BOB DYLAN – Another Self Portrait

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BOB DYLAN

Another Self Portrait/Bootleg Series vol.10

(Columbia 2013 4 CD Box)

  

Non frequento i blog dedicati a Bob Dylan e di rado vado a sbirciare nel suo sito ufficiale, ma credo di poter affermare che la decisione di imperniare il decimo volume delle Bootleg Series ad un periodo così oscuro e poco considerato della storia dylaniana come quello della transizione dagli anni sessanta ai settanta abbia colto più d’uno alla sprovvista.

Non fosse altro perché da un po’ si vociferava della possibilità di dedicare questo decimo volume alle session di Blood On The Tracks, come aveva fatto supporre la pubblicazione di un singolo in vinile uscito per il Black Friday dello scorso anno contenente un’inedita e superlativa versione di Meet me In The Morning. A cancellare ogni dubbio, lo scorso Record Store Day è giunto un altro singolo che annunciava l’uscita di Another Self Portrait. Come sempre l’industria discografica ha pubblicato il nuovo prodotto in maniera di cercare di spremere il più possibile l’acquirente. Francamente mi ero stufato di questi giochetti di immettere sul mercato più versioni dello stesso disco – quella normale con due dischi, quella in vinile, quella deluxe con libro fotografico e ulteriori dischi – ma alla fine ho scelto quella deluxe, ingolosito dalla presenza del concerto integrale dell’Isola di Wight, quello del 1969, l’unico concerto intero tenuto da Dylan tra quello della Royal Albert Hall del 1966 e il tour del 1974 ambedue con The Band. Tutte le esibizioni in pubblico tra queste due date sono state comparsate, alcune da urlo (pensate ai tre brani del tributo a Woody Guthrie del 1967), altre abbastanza routinarie (penso al concerto per il Bangladesh).

Chiaramente il concerto – con The Band anche questo – è solo la ciliegina sulla torta. Il piatto forte sono i due dischi assemblati dagli archivisti con materiale inciso tra il 1967 ed il 1971, con particolare riferimento ai dischi Self Portrait e New Morning. Diciamolo subito, non erano stati di certo due dischi da ricordare, personalmente ho sempre trovato il primo dei due un disco simpatico ma spiazzante e a tratti inutile, il secondo mi è scivolato via senza farmi particolare impressione, pur contenendo indubbiamente qualche brano da ricordare. E non ne farei semplicemente una questione di produzione, evidentemente Dylan in quel periodo era meno ispirato, forse confuso, o probabilmente gli andava solo di fare quello che stava facendo, con i risultati che sappiamo. Queste pubblicazioni d’archivio rendono in parte giustizia ai dischi originali, grazie al fatto che buona parte dei brani appare in versione nuda e cruda senza overdubbings orchestrali e cori fuori luogo. Soprattutto ci sono parecchie canzoni rimaste fuori dai dischi ufficiali, canzoni forse migliori di quelle uscite all’epoca. Per quasi tutto il disco ci sono solo Dylan, David Bromberg e Al Kooper che propongono arrangiamenti scarni e minimali che convincono abbastanza. Tra versioni demo di Went To See the Gipsy – pare ispirata da Elvis Presely – e When I Paint My Masterpieces, con testo leggermente diverso, troviamo una vera e propria miniera di gemme assolute, come una versione di Only A Hobo con Happy Traum, Annie’s Going To Sing Her Song di Tom Paxton, una New Morning addizionata da fiati che non dispiacciono, una versione alternata di I Threw It All Away, ottimi traditional come This Evening So Soon, Railroad Bill, Bring Me A Little Water Sylvie (un classico nella versione di Leadbelly, ripresa anche da Pete Seeger e dalle Sweet Honey In The Rock).

Tra le cose che spiccano c’è una versione come si deve di If Dogs Run Free, spogliata degli orpelli jazz con cui era stata pubblicata nel 1971, e ci sono due brani con George Harrison, Time Passes Slowly e il devertissement di Working On A Guru. C’è anche un estratto dai Basement Tapes, quella Minstrel Boy rispolverata un paio d’anni dopo per il concerto a Wight.

La versione deluxe contiene la versione dell’originale Self Portrait, mai ristampata in versione rimasterizzata, e il concerto di cui sopra. Un concerto che come i dischi incisi in quel periodo lasciò dietro di sé fiumi di critiche. Ascoltarlo oggi fa piacere, dopo averlo visto in svariate versioni bootleg messe insieme con registrazioni di fortuna di differenti provenienze. Non è certo un concerto memorabile, ma si colloca perfettamente in quella che era la dimensione dylaniana dell’epoca. Accompagnato dalla Band, Dylan concede un’oretta di musica, con tanto di intermezzo acustico, tutta cantata con la stessa strana voce che aveva usato in Nashville Skyline. Nulla fa presagire a quello che Dylan ci avrebbe propinato nei due anni seguenti, piuttosto ci troviamo vicini all’impostazione dei Basement Tapes, rilassatezza casalinga, i sei musicisti suonano davanti al pubblico oceanico del festival come se fossero nello scantinato di Big Pink a suonare per sé stessi.

Forse questo è il vero limite del concerto che peraltro offre comunque alcuni spunti davvero notevoli come I Dreamed I Saw Saint Augustine, Highway 61 Revisited, I Threw it All Away, One Too Many Mornings, I Pity The Poor immigrant e le immancabili Maggie’s Farm e Like A Rolling Stone.

Vi rimando al prossimo numero dell’edizione cartacea di Late For The Sky per un ulteriore e inedito approfondimento sul Dylan di quel periodo.

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