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CURTIS SALGADO – Damage Control

di Paolo Crazy Carnevale

30 maggio 2021

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Curtis Salgado – Damage Control (Alligator/IRD 2021)

Ascoltare nuovo materiale da Curtis Salgado è sempre una benedizione. Il cantante (e talvolta armonicista, ma qui solo in due brani purtroppo) di stanza a Portland e originario della stato di Washington, è ormai al suo quarto disco in casa Alligator, etichetta sinonimo di blues che ormai da decenni ci ha abituati a prodotti di qualità, anche se ogni tanto un po’ risaputi quanto a contenuti.

Salgado, che nella sua carriera è anche stato cantante dei Santana e della Robert Cray Band, è uscito a testa alta dai suoi problemi col cancro di una decina di anni fa e continua a dimostrare grande smalto nelle sue produzioni discografiche.
Damage Control è un disco pimpante, magari non sorprendente come il suo predecessore – un fantastico disco dalle sonorità acustiche condiviso con Alan Hager – ma comunque ben fatto e piacevole. Registrato tra Nashville e la California, il disco è prodotto dal titolare medesimo e ci presenta una serie di composizioni nuove di zecca, composte di volta in volta con alcuni dei musicisti coinvolti, o anche col partner del disco precedente.

È blues effervescente, elettrico, grintoso che punta ovviamente sulla voce di Salgado che graffia ancora con grande verve; tra gli accompagnatori spicca il nome di Mike Finnigan all’organo, un musicista immenso la cui carriera andrebbe totalmente riscoperta (basti pensare che compare persino in Electric Ladyland di Hendrix), alle chitarre si alternano Kid Andersen (prezzemolo un po’ eccessivo forse nelle produzioni Alligator), George Marinelli, Johnny Lee Schell, Dave Gross e Alan Hager, mentre il piano è suonato da Jim Pugh e Kevin McKendrick e alla batteria c’è tra gli altri Tony Braunagel, altro nome ricorrente nei dischi Alligator.

Tra le tredici canzoni incise da Salgado per questo suo nuovo disco spiccano senza dubbio Precious Time e Always Say I Love You (At The End Of Your Goodbyes), caratterizzate da due ottimi duetti con Wendy Moten, la cui voce di matrice gospel calza a pennello abbinata a quella di Curtis: il secondo brano poi ha un break centrale da peli dritti ad opera dell’organo di Finnigan che sembra far rivivere certe atmosfere di stampo The Band riconducibili allo stile del grande Garth Hudson.
E a dire il vero certe atmosfere southern country tipiche del gruppo canadese sono riscontrabili anche nell’attacco Hail Mighty Ceasar, anche qui il lavoro di Finnigan è da urlo, anche se il resto del gruppo fa virare il brano decisamente altrove. Waht Did Me In DId Me Well ci introduce invece ad un Salgado più in stile crooner (è uno dei due brani con l’armonica), che però convince meno. Meglio la successiva You Are Going To Miss My Sorry Ass; in I Don’t Do That No More vede il leader duettare con J.T. Lauritsen in una composizione veloce col pianoforte a far da guida e la mai invadente solista di Marinelli a rifinire con sapienza.

Oh For The Cry Eye vede di nuovo in pista la Moten, ma il brano convince meno degli altri in cui appare. Buon brano la title track, uno slow notturno ma non eccessivamente, contrappuntato dalle chitarre di Schell e Gross tra i cui lavori s’infila l’organo di Finnigan. C’è anche spazio per un po’ di zydeco con Truth Be Told in cui Curtis duetta con Wayne Toups impegnato ovviamente anche alla fisarmonica.

Tra le composizioni più blues c’è da segnalare poi The Fix Is In dove Slagado da un saggio fantastico della sua abilità come armonicista ed è un vero peccato che non si offra maggiormente in questo tipo di interventi, pregevolissimo anche il lavoro di “Petrosino” Andersen. Il disco si chiude con l’unica cover, il veloce rock’n’roll di Larry Williams Slow Down, con tanto di fiati, non irresistibile.

