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Rock & Pop, le recensioni di LFTS/11

di admin

29 dicembre 2010

BBB COVERBUTTERED BACON BISCUITS
From The Solitary Wood
2009 Black Widow CD

 

Buttered Bacon Biscuits chi sono costoro? Forse un nuovo psichedelic breakfast di recente fattura? No, solamente un intrigante gruppo di musicisti che arrivano dalla Romagna e assemblatisi in questa avventura dopo aver suonato in varie band locali. Una per tutte la citazione va ai Goldrust dei quali abbiamo parlato precedente su queste pagine. La loro è una ricerca tesa a ricreare sonorità tipiche degli anni ‘70 che miscelano nello spazio di poco più di cinquanta minuti rock, prog, metal, southern e psichedelia occulta. La sua principale prerogativa è quella di essere molto ben suonato e di rendere l’anima al diavolo sotto forma di suoni a tutto tondo, esattamente al loro posto e assolutamente ben delineati. Perfettamente azzeccata la voce che si unisce in modo mirabile alla notevole ritmica strumentale con tastiere e chitarre di eccellente livello. In attività dal 2008, i BBB ci regalano decisamente un ottimo gioiellino che recensiamo sul nostro sitoblog grazie al consiglio dell’amico Eufrosini che ben gliene incolse quando ebbe l’illuminazione di illuminarci e alle sempre attiva Black Widow che ne cura la distribuzione e alla quale abbiamo chiesto e ottenuto il dischetto. Suona come le migliori cose di tranta/ quaranta anni fa ma come detto arriva dai giorni nostri per questo crediamo che Ricky, Aro, Alex, Pera e Steve, pur disdegnando nelle note del libretto i loro cognomi, possano considerarsi decisamente promossi e data la loro forza, bravura ed energia attesi al prossimo esame con immenso piacere. Il problema a volte è sempre quello della provenienza, ovvero che se detti personaggi con tutto il loro dischetto arrivassero che ne sappiamo dall’Ohio o da qualche sperduta cittadina dell’Ontario o da Abilene allora forse susciterebbero maggior interesse. Ma visto che arrivano da lidi nostrani rischiano di passar inosservati. Ci fa piacere comunque di aver trovato recensione del loro lavoro su una nota testata musicale di qualche mese fa, questo ci conforta e ci stimola ad andar avanti, sempre avanti, abbiamo superato anche il fatidico numero 100. Eccellente la copertina che ci trasporta indietro magicamente nel tempo, peccato sia penalizzata dalle misure del CD, un cartonato formato vinile sarebbe stato straordinario. Per concludere cercate su www.myspace.com/butteredbaconbiscuits quando e dove ci sarà un loro concerto e non fatevelo scappare.

Ronald Stancanelli

BODEANS
Still
2008 Shy Songs CDbodeansstill_cov

 
Carriera altalenante quella più che ventennale dei Bodeans di Kurt Neumann e Sam Llanas, con almeno due lavori da avere assolutamente: l’esordio Love & Hope & Sex & Dreams del 1986 e lo splendido doppio dal vivo Homebrewed del 2005. L’ultimo capitolo, Mr. Sad Clown, uscito quest’anno, francamente non è un gran che, quindi vi parlo del disco precedente, datato 2008 e intitolato Still. Album sicuramente da ascoltare, molto ispirato e ricco di belle canzoni, prodotto da “Re Mida” T-Bone Burnett. Belle canzoni come l’iniziale scheletrica Pretty Ghost o la splendida The First Time che ci riporta ai monumentali Del Fuegos di Smokin’ In The Fields (disco da recuperare e rivalutare assolutamente) e che ti si appiccica addosso senza staccarsi più. Willin’ (non quella) è springsteeniana fino al midollo, Lucile invece l’abbiamo già sentita molte volte, con altri titoli, negli ultimi quarant’anni, ma è destinata comunque a fare faville dal vivo. Mi piacciono molto anche la più tirata Waste A Lifetime (via di mezzo fra Gin Blossoms e Jesse Malin), la ballata Everyday e l’autunnale e malinconica Hearing; anche se in realtà tutti i pezzi sarebbero degni di menzione perché, pur senza la pretesa di cambiare la storia del rock, e ce ne vuole, non ce n’è uno di brutto. Ad accompagnare i due leader ,chitarre e voci, un gruppo di tutto rispetto, con quell’autentico mantice di Kenny Aronoff alla batteria, sempre alla batteria e percussioni in un paio di brani troviamo Jay Bellerose e Noah Levy. Bukka Allen (figlio d’arte) alle tastiere e alla fisa, Michael Ramos al B3 più Eric Holden al basso. Una piccola nota di demerito invece per il libretto interno, con i testi scritti a caratteri microscopici, a toglierci per lo sforzo anche le ultime diottrie rimasteci. Un po’ più grandi non si poteva proprio? Non inventano niente i Bodeans, ma si lasciano ascoltare veramente con molto piacere, fatelo anche voi.

