Posts Tagged ‘Dwiki Dharmawan’

DWIKI DHARMAWAN – Hari Ketiga

di Paolo Crazy Carnevale

17 gennaio 2021

SleepCase

DWIKI DHARMAWAN – Hari Ketiga (Moonjune Records 2020)

Ha visto la luce proprio allo scadere dell’anno la nuova e mastodontica operazione discografica ordita dal producer Leo Pavkovic: infatti, se per la verità il disco è attribuito al tastierista/pianista indonesiano Dwiki Dharmawan, a conti fatti lo possiamo considerare un parto collettivo della scuderia Moonjune, con Pavkovic in veste di grande mente dietro il progetto, orchestratore di un’opera ambiziosa, non sempre di facile assimilazione, ma di grande fascino.

Con le dovute proporzioni si potrebbe fare un parallelo con il George Martin di Sgt Pepper, visto che il lavoro del produttore va qui molto oltre l’essere stato in cabina di regia durante le registrazioni. Pavkovic ha trovato nella Casa Murada situata in Catalogna, uno studio con una location suggestiva che ben si presta a stimolare le molte ispirazioni degli artisti della sua scuderia, e nel 2017 all’indomani di due giorni di session per un altro disco di casa Moonjune, Dharmawan, il chitarrista prezzemolino Markus Reuter, il batterista Asaf Sirkis e il cantante camuno Boris Savoldelli (una delle punte di diamante dell’etichetta) hanno lavorato insieme per una terza giornata di session, e proprio “terzo giorno” è il significato del titolo in lingua indonesiana Hari Ketiga.

Un viaggio musicale attraverso sonorità bene distinte e varie che Pavkovic ha subito ripreso in mano ed elaborato, lavorato e assemblato in studio dando forma ad un doppio CD dalle atmosfere suggestive. Un concept dei nostri tempi, all’insegna di sonorità differenti che spaziano dal prog-rock al noise, alla fusion (termine brutto e abusato, ma abbastanza esplicativo).
Se la voce di Savoldelli spesso è uno strumento alla stregua di tutti gli altri, in questo disco va semplicemente oltre, grazie anche ad una collaborazione a posteriori ordita dallo stesso Boris dopo che Pavkovic gli ha consegnato le registrazioni appositamente editate su cui lavorare per il cantato: il vocalist ha infatti coinvolto nell’operazione l’amico, rocker, cantautore e compaesano Alessandro Ducoli, solitamente impegnato su altri fronti musicali, nonché eccellente paroliere, e dopo avergli spiegato l’idea di base del progetto, gli ha proposto di comporre dei testi appositamente per i nove atti che compongono il disco. Così – se in taluni momenti tra le distorsioni chitarritiche di Reuter, le escurisoni del titolare alla tastiera del pianoforte o di altri strumenti e la percussività di Sirkis – Boris si ritaglia momenti in cui il suono della sua voce diventa il quarto strumento, in altre parti (molte) del disco, grazie ai testi di Ducoli che ha cucito una serie di liriche ispirate dalo David Bowie di Space Oddity e dal poeta latino Lucrezio (parliamo di contenuti testuali non di musica), liriche che permettono alla voce del connazionale di cantare i senso più propriamente detto.

In un paio di occasioni, sul secondo disco, con i brani The Truth e The Perpetual Motion il montaggio finale fa sposare la voce di Savoldelli con quelle di alcuni strumentisti vocalisti indonesiani di matrice tradizionale, ripescati dagli archivi di Darmawan, che li ha registrati nel proprio paese all’inizio del decennio scorso, in altre occasioni invece invece le parti cantate si imbevono di grande lirismo, nella conclusiva The Memory Of Things, con le liriche in inglese e il piano ubriaco di Dharmawan, non è difficle pensare a certe cose del primo Tom Waits. Laddove i testi di Ducoli sono invece in italiano viene più facile il paragone con certo progressive rock molto in voga anche nella nostra penisola, pensiamo alla parte finale di The Loneliness Of The Universe, ma soprattutto alle due prime tracce del primo disco, le lunghissime composizioni che lo aprono: The Earth (quasi ventinove minuti) e The Man (ben trentaquattro). Due autentici tour the force in cui la musica si sprigiona e la voce di Boris Savoldelli fa suoi i testi composti da Alessandro Ducoli.