Paolo Crazy Carnevale

CURTIS SALGADO AND ALAN HAGER – Rough Cut

di Paolo Crazy Carnevale

7 febbraio 2018

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CURTIS SALGADO AND ALAN HAGER – Rough Cut (Alligator/IRD 2018)

Il disco dello scorso anno inciso da Keb Mo’ e Taj Mahal si era rivelato come una delle più interessanti proposte blues mainstream degli ultimi tempi, e per mainstream intendo un prodotto di gran classe ma rivolto non solo agli estimatori del genere. Questa recentissima proposta di casa Alligator (la casa del blues per eccellenza) rischia di esserne un illuminato epigono. Un altro duo, un altro modo di rileggere il verbo musicale del diavolo, in realtà neppure troppo distante da certe cose racchiuse nel disco di Mo’ e Mahal.

Stavolta la voce è una sola, quella unica e notevole di Curtis Salgado, vocalist e armonicista dello stato di Washington ma di stanza in Oregon che ha prestato le sue corde vocali a gruppi come Santana e Steve Miller Band, poi ha cominciato a fare il solista infilando una decina di dischi sparpagliati in un arco di tempo quasi trentennale, senza per altro smettere di collaborare con gente strafamosa.

Al suo fianco c’è il chitarrista Alan Hager, nativo dell’Oregon, il cui curriculum è meno blasonato, ma non per questo le sue doti tecniche sono meno valide; i due hanno messo insieme un gioiellino in cui le atmosfere vanno dal blues rurale ed acustico delle origini a quello leggermente elettrificato di Chicago, proposto però sempre con delicatezza quasi filologica.

Il risultato è un disco che ricorda molto l’approccio alla musica nera del Cooder degli esordi. Quelle sonorità, sia con la chitarra acustica che con quella elettrica, che trasudavano da Boomer’s Story e Into The Purple Valley per intenderci; si inizia con un brano originale intitolato I Will No Surrender, che potrebbe essere una dichiarazione di Salgado nei confronti del cancro che lo aveva colpito qualche anno fa e sembra ricondurci direttamente ai campi del Mississippi da cui arrivava John Lee Hooker, fin dalle prime note. È solo l’inizio, il disco procede esattamente su questi binari, la voce di Salgado è quella giusta, quella che ci piacerebbe trovare in ogni disco di blues, l’armonica vibra e la chitarra di Hager non è mai fuori posto; le tre canzoni successive, tutte originali, non sono da meno, in One Night Only ci sono persino un pianoforte ed una batteria, ma in I Want My Dog To Live Longer, una delle canzoni di punta, si ritorna all’acustico totale. Poi il duo affronta, in veste elettrica, I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, con rispetto totale dell’arrangiamento originale; Too Young To Die è di Sonny Boy Williamson e giustamente si apre con una bella introduzione di armonica, mentre Depot Blues di Son House sembra pagare ancora debito allo stile chitarristico di Cooder confermando l’ottimo stato di grazia della voce di Salgado e concedendo all’acustica di Hager lo spazio per una lunga parte centrale da solista. Midnight Train è un traditional e come ogni canzone sui treni che si rispetti ha in risalto la slide, ma c’è anche la voce di Larhonda Steele a fare il paio con quella di Curtis Salgado. Il sound torna elettrico con You Got To Move, poi, inattesa arriva Hell In A Handbasket, Salgado passa al piano e sfodera un brano autografo che rimanda alla visione del blues di Dr. John, è un flash, con Long Train Blues il suono è di nuovo dominato da armonica e chitarre. The Gift Of Robert Charles è una composizione strumentale di Hager, un blues lento che sembra un omaggio totale al Cooder di cui sopra: intensa, sofferta e bellissima.

Per suggellare un disco davvero riuscito, il duo prende in prestito un brano classico da un maestro del genere, I Want You By My Side di Big Bill Broonzy è la degna conclusione di un disco fatto davvero con amore.