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XAVI REIJA – The Sound Of The Earth

di Paolo Crazy Carnevale

13 febbraio 2019

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XAVI REIJA – The Sound Of The Earth (Moonjune 2019)

Il batterista ispanico Xavi Reija è ormai da tempo accasato presso l’etichetta Moonjune: questo nuovo disco, registrato con i fedelissimi Dusan Jevtovic (chitarrista serbo, compagno di scuderia e co-titolare con Raija di un disco in duo) e Tony Levin, ormai un pilastro del basso, anch’egli frequentemente coinvolto in produzioni di casa Moonjune.

The Sound Of The Earth, questo il titolo del disco, prende le mosse da un brano che era apparso in origine proprio sul disco in duo con Jevtovic: il brano in questione, Deep Ocean, viene qui posto in apertura quasi a contrapporre il suono del mare, dell’oceano a quello della terra che viene sviluppato nel disco attraverso quattro differenti suite inframmezzate da altri brani più brevi.

A completare il gruppo, nel disco troviamo anche la touch guitar di Mark Reuter, un altro benemerito dell’etichetta newyorchese.

Il disco si sviluppa senza risparmiarsi nelle contaminazioni e nelle citazioni, come indicano le stesse note di copertina tra le fonti d’ispirazione ci sono persino Jeff Beck, Curtis Mayfield, gli Eagles: ma sono sol spunti, il disco è un disco fortemente sperimentale, come si addice alle produzioni Moonjune, e se nella terza suite eponima del disco emergono richiami a certo soul/blues, se in Lovely Place ci sono echi del mai dimenticato Hotel California, soprattutto da parte della chitarra di Reuter, il resto è all’insegna dell’avanguardia, tutto sorretto dal drumming robusto del titolare.

Le quattro lunghe suite sommate insieme raggiungono e superano da sole i quaranta minuti, l’ultima, la più lunga passa addirittura il quarto d’ora, all’insegna di certe atmosfere che richiamano l’elettronica di Ned Lagin, ma qui gli strumenti sono veri.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/31

di Paolo Crazy Carnevale

28 aprile 2014

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DEWA BUDJANA – Surya Namaskar (Moonjune 2014)

 

Terzo disco in poco più di un anno per questo incredibile chitarrista indonesiano “scoperto” da Leonardo Pavkovic e lanciato alla grande dall’etichetta di New York il cui nome è un palese omaggio al Canterbury Sound. Lo scorso anno dopo il brillante debutto di Dawai In Paradise era uscito un altro disco di Budjana e nessuno si aspettava un seguito a così breve distanza, invece ecco qui un altro prodotto e, cosa che importa maggiormente, l’artista sembra non aver perso una virgola di smalto, manca giusto l’effetto sorpresa del primo CD, ma per il resto è di nuovo un signor disco che conferma il nome di Budjana come uno dei migliori della scuderia della Moonjune.

La musica indonesiana si fonde con rock e jazz in una miscela che va oltre la definizione comune di fusion, la chitarra domina ma il drumming solido di Vinnie Colaiuta ed il basso di Jimmy Johnson (entrambi accreditati sul fronte della copertina) fanno la loro buona parte e per quanto riguarda il resto, in un brano c’è persino la chitarra di Michael Landau (già con Miles Davis, Joe Cocker, Pink Floyd, nonché con tante star del nostro paese), in un altro le tastiere di Gary Husband e in Kalingga, la traccia più lunga e più bella, ci sono anche gli strumenti tradizionali indonesiani suonati da Kang Yia e Kang Pupung.

Il disco si compone di otto tracce, alcune più risapute come l’opening track Fifty o Campuhan Hill, molto jazz, altre più dinamiche ed originali come Capistrano Road, brano molto d’atmosfera, Duaji & Guruji, la già citata multiforme Kalingga in cui i suoni elettrici e gli strumenti della tradizione si fondono magistralmente in un crescendo rock dopo un inizio all’insegna della musica orientale e la title track dalle molteplici ispirazioni che lascia posto ai solismi del leader e dei suoi collaboratori senza mai stufare.

 

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MACHINE MASS – Inti (Moonjune Records 2014)

 

Machine Mass è una formazione mutevole che gira attorno al batterista americano Tony Bianco e al chitarrista belga Michel Delville: i due oltre ad aver fondato il gruppo Doubt avevano già inciso un CD qualche anno fa sotto il nome di Machine Mass Trio, dove il trio si completava col sassofonista Jordi Grognard. Ora il ruolo di sassofonista è stato raccolto da Dave Liebman, strumentista che nell’ambito del jazz elettrico al confine col free più estremo vanta collaborazioni a volontà, incluse quelle con Miles Davis, Chick Corea,  e John McLaughling. Per la precisione, Liebman è co-titolare di questo disco di Machine Mass, non più trio ma indicato in copertina come Machine Mass feat Dave Liebman

Dal canto loro, gli altri due compari non sono certo dei principianti, Bianco ha lavorato con Elton Dean dei Soft Machine, Delville è stato leader di vari progetti come Wrong Object e Doubt. Un’ora di musica quasi interamente strumentale, tutta o quasi sottolineata dalle evoluzioni di Liebman al sax, con gli altri due che tessono basi al limite dell’elettronica usando batteria, chitarra, loop vari, tastiere, percussioni. Unica concessione ad un sound più facile e digeribile, il brano The Secret Place cantato da Saba Tewelde. I brani sono firmati tutti in solitaria o collaborazione dai tre musicisti, con l’eccezione di In A Silent Way, scritto da Joe Zawinul e inciso da Davis nel 1969, come a indicarci dove affondino le radici questi Machine Mass.

