GREG TROOPER – Live At The Rock Room

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GREG TROOPER – Live At The Rock Room (Shakes Records/Appaloosa 2016)

Devo essere sincero, dopo aver apprezzato Noises In The Hallway non avevo seguito la carriera di questo bravo songwriter del New Jersey, pur essendo a conoscenza del fatto che non si fosse fermato dopo quel disco. Sulle riviste avevo letto le recensioni delle sue uscite discografiche e quelle dei suoi concerti (se la memoria non mi inganna si è esibito anche nel nostro paese insieme al conterraneo Joe D’Urso), ma la mia conoscenza della sua musica si fermava al nastro su cui avevo registrato quel disco del 1996. Il mio ricordo – il nastro non lo ascolto più da tempo – era di un buon disco energico, molto rock, e d’altra parte le frequentazioni di Trooper erano gente come Steve Earle ed il suo produttore dell’epoca la buonanima di Gary W. Tallent, fondamentale sideman del Boss.

Trooper è sempre stato un vagabondo: le sue peregrinazioni musicali lo hanno portato da dal natio New Jersey ad Austin, poi a New York e di lì a Nashville, e ancora alla Big Apple, senza dimenticare il buon seguito conseguito nel vecchio continente.

Oggi Trooper ha sessant’anni ed è un cantautore maturo, dalla vena ispirata e dalla voce pregna di lirismo (qualcuno direbbe sapida), il suo sound e le sue composizioni sono lontane dalle atmosfere del Garden State, sono canzoni intime, sulla scia dei grandi maestri del songwriting degli anni settanta, quelli collocabili tra Nashville, l’Oklahoma ed il Texas: e non è probabilmente un caso che il disco sia registrato proprio in un locale di Austin, che di tale musica è la capitale incontrastata.

È un disco solido, inciso molto bene, essenziale, senza fronzoli: alla voce e alla chitarra di Trooper fanno da contorno solo i contributi di Jack Saunders al contrabbasso e di Chip Dolan che si alterna tra tastiere e fisarmonica fornendo alle canzoni un bel tappeto prezioso nell’economia della resa finale: probabilmente se non ci fosse questo minimale accompagnamento il disco potrebbe finire nell’affollato limbo dei dischi cantautorali chitarra/voce, non per demerito certo; la scelta di farsi accompagnare da un pur minimale duo premia la musica e le canzoni.

Le canzoni – tutte autografe – provengono per lo più dalla produzione recente, dei brani che conoscevo tramite Noises In The Hallway non v’è traccia. Il Greg Trooper di questo disco porta alla mente atmosfere profumate di bar male in arnese, strade impolverate, chitarre legnose, tutte caratteristiche di un’America lontana dai percorsi turistici di chi l’America l’assaggia solo con un mordi e fuggi nelle grandi città e possibilmente solo nei quartieri raccomandabili. Fin dalla prima traccia, This I’Do, il disco fa intendere di quale impasto sia fatto, la voce è bella e l’amalgama dei suoni insospettabilmente buona per un disco inciso in un piccolo locale. They Called Me Hank, una delle composizioni migliori, mi ricorda in qualche modo lo stile di scrittura di gente come il Ray Wylie Hubbard degli esordi, o il Jim Ringer di Tramps And Hawkers (sacro graal di certi miei amici), ma in Mary Of The Scots In Queens (il titolo suggerisce un gioco di parole) il richiamo è più diretto, e viene in mente l’immenso Tom Russell. E che dire di Amelia con la chitarra che arpeggia sul tappeto di fisarmonica mentre il contrabbasso diventa lo strumento principe?

Un bel disco, inatteso. Col pubblico che sembra apprezzare con entusiasmo la performance di Trooper e soci, dalla prima all’ultima nota, con altre punte notevoli in All The Way To Amsterdam, We’ve Still Got The Same, Everything’s A Miracle, un’altra delle perle del disco.

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