Gianfranco Vialetto

MARILLION
Marbles
2004 Intact Recordings CDmarillionmarblescop

 
I Marillion sono un nome storico del prog; storico perché hanno, nel 1983, quando nessuno o quasi si filava più questo genere musicale, rivitalizzato la scena con un album meraviglioso come Script For A Jester’s Tear e dato il “la” a un movimento che ha tra i suoi protagonisti altri gruppi validissimi come Pallas, Pendragon, Jadis, It Bites, IQ e molti altri. Perso per strada il cantante e frontman Fish, si sono dovuti ricostruire una nuova immagine e verginità, ma hanno avuto la fortuna di incontrare il validissimo Steve Hogarth, per tutti semplicemente H. Molto diverso, sia come personaggio che musicalmente, dal suo predecessore, H ha saputo dare un nuovo sound, molto più moderno, al gruppo e ha vinto le naturali e comprensibili perplessità dei fan, riuscendo a entrare nel cuore di tutti con una evoluzione (e come potrebbe essere altrimenti) che tiene conto delle sonorità del nuovo millennio (Radiohead?) album dopo album. Qui ci occupiamo di Marbles, pubblicato nel 2005, tredicesimo prodotto della loro discografia e registrato grazie al finanziamento dei fan tramite prenotazione anticipata del lavoro finito (quasi tredicimila adesioni). Molti i momenti memorabili in questo Marbles. Ascoltate l’evolversi delle tastiere in The Invisibile Man, quattordici minuti di prog assolutamente moderno e adatto al XXI° Secolo, con un pizzico di psichedelica che non guasta; oppure il crescendo di You’re Gone, potenziale hit single, vagamente U2, ritmata, orecchiabile e bellissima. Se Bono avesse deciso di entrare in un gruppo progressive, avrebbe cantato così. I componenti storici del gruppo, Steve Rothery alla chitarra, Pete Trevawas al basso, Ian Mosley alla batteria e Mark Kelly tastiere, sono sempre in grandissima forma e si dimostrano eccellenti strumentisti. Ascoltateli nella stupenda Angelina, che da soffuso pezzo quasi blues, si trasforma in un brano dolcissimo con delle chitarre e tastiere quasi pinkfloydiane, ma con un senso del pop che fu dei primi 10cc. Come resistere all’intro di Don’t Hurt Yourself, altro brano che farebbe un figurone in qualsiasi scaletta radiofonica degna di tal nome, con un ritornello di quelli che “acchiappano” al primo ascolto. Affascinante poi il crescendo di Fantastic Place, che da un inizio molto d’atmosfera, si eleva fino a coinvolgere e trasportare chi ascolta fin lassù, fra le nuvole. Provate ad ascoltarla a occhi chiusi. Concettualmente, come trasporto emotivo, sembra di essere tornati ai tempi dei migliori U2, anche se si tratta di generi musicalmente abbastanza diversi. Drilling Holes è un ideale punto d’incontro fra Beatles, XTC (citati anche nel testo) e i Porcupine Tree, il cui tastierista, ex Japan, Richard Barbieri, è amico di H e suona nei dischi solisti di quest’ultimo. Degna chiusura di uno splendido album, la pianistica Neverland, anche questa, come tutte, molto coinvolgente e con uno splendido lavoro alla chitarra da parte del solito, sempre più bravo, Steve Rothery. Undici minuti che passano veramente in un batter di ciglia, e vorresti non finissero mai. Bello anche il concepì di copertina con la foto del bimbo che sovrappone agli occhi delle colorate biglie di vetro, Marbles appunto, come quelle con cui giocavamo da piccoli, e che sono un po’ il filo conduttore dell’intero lavoro. Se il senso del prog letteralmente deve essere quello di progredire costantemente, e musicalmente è soprattutto uno stato della mente, bene, i Marillion sono ancora fra i suoi esponenti migliori. Album fantastico questo Marbles, di cui mi sono letteralmente innamorato. Procuratevelo nella versione in doppio CD con quattro brani in più (fra i quali i diciotto strepitosi minuti di Ocean Cloud, prog allo stato puro, e la meravigliosa Genie, canzone che ti ritrovi a canticchiare quasi senza accorgertene) o, meglio ancora, in quella lussuosissima in vinile. Entrambi sono rintracciabili solo sul sito del gruppo. Grandi Marillion!

