NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL – The Monsanto Years

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NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL
The Monsanto Years
(Reprise 2015)

Caro Neil… Non ci siamo proprio.

Ho provato ad ascoltare a più riprese questo The Monsanto Years, cercando di capire se si trattava solo di un mio mood particolarmente sbagliato al momento dell’ascolto, ma in definitiva credo davvero che si tratti di un disco se non brutto, comunque interlocutorio. Ascolto Neil Young facendo attenzione a tutte le sue sfaccettature da almeno trentasette anni, da giovinastro ho esultato ai tempi di Rust Never Sleeps, mi sono fatto cullare dalle melensaggini di Comes A Time, poi sono rimasto perplesso dalla produzione anni ottanta come quasi tutti, col beneficio d’inventario – a posteriori, quando anche da noi si sono risapute le problematiche familiari legate ai figli del musicista – di attribuirne la scarsa consistenza alle suddette problematiche. Ho esultato nuovamente quando gli anni novanta ce lo hanno restituito in gran forma e ho storto il naso più volte, per l’eccessivo zucchero di Harvest Moon, per l’assenza di idee mascherata da innovazione di Le Noise, per l’approssimazione di Fork In The Road, l’inutilità di Letter Home.

Amo e continuo ad amare Psychedelic Pill, Prairie Wind e l’idea di base di Greendale, che forse avrebbe meritato un approccio sonoro d’altro stile.

Ma Neil è così, imprevedibile, menefreghista di ciò che i suoi fan vorrebbero ascoltare. Strafottente nella sua irriducibile perseveranza nel fare solo quello che gli va. Ecco così che gli younghiani incalliti – e mi ci colloco anch’io nella categoria – sono costretti a subire angherie d’ogni tipo. A volte gratuite. The Monsanto Years è uno di quei dischi sbandierati con largo anticipo, figli di un momento particolare: Neil è incazzato con le multinazionali, e allora ci fa un disco, d’istinto, quasi buona la prima. Come ha fatto con il già citato Fork In The Road (che pessimo disco!) o con Living With War (di cui poi la prima evidentemente così buona non era, visto che c’è stata una seconda…). Quando Neil decide di innalzare i suoi peana contro qualcuno non guarda in faccia nessuno, tanto meno quelli che spendono i soldi per comprare i suoi dischi. Proprio recentemente nel sito “trasherswheat” da un referendum tra i seguaci (i suddetti younghiani incalliti) è emerso che per oltre il 37% di questi l’ultimo disco del canadese ad aver suscitato davvero interesse è stato Psychedelic Pill: qualcosa vorrà pur dire…

Messi in naftalina i Crazy Horse eccolo dunque in pista con i Promise Of The Real, la band di Lukas Nelson (il rampollo di Willie tra l’altro quando suona la solista sembra proprio un clone di Young), che comunque dei Crazy Horse sembrano essere epigoni quanto a sound. Una manciata di canzoni invettive, magari anche buone quanto ad intenzioni, forse ottime; quel che manca è il tessuto sonoro… il disco sembra abbastanza ripetitivo, poco ispirato. E a tratti le idee di Neil sembrano anche un po’ confuse: il terzo brano ad esempio, caratterizzato da alcune belle intuizioni chitarristiche, è costruito su un ossessivo ritornello – che è anche il titolo del brano – che ci ripete che la gente vuole sentire canzoni d’amore, come a volersi giustificare per il precedente romantico Storytone tutto dedicato alla love story con Daryl Hanna e appesantito dagli arrangiamenti orchestrali (tanto che nell’edizione deluxe è stato allegato il medesimo disco in versione acustica). La gente vuole ascoltare canzoni d’amore, ma qui invece le canzoni sono politiche. Il brano d’apertura di questo The Monsanto Years, A New Day For Love è decisamente bruttino, molto al di sotto degli standard del canadese e non contribuisce certo a predisporre di buon animo chi si pone all’ascolto del CD; molto meglio Hawk Moon, dal tessuto semi acustico che ricorda altri tempi e altri Neil.

Young riesce a collocare un brano del genere in quasi ogni disco – mi riferisco ai suoni – e non capisco perché non provi a fare un disco intero in questa direzione, per quanto la voce in questo disco sia davvero molto penalizzata. Gli oltre otto minuti di Big Box sono invece una lunga cavalcata elettrica di quelle spettrali cui da tempo siamo adusi ascoltando la musica di questo eclettico artista, il testo è quasi urlato sull’onda anomala delle chitarre, più che una canzone sembra un proclama recitato su una base musicale incalzante. A Rock Star Bucks A Coffe Shop è un altro peana, stavolta indirizzato verso la catena di coffee shop più nota d’America, è il brano portante del disco, quello orecchiabile, in maniera fastidiosa però: se le chitarre sono a posto e il sound younghiano emerge con vigore, il coro non è dei migliori e poi c’è l’insopportabile fischietto da gita in campagna coi boy scout che mi aveva fatto storcere il naso anche in Psychedelic Pull (disco comunque di tutt’altro spessore).

Workin’ Man è abbastanza noiosa nel suo dilungarsi e sa comunque di già ascoltato e anche Rules Of Change non brilla particolarmente, pur avendo una struttura musicale più interessante e varia. La title track sa anche di già ascoltato, e proprio su questo stesso disco, sette eccessivi minuti di invettiva, su un andazzo alla Neil Young già ascoltato in versioni decisamente migliori altrove. Più interessante la canzone che chiude il disco, If I Don’t Know, ma forse solo perché arriva dopo quattro brani poco entusiasmanti.

P.S. 1 – La copertina è leggermente meglio del solito, con Young e la novella fidanzata ritratti in una sorta di rifacimento del celebre dipinto “American Gothic”.

P.S. 2 – A giorni l’indefesso Neil pubblicherà il nuovo capitolo dei suoi live d’archivio, tanto per non smettere di taglieggiare il suo pubblico, stavolta quanto meno si tratterà di un concerto diverso dal solito visto che lo cattura durante il tour anomalo con i Blue Notes.

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