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JP & THE TOUGH CHOICES – Home Is Where The Hurt Is

di Paolo Crazy Carnevale

19 luglio 2015

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JP & THE TOUGH CHOICES
Home Is Where The Hurt Is
(Cow Island Music 2014)

Country. Null’altro. JP Harris preferisce che la sua musica venga indicata semplicemente così. Senza ricorrere a ulteriori definizioni coniate da chi deve scrivere e la musica non la fa di persona. Ed effettivamente è così, noi scribacchini tendiamo a voler definire a tutti i costi quello che i musicisti fanno, talvolta inventando termini che dicono poco o niente.

Attenendoci al desiderio di JP Harris di essere country e basta, bisogna però osservare che il termine country – almeno all’ascoltatore cisatlantico – può suonare fuorviante e il pensiero finisce col volare ai suoni di Nashville, da sempre un po’ ostici alle nostre orecchie. Eppure JP e i suoi Tough Choices questo sono. Ammetto che non mi sarei mai accorto di loro se non mi fossi imbattuto in un loro concerto lo scorso marzo al SXSW di Austin e posso dirvi che pur non avendo visto tutti gli artisti ivi convenuti per l’occasione, trovo azzeccata la definizione di Rolling Stone che ha inserito quello del gruppo come uno dei 21 live-act da non perdere assolutamente al SXSW.

Originario del sud, la solita immancabile Alabama, Harris è però cresciuto nel west, California e Nevada, e la sua musica sembra aver assorbito in toto le varie influenze musicali, gli stili e gli stilemi del country, da quello più tradizionale a quello venato di rock. Il risultato è folgorante, questo suo disco – il secondo – è sicuramente tra le cose più interessanti in cui mi sia imbattuto negli ultimi tempi, suonato bene, moderno, ricco di suoni (le chitarre sono sempre misurate ma si mescolano in maniera spettacolare, acustiche, elettriche, pedal steel: nessun mostro sacro nel gruppo, ma tutta gente che evidentemente ha imparato e mette a frutto gli insegnamenti).

Harris, barba da mormone e tatuaggi che spuntano dappertutto, ha una felice vena compositiva e in questo disco la ha affinata per bene, ha anche una voce originale e adattissima alla musica che fa, riuscendo a passare da punte di lirismo totale a toni baritonali talvolta richiesti dalla struttura dei brani. E il risultato è perfetto.

Give A Little Lovin’ è un ottima partenza, dimostra subito quale sia la pasta di cui Harris e soci siano fatti, le coordinate geografiche sono dirette, da Bakersfield a Nashville e ritorno, in soluzione di continuità, senza scordare le lezioni di gente come Buck Owens, Cash e Parsons (la title track dal testo struggente e Maria, che apre il lato B del vinile sembrano uscite da un disco dei Flying Burrito Brothers). Every Little Piece è un valzerone che sembra invece arrivare direttamente dai solchi di un disco dell’uomo in nero ed è ricco di spunti per i chitarristi. Ma non solo richiami alla musica altrui: il pregio di Harris e dei suoi Tough Choices è proprio quello di brillare di luce propria ed ecco quindi la deliziosa South Oklahoma, Old Love Letters dedicata ad un vecchio amore: “Stanotte ho tolto la tua foto dal muro – canta Harris – l’ho bruciata insieme ad alcune vecchie lettere, ma non mi pare che questo mi faccia sentire meglio. Almeno però non c’è nulla in giro che mi ricordi te…Perché le canzoni d’amore mi fanno sempre piangere?”

One Day Everyday viaggia musicalmente in territori honkytonk e anche qui i chitarristi (Adam Meisterhans, Chanve Mc Coy e Brett Resnick) hanno modo di sbizzarrirsi. Truck Stop Amphetamines sposta l’asse verso il Texas, è una canzone più intima, raccolta, eseguita quasi in punta di piedi e i riferimenti sembrano essere l’immenso Townes e Lovett. La chiusura è in chiave rockabilly – c’è persino il sax di Steve Berlin – ed è affidata alla tirata Young Women And Old Guitars, altro brano immediato e di ottima fattura che è la conferma definitiva della bontà del disco. Fidatevi, non ho esagerato nel tessere le lodi di questo artista…