lungo corso. In quattro decenni ha dato vita a una serie di formazioni tra le più originali del nostro underground. Minimo Lumen, A, Astrali Neon Zuni. Tutti nomi estrosi per formazioni che hanno avuto ognuna una durata di tre anni, giusto per aggiungere mistero.

Nel tentativo di schedare l’inschedabile, occorrerebbe spiegare che musica fanno le VLE. Intanto diciamo che i testi sono in italiano, con l’unica eccezione anglofona della canzone Le rotolanti pietre del sole (niente a che vedere con gli Stones, troppo facile), che tuttavia conserva l’italiano nel titolo, tanto per scompaginare le carte. Trattano temi grandi, grandissimi, spesso mutuati dalle Sacre Scritture: inquietudini cosmiche, apocalissi proteiformi, tecnologie fagocitanti, stratificazioni e implosioni, piogge acide, plac plac plac su fiori e foglie, perché l’onomatopea è il loro quinto strumento. Non mancano sguardi più terreni, come l’anelito all’uguaglianza sociale che osa l’utopia di un socialismo che, pur non essendo reale, non impedisce loro di rilasciare dichiarazioni di questo tenore: “Gli umili e gli oppressi Dio li innalzerà, i ricchi e i potenti Dio li brucerà” (L’Apocalisse adesso). L’interrogativo a questo punto si fa pressante: che tipo di musica può veicolare tematiche tanto impegnative? Il modo migliore per rispondersi sarebbe partecipare a uno dei loro incendiari live act, magari al Cactus Cafè di Castelleone dove sono pressoché di stanza e che, ogni volta che in cartellone ci sono le VLE, si trasforma in un CBGB padano. E tu che sei lì a due metri dal palco hai la sensazione che lì sopra ci siano gli Stooges e che l’appellativo “animale da palcoscenico” sia stato coniato appositamente per il corpulento, incontenibile vocalist Liv-Liv. Lo zoccolo duro dei seguaci conosce ogni parola dei testi, perché qui in terra cremonese le VLE sono una piccola religione. E loro calano un tiro potente, che se proprio vogliamo infilare in una categoria direi hard rock. “La nostra musica è quella di sempre – semplifica G’ino – quella che ascoltavamo da adolescenti: Jimi Hendrix, Black Sabbath, Cream. Il suono è rimasto quello”. Certo è che non esci indenne dall’impatto con le VLE. Cercate in rete il video di Bwang e ascoltate il suo riff: vi sembrerà di aver infilato le dita nella presa elettrica.

È ciò che deve aver pensato il nostro indimenticato Daniele Ghisoni quando, da giurato, li incrociò nel 1990 al MAST di Cremona e assegnò loro il primo premio in un concorso per rock band. Per dire come le strade a volte si incrociano e tessono canovacci. Perché quella delle VLE è anche una bella storia di provincia, di quelle che Tondelli avrebbe scritto volentieri: un gruppo formato da artigiani della musica (loro si definiscono “artistigiani”) allettati dal sogno del professionismo, ma abbastanza umili da accettarne la rinuncia quando divenne chiaro che toccava accontentarsi di considerarla una forte passione. E qui le soddisfazioni non difettano: top ten radiofoniche, la stampa non soltanto locale, Rockerilla che nel 1993 li piazza in classifica a pari merito con gli Afterhours. Uno di quei bei sogni che partono da una registrazione in diretta su un otto piste a nastro, per una tiratura di cinquecento musicassette, per poi, l’anno dopo, compiere subito il grande salto verso il longplaying. E con un amico che decide di indossare la casacca da manager per procurarti contratti telefonando da una cabina a gettoni, un po’ come faceva Rob Gretton con i Joy Division.