Per quanto le note di copertina e il booklet siano bastevolmente esaurienti sui contenuti dei testi e su come i nostri due connazionali abbiano lavorato al disco, l’unico appunto chge ci viene da fare è che probailmente attribuirlo al solo Dwiki Dharmawan sia stata una scelta riduttiva, visto che si tratta di un vero e proprio lavoro d’equipe.

Complimenti e applausi al regista e a tutti i suoi collaboratori!

DWIKI DHARMAWAN – Pasar Klewer

di Paolo Crazy Carnevale

25 ottobre 2016

dwiki dharmawan pasar klewer[22]

DWIKI DHARMAWAN – Pasar Klewer (Moonjune Records 2016, 2CD)

A poco meno di un anno dall’uscita del suo primo disco per la label newyorchese riecco il pianista indonesiano Dwiki Dharmawan, alle prese con un progetto ancor più ambizioso, poliedrico e senza dubbio riuscito. Stavolta al banco di regia al fianco di Dharmawan troviamo nientemeno che il titolare della casa discografica Leonardo Pavkovic, solitamente produttore esecutivo, che qui ci mette del suo per garantire la riuscita di un disco davvero efficace; c’è poi il chitarrista britannico Mark Wingfield che oltre a suon are la sua sei corde elettrica si occupa anche del missaggio e del mastering dio questo doppio CD.

Rispetto al disco precedente, in cui spadroneggiava il Fender Rhodes del titolare, qui Dharmawan preferisce cimentarsi col piano acustico, assemblando una decina di brani tutti piuttosto lunghi in cui inserisce anche molti elementi della musica tradizionale del suo paese, ampiamente esplorata dal catalogo Moonjune grazie alle produzioni di altri connazionali del pianista: ecco quindi fare capolino, tra la scioltezza del pianoforte e la sezione ritmica, strumenti della tradizione e temi tradizionali appositamente riarrangiati da Dwiki.

Ma la genialità di Pavkovic in sede di produzione emerge dalla scelta dei comprimari, tutti abitué della sua casa discografica ma mai usati per altre produzioni con artisti indonesiani accasati presso la Moonjune: così oltre al citato Wingfield, troviamo la sezione ritmica che lo accompagna solitamente, il bassista Yaron Stavi ed il batterista Asaf Sirklis, entrambi israeliani, come il clarinettista Gilad Atzmon, presente anch’egli nelle registrazioni, che si sono tenute a Londra nell’estate del 2015. A far sembrare il gruppo come una sorta di Moonjune Records Allstar Band troviamo poi il chitarrista Nicholas Meier e il cantante Boris Savoldelli. In definitiva un dispiegamento di forze che non poteva di certo fallire l’obiettivo. Il progetto è senza dubbio ambizioso, ma alla fine i risultati ci sono, eccome: dopo la lunga composizione che titola il disco con il piano ovviamente in evidenza e la bella chitarra di Wingfield, troviamo Spirit Of Peace in cui gli elementi etnici si sposano con le acrobazie della sezione ritmica e col clarinetto di Atzmon che inserisce atmosfere proprie della cultura musicale ebraica mitteleuropea a lui familiare. Caposaldo del primo dischetto è probabilmente la versione di Forest, un brano che porta la firma di Robert Wyatt, uno dei grandi amori musicali, forse il più grande, di Pavkovic, che da bravo produttore lo affida all’ispirazione di Dharmawan e alle corde vocali dell’ineguagliabile Boris che ne offre un a versione jazz-blues impeccabile con una bella chitarra elettrica di Wingfield. E lo zampino di Wyatt fa capolino anche nella breve improvvisazione di London In June, che si sviluppa proprio prendendo il la dal tema del brano di Wyatt a cui la label deve il proprio nome.

