AARON WATSON – The Underdog

Aaron

Aaron Watson – The Underdog (BIG Label Records/IRD 2015)

Quello di Aaron Watson è senza dubbio uno dei casi discografici dello scorso anno, almeno per quanto riguarda la musica country d’ispirazione texana. Di questi tempi non è da tutti i giorni che un disco indipendente, per quanto registrato da un quasi veterano (Watson ha esordito nel 1999 anche se le prime soddisfazioni consistenti sono arrivate una decina di anni fa), venda ventiseimila copie nella prima settimana e sia catapultato prepotentemente nelle classifiche, raggiungendo il primo posto in quelle country e in quelle cosiddette indie, per non parlare del quattordicesimo in quelle totali di Billboard.

The Underdog è un classico disco di country texano ben confezionato, con alcune canzoni davvero vincenti, con testi mai scontati, suonate e cantate come si deve, pagando pegno un po’ qua e un po’ là, ma quasi sempre con bravura, col giusto tiro da ascolto in viaggio – che non guasta mai – e una miscela equilibrata tra la strumentazione più rockettara e quella più tradizionale.

Ecco quindi una serie di bei violini, in Getaway Truck ad esempio, banjos vari (nella delicata e ispirata Bluebonnets (Julia’s Song) e naturalmente le pedal steel guitar, suonate da Paul Franklin (il suo nome è di certo familiare a chi compra i dischi di Mark Knopfler ma lo troviamo anche ad accompagnare Shania Twain, Rodney Crowell e moltissimi altri) e dal mitico Dan Dugmore, veterano californiano, allievo nientemeno che di Sneaky Pete e già sentito al fianco di Linda Ronstadt, James Taylor, Stevie Nicks, David Crosby; in aggiunta ci sono poi le chitarre elettriche (il duetto elettrica/pedal steel di That’s Why God Loves Cowboys è una delle cose più belle del disco), spruzzate di tastiere classiche, sezione ritmica solida.

Il tutto messo al servizio di un songwriting e di una voce che attingono dalla scuola texana più classica, debitori in parti più o meno uguali nei confronti di Willie Nelson (ma la voce di Watson è migliore di quella del grande vecchio), Guy Clark, Ray Benson (il mitico leader degli Asleep At The Wheels). Il disco si compone di quattordici tracce, alcune migliori altre più deboli, alle prime oltre a quelle citate aggiungerei di sicuro That’s Gonna Leave A Mark e Blame It On Those Baby Blues dall’attacco energico con le chitarre in evidenza ed un refrain in odor di rock sudista che sembra fatto apposta per macinare chilometri (o forse è meglio dire miglia) lungo le polverose strade secondarie del Texas. Tra quelle meno impressive: Family Tree e la noiosa e già sentita Wildfire, accompagnata da un fastidioso handclapping, ma nel complesso il disco funziona bene, e lo confermano i tre singoli che ne sono stati tratti fino ad oggi. La produzione è di Keith Stegall, che ha già lavorato con successo al fianco di Alan Jackson, George Jones, Zac Brown.

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