Credono nelle “coincidenze significative” junghiane, le VLE. Ciò spiega il loro ritrovarsi e ripartire vent’anni dopo l’esordio. Puntano sulla convivenza delle diversità, giacché gli altri membri della band sostengono con convinzione i testi confessionali di G’ino, pur non essendo credenti. Testi che non nascondono una netta propensione alla rima accentata e ai verbi al futuro: un peccato veniale di ampollosità che, insieme al tono declamatorio, richiama il Giovanni Lindo Ferretti periodo C.S.I. E non è necessariamente un male. Osano parecchio. “Stanno come d’autunno sugli alberi le foglie” (Soldati) è Ungaretti servito su un letto di Huriah Heep. Contraddicono Guccini asserendo che “Dio non è risorto ancora”. Respirano la stessa aria acida di Jerry Garcia nella sitaristica Mantra, un pezzo che profuma di viaggio all’Eden, o nel bellissimo brano Il sogno delle farfalle metalliche dove, grazie a un ritornello orecchiale ma per niente banale, si palesa la sapiente mescolanza di espressione colta e popolare. Anche Lungo i marciapiedi e Nuovo mondo si accostano alla forma canzone e questo chiarisce definitivamente che le VLE non aspirano a un trono fra gli alieni, ma sanno anche scherzare con la citazione beatlesiana di Magico Misterico Tour.

Una band ottimamente amalgamata anche dal punto di vista squisitamente strumentale: un cantante tutto anima e sudore, una sezione ritmica metronomica e indispensabile e un chitarrista dalla strepitosa abilità. A lui spetta il compito della ritmica, della solita, di tessere la melodia. Ha uno stile tanto classico quanto personale, basti ascoltare JJ Blues, dedicato allo storico drummer Gigi Bertuzzi, un blues canonico tentato però da digressioni e sconfinamenti dalla tradizione. La chitarra di G’ino è un labirinto in cui puoi perderti, esattamente come nei suoi disegni zeppi di simbolismi e di figure miniaturizzate come nei dipinti di Brueghel. Ma una cosa va precisata: Le VLE sono e vogliono essere un’espressione collettiva perché, anche in un mondo bagnato da “lacrime d’olio” e sporcato di “vinavil di tristezza”, non ci son re.

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L’INTERVISTA

Gino, dove comincia tutto?

Qualche anno di liceo mi bastò per capire che avrei voluto diventare una rockstar; qualche supplenza come maestro mi bastò per capire che avrei voluto partire per Londra. Infatti partii e mi sistemai in uno squat del quartiere giamaicano. Poi volai a New York e da lì, attratto dalla mitologia hippie, attraversai l’America su un Greyhound. Avrei voluto farlo in autostop per imitare Sal Paradiso, ma me lo sconsigliarono. Erano gli anni ‘80. Incontrai gli Amish, i Born again Christian colti dall’estasi e varia umanità. Fu un’esperienza importante, poi tornai in Europa. Ma non ancora in Italia.

Dove esattamente?

A Parigi. Facevo le pulizie a Le Figaro e intanto suonavo in un gruppo rock. Ma rockstar non divenni mai. Così dopo tre anni di vagabondaggio rientrai in Italia, senza arte né parte, mi sposai e tentai ancora di trasformare la musica in una professione. Formai gli A, che nella Milano da bere ebbero i loro momenti di gloria, insieme ad Elio e le storie tese. Gli A durarono tre anni. Poi formai le VLE, la cui prima fase durò anche’essa… tre anni. Il numero tre è ricorrente nella mia vita, dev’essere il soffio della Trinità.

Mi fornisci un assist. Nei tuoi testi sono frequenti i riferimenti biblici. Come nasce la tua attrazione per le Sacre Scritture?

Mi considero un riconvertito al Cristianesimo. Dopo l’educazione cattolica che più o meno tutti abbiamo ricevuto, me ne sono allontanato. Però in seguito sono tornato a “credere” per meraviglia nei confronti del Creato.

E poi?

