CURTIS SALGADO – Damage Control

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Curtis Salgado – Damage Control (Alligator/IRD 2021)

Ascoltare nuovo materiale da Curtis Salgado è sempre una benedizione. Il cantante (e talvolta armonicista, ma qui solo in due brani purtroppo) di stanza a Portland e originario della stato di Washington, è ormai al suo quarto disco in casa Alligator, etichetta sinonimo di blues che ormai da decenni ci ha abituati a prodotti di qualità, anche se ogni tanto un po’ risaputi quanto a contenuti.

Salgado, che nella sua carriera è anche stato cantante dei Santana e della Robert Cray Band, è uscito a testa alta dai suoi problemi col cancro di una decina di anni fa e continua a dimostrare grande smalto nelle sue produzioni discografiche.
Damage Control è un disco pimpante, magari non sorprendente come il suo predecessore – un fantastico disco dalle sonorità acustiche condiviso con Alan Hager – ma comunque ben fatto e piacevole. Registrato tra Nashville e la California, il disco è prodotto dal titolare medesimo e ci presenta una serie di composizioni nuove di zecca, composte di volta in volta con alcuni dei musicisti coinvolti, o anche col partner del disco precedente.

È blues effervescente, elettrico, grintoso che punta ovviamente sulla voce di Salgado che graffia ancora con grande verve; tra gli accompagnatori spicca il nome di Mike Finnigan all’organo, un musicista immenso la cui carriera andrebbe totalmente riscoperta (basti pensare che compare persino in Electric Ladyland di Hendrix), alle chitarre si alternano Kid Andersen (prezzemolo un po’ eccessivo forse nelle produzioni Alligator), George Marinelli, Johnny Lee Schell, Dave Gross e Alan Hager, mentre il piano è suonato da Jim Pugh e Kevin McKendrick e alla batteria c’è tra gli altri Tony Braunagel, altro nome ricorrente nei dischi Alligator.

Tra le tredici canzoni incise da Salgado per questo suo nuovo disco spiccano senza dubbio Precious Time e Always Say I Love You (At The End Of Your Goodbyes), caratterizzate da due ottimi duetti con Wendy Moten, la cui voce di matrice gospel calza a pennello abbinata a quella di Curtis: il secondo brano poi ha un break centrale da peli dritti ad opera dell’organo di Finnigan che sembra far rivivere certe atmosfere di stampo The Band riconducibili allo stile del grande Garth Hudson.
E a dire il vero certe atmosfere southern country tipiche del gruppo canadese sono riscontrabili anche nell’attacco Hail Mighty Ceasar, anche qui il lavoro di Finnigan è da urlo, anche se il resto del gruppo fa virare il brano decisamente altrove. Waht Did Me In DId Me Well ci introduce invece ad un Salgado più in stile crooner (è uno dei due brani con l’armonica), che però convince meno. Meglio la successiva You Are Going To Miss My Sorry Ass; in I Don’t Do That No More vede il leader duettare con J.T. Lauritsen in una composizione veloce col pianoforte a far da guida e la mai invadente solista di Marinelli a rifinire con sapienza.

Oh For The Cry Eye vede di nuovo in pista la Moten, ma il brano convince meno degli altri in cui appare. Buon brano la title track, uno slow notturno ma non eccessivamente, contrappuntato dalle chitarre di Schell e Gross tra i cui lavori s’infila l’organo di Finnigan. C’è anche spazio per un po’ di zydeco con Truth Be Told in cui Curtis duetta con Wayne Toups impegnato ovviamente anche alla fisarmonica.

Tra le composizioni più blues c’è da segnalare poi The Fix Is In dove Slagado da un saggio fantastico della sua abilità come armonicista ed è un vero peccato che non si offra maggiormente in questo tipo di interventi, pregevolissimo anche il lavoro di “Petrosino” Andersen. Il disco si chiude con l’unica cover, il veloce rock’n’roll di Larry Williams Slow Down, con tanto di fiati, non irresistibile.

Paolo Crazy Carnevale

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