 

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ZACHARY RICHARD – Le Fou (Huggy’s Music/Sony France 2014)

 

Un ritorno alla grande quello di Zachary Richard (visto recentemente anche dal vivo in quel di Vicenza e recensito da Ronny Stancanelli in “Late For The Sky” versione cartacea), un ritorno come si deve per un personaggio che dai suoi esordi nella seconda metà degli anni settanta ha disseminato nel corso dei decenni una serie di dischi non da poco, dai primi, irrinunciabili pubblicati dalla CBS Canada, a quelli un po’ furbetti – in quanto infarciti di sonorità e canzoni in stile New Orleans/Zydeco commerciale – del decennio successivo su Rounder Records, ai grandi dischi per la A&M negli anni novanta. Le ultime produzioni di Richard sono state tutte casalinghe, nel senso che le ha realizzate per la propria label, con distribuzione via CD Baby, destino a cui è andato incontro anche questo Le Fou nel 2012, salvo però essere poi ripubblicato quest’anno dalla Huggy’s Music e distribuito in Europa dalla Sony francese, quasi un ritorno alla label d’origine visto che la Sony è proprietaria dei cataloghi Columbia/CBS.

Il disco nuovo ci offre una dozzina di nuovi brani, tutti o quasi ispirati e godibili, riconducibili in qualche modo al filone di dischi come Migration del 1978 o Cap Enragè di metà anni novanta, vale a dire dischi in cui Zachary si discosta leggermente dalla tradizione più smaccatamente zydeco e cajun per mettersi in luce come autore – e che autore! – di canzoni. È la via che ha abbracciato da un po’ di tempo in qua, gli ultimi dischi prodotti in proprio fanno parte di questo filone infatti, salvo il fatto che in Last Kiss, del 2009, aveva infilato una riuscita cover di Acadian Driftwood in cui duettava nientemeno che con Celine Dion.

A costituire un trait d’union con la produzione precedente troviamo la presenza di Sonny Landreth che firma con la sua slide il bel brano d’apertura, Laisse le vent souffler, e l’unica concessione allo Zydeco, un brano dedicato a Clifton Chenier, maestro del genere e idolo di Richard da sempre. Ma ci sono altri grandi brani dentro questo disco, c’è la title track ad esempio, un’intensa ballata dedicata al disastro ecologico che nel 2010 ha colpito Deepwater Horizon a causa di una marea nera, e c’è La Ballade de Jean Saint Malo, uno dei classici omaggi di Richard agli eroi oscuri della sua terra, siano essi eroi d’Acadia come Beausoleil e Jackie Vautour, o eroi della Louisiana come questo Jean Malo, che capeggiò la prima rivolta di schiavi. E come a volersi ricondurre idealmente a quel Migration citato più sopra, Zack conclude il disco con un brano intitolato Les Ailes Des Hirondelles, proprio come il brano che chiudeva il lato A del vinile di Migration: la musica ed il testo sono differenti, ma il contenuto sembra essere davvero un seguito di quella canzone che era stata inclusa anche nel live del 1980. Tra i musicisti coinvolti nelle registrazioni troviamo Justin Allard, Roddie Romero e David Torkanowski, che hanno accompagnato l’artista anche nel recente tour europeo.

 

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XAVI REIJA – Resolution (Moonjune Records 2014)

 

Progressive jazz dalla Catalogna, passando però per la penisola balcanica. Questo disco lunghissimo, quasi ottanta minuti di contorsioni strumentali venate di elettricità geometrica e divagazioni chitarristiche di ispirazione talvolta post-industriale, tal altra ai confini con l’heavy rock, è sorretto principalmente dallo strumento del titolare, il batterista catalano Xavi Reija, a capo di un trio che si completa con la chitarra di Dusan Jevtovic, di Belgrado, già protagonista di un altro disco in trio per la medesima label, e con il basso elettrico mai scontato di Bernat Hernandez.

Rispetto al disco solista di Jevtovic, questo Resolution è soprattutto un lavoro del batterista – che non per nulla ne è il titolare – che fa dispiego di energia e muscoli per infondere alla musica una dinamica tutta sua. Undici le tracce che compongono il CD, alcune particolarmente lunghe e ricche di sviluppi strumentali in cui i ritmi e le melodie si intrecciano e sfociano in cavalcate ossessive, salvo poi ricondurre il tutto ad atmosfere più miti.

Un disco meno immediato e facile di altri prodotti dalla Moonjune Records, di sicuro interesse per gli amanti del genere, ma privo di certe connotazioni ai limiti della world music che fanno apprezzare maggiormente le altre produzioni della label di New York.