Poi ho letto i Vangeli e anche Jung con le sue “coincidenze significative”, che sono una specie di “sincroniticità”, nient’altro che ciò che il Cattolicesimo chiama “provvidenza”: far incontrare cose assolutamente lontane. È grazie a una coincidenza significativa che le VLE si sono rimesse insieme dopo lo scioglimento del 1992. L’aspetto curioso è che i miei compagni sono miscredenti, qualcuno addirittura è un bestemmiatore. Ciò nonostante abbiamo una sintonia perfetta perché la musica supera molte barriere.

Sei affascinato dal mistero

È esatto. Dal mistero che tutto ammanta prende il nome la mia musica che definirei “Rock misterico dell’Età Oscura”.
Mi gira la testa con tutte queste definizioni…
Posso capirti. Chiunque avverta il veloce e inarrestabile trascorrere del tempo prova una sorta di destabilizzazione. Chiunque comprenda che la nostra esistenza è una voce tra due grandi silenzi – il silenzio del passato che non è più e il silenzio inquietante dell’avvenire – sa che vivere nel tempo è un continuo trascorrere/passare/morire. Dunque la soluzione per vivere senza morire veramente è trascendere il tempo. Solo l’eternità è vita.

Il vostro brano “Dio non è risorto ancora” vuole evidentemente essere una risposta al Maestrone…

Certo. Mentre in “Dio è morto” Guccini terminava con la speranza della resurrezione, il nostro testo ha una deriva pessimistica. Quell’utopia purtroppo non si è realizzata.

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Come riesci a conciliare pessimismo e fede religiosa?

Esiste un Giusto Pessimismo senza il quale non si combinerebbe nulla di grande. È la forza amara che rende il cuore coraggioso. La vera casa dell’uomo è il Cielo. Siamo immersi in una corrente migratoria incessante. Siamo un punto che appare e scompare, appare e scompare. Tuttavia il mondo non finisce con noi, ma continua a fluire, da Ponente a Levante. In altre parole mi considero un “pessimista terreno” e un “ottimista cosmico”. Il mio pessimismo deriva da un’analisi disincantata della società, invece il mio ottimismo nasce alla fiducia nell’individuo. Essere credente non mi impedisce di prendere atto delle negatività del mondo, però se guardo alla bellezza delle relazioni interpersonali divento fiducioso.

Quindi credi nell’individuo ma non nelle collettività?

Sì, è così. La mia fiducia viene meno quando la sovrastruttura che domina gli individui prende determinate direzioni. Penso per esempio alla tecnologia esasperata e mi domando cos’abbia portato di utile nel Burkina Faso o negli slum di Nairobi. Penso alla degenerazione dei significati: l’idea orwelliana del Grande Fratello è stata perlomeno banalizzata.
Credi sia possibile realizzare una società fondata sull’uguaglianza?
Sarò un utopista ma penso che, terminata la fase della “Fatalità Storica”, l’assolutizzazione della ricchezza si sgretolerà insieme al capitalismo.

I linguaggi con cui ti esprimi sono vari: musica, scrittura, pittura. Immagino sia gratificante.

Sicuramente. Mi permettono di mostrare i miei diversi volti ed esprimere i miei differenti umori. Per esempio, mentre nella musica metto la cupezza, nella pittura adopero colori solari e accesi. Sono un frequentatore di discariche: recupero le cassette delle mele, le smonto e le rimonto, poi ci dipingo sopra. Te lo dicevo che sono un “artistigiano”…

Permettimi una domanda più prosaica, giusto per riguadagnare il suolo dopo un volo negli spazi siderali: visto che non sei diventato una rockstar, cosa fai per sbarcare il lunario?

Per un po’ di tempo ho suonato il liscio nelle balere, Angela Ghezzi e così via. Poi, quando non ne ho potuto più, ho tolto dal cassetto il diploma di maestro elementare e sono diventato educatore e insegnante di sostegno. Seguo bambini autistici e faccio alfabetizzazione a quelli stranieri. Il bello è che adopero la musica, li faccio suonare – chitarra, tamburi, quello che c’è – e creo canzoncine per loro.

Gli parli anche dell’Apocalisse?

Quando saranno grandicelli… perché no?

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