Sul secondo disco Dharmawan – non dimentichiamo che il titolare è sempre lui – rilegge Lir Ilir, un brano tradizionale e una composizione di Benny Corda intitolata Bubuy Bulan, particolarmente riuscita è la sua composizione originale Frog Dance, con la chitarra acustica di Meier, mentre Life Its Self, composta dal batterista è decisamente molto free e permette a tutto il gruppo virtuosismi e acrobazie, con Wingfield e la sua sei corde decisamente a ruota libera. Gran finale con Purnama intensa e struggente ballata pianistica con di nuovo Meier all’acustica, che pur staccandosi dal contesto generale del progetto conferma la statura dell’autore e dei suoi comprimari conquistandosi la palma come uno dei brani più riusciti del disco. La chiusura è affidata ad una versione strumentale della Forest che avevamo trovato sul primo dischetto, non c’è la voce di Savoldelli qui, ma lo spessore dell’esecuzione rimane.

DWIKI DHARMAWAN – So Far So Close

di Paolo Crazy Carnevale

6 gennaio 2016

dwiki dharmawan

DWIKI DHARMAWAN
So Far So Close
(Moonjune 2015)

Il vasto catalogo che la Moonjune Records ha dedicato alla musica fusion di produzione indonesiana si è arricchito lo scorso autunno del disco di questo musicista molto amato nel suo paese e altrettanto considerato all’estero viste le sue numerose collaborazioni artistiche che lo hanno portato ad esibirsi in una sessantina di paesi. Per il debutto di Dharmawan sulla sua etichetta, Leonardo Pavcovich gli ha allestito una band di primordine, composta dall’ ex Yellowjackets Jimmy Haslip e dal batterista zappiano Chad Wackerman, impiegati spesso in altre produzioni di Pavcovich; in aggiunta non potevano mancare, alle chitarre, distribuiti quasi equamente nelle otto tracce del disco, i chitarristi Dewa Budjana e Thopati, conterranei del titolare e a loro volta accasati – musicalmente parlando – presso la Moonjune Records.

Il disco è nella scia di molte produzioni similari dell’etichetta newyorchese, una fusion molto fruibile che sorretta dall’eccellente sezione ritmica jazz-rock oriented si dipana generando trame multiformi e multicolori, toccando di volta in volta terreni differenti, con le tastiere di Dharmawan sempre in evidenza, sia che si tratti del fender rhodes elettrico, sia che le sue dita scorrano sul piano acustico o sui vari minimoog, hammond e korg usati nel corso delle registrazioni.

Il brano d’apertura, Arafura, è già indicativo della strada intrapresa da Dwiki Dharmawan ed è impreziosito dalla presenza, al violino di Jerry Goodman, altro musicista titolatissimo che negli anni settanta era stato uno dei Flock ed aveva poi prestato i propri servigi alla Mahavishnu Orchestra con McLaughling e Cobham e, negli anni novanta, ai riformati Dixie Dregs.

Tra i brani che emergono va citata la title track con un fantastico intervento di Thopati all’elettrica, il chitarrista regala al disco anche un pregevole momento nella successiva Whale Dance imbracciando però l’acustica. Con The Dark Of The Light il disco ricalca sonorità più tipiche della fusion mentre Jembrana’s Fantasy è una lunga elaborata e meno immediata suite dall’andamento decisamente free in cui è protagonista il piano acustico di Dharmawan. In chiusura è sicuramente da citare The Return Of Lamafa, in cui si avvertono influenze quasi barocche tanto distanti dal resto delle composizioni, quanto interessanti per l’ardita idea che ne sta alla base.