Gianfranco Vialetto

THE PINEAPPLE THIEF
Somenone Here Is Missing
2010 Skope153 CDPINEAPPLE

The Pineaaple Thief. Ma chi li conosceva sino a un paio di mesi fa! Poi al festival prog di Veruno un volantino ne pubblicizzava il concerto nell’interland milanese da li a pochi giorni. Data la straordinaria suggestione della copertina del loro disco che troneggiava sul volantino ne sono restato notevolmente colpito e interessato. Più tardi, in uno dei vari banchetti che contornavano la famosa Piazzetta della Musica ove era collocato il palco, trovavo in una bellissima confezione cartonata a mo’ di libro rilegato il loro CD e, a dispetto di un prezzo non certamente a buon mercato, ma sulla fiducia della copertina che mi aveva magicamente stregato, acquistavo questo sconosciuto CD. È un disco strano ma che al primo ascolto ti colpisce per la sua disarticolata peregrinazione musicale, parte e va e non si riesce a capire dove voglia arrivare. Non ricorda praticamente altri gruppi per fare paragoni o esempi. O, forse, in alcuni frangenti sembra di trovarsi in un deja vu senza però venire a capo della radice della questione. Un amico mi dice rammentino i Muse. Boh, sarà ma io sinceramente non li ho mai ascoltati! Ormai l’ho sentito oltre una decina di volte e ogni ascolto mi colpisce positivamente in maniera maggiormente preponderante alla precedente. I suoni passano veloci, sincopati, si rincorrono e vari crescendo esaltano l’ascoltatore dandogli la sensazione di scoprire qualcosa di nuovo a ogni ascolto. Mi ero ripromesso di andare a vederli, poi, non avendo trovato alcuna anima pia disposta ad accompagnarmi ho desistito mangiandomi però le dita ora che i miei ascolti mi hanno portato a considerare questo CD uno dei più interessanti dell’ultimo periodo, ma ahimè il concerto è passato la festa andata e il santo gabbato e chissà quando ci sarà una successiva occasione. Della particolare e fantasiosa copertina si è già detto come del fatto che sia stata la stessa a incuriosirmi e così complice anche un adesivo che li bollava come prog-rock adesso detto CD gira nel mio lettore. Ho al momento Internet non attivo e non posso quindi documentarmi in questo momento su di loro. Scartabellando la messe di innumerevoli libri che ho sull’argomento nessuno li cita o ne parla. L’unico tomo, plauso agli autori, è “Prog40” da noi recensito nei numeri scorsi che così ci erudisce: trattasi di band britannica nata inizialmente come progetto spin off dei Vulgar Unicorn. Il gruppo si appoggia totalmente alla figura del cantante chitarrista Bruce Sord, infatti testi e musiche di tutti i brani sono a sua firma. Gli altri componenti sono Jon Skykes ai bassi, Steve Kitch alle tastiere e Keith Harrison alla batteria. Secondo “Prog 40” la loro musica potrebbe far pensare a qualcosa che in ambito di space rock (!) erano soliti proporre i Pink Floyd nel primissimo loro periodo. Sinceramente a me non hanno dato questa impressione! Diciamo che la loro caratteristica, che è poi quella che mi ha colpito nei vari ascolti, è la capacità di attuare inizialmente suoni soffusamente pacati ed eterei per portarli con sistematica bravura a crescendi che focalizzano in toto l’attenzione dell’ascoltatore. Queste sospensioni psichedeliche in maniera decisamente garbata, pulita ed elegante, ne fanno decisamente un gruppo da prendere in seria considerazione. Esiste un loro precedente lavoro del 2007 dal titolo What We Have Sown. Per quanto concerne invece questo abbiamo nove splendidi momenti musicali con uno decisamente stratosferico dal titolo So We Row, ma ribadiamo che è tutta l’opera nella sua interezza che colpisce in modo diretto e preciso verso un risultato che alla fine non può non appagare. Le tematiche musicali sono alquanto simili come se si trattasse di un’unica suite cementata con notevole soluzione di continuità. I musicisti suonano con imperitura maestria col risultato finale di proporre un disco di grande interesse e un supporto dai suoni puliti, decisamente precisi e delineati come quelle giornate in cui la visione sino all’orizzonte è nettamente chiara e incisiva. Questa versione cartonata, comprendente ottime e curiose fotografie nell’interno del libretto, contiene due bonus track di cui una totalmente inedita e l’altra che è versione acustica di un pezzo facente parte dell’ossatura dell’album. Sicuramente un CD e un gruppo su quale gettare un occhio e un orecchio.

Ronald Stancanelli

DARK QUARTERER
Symbols
2008 My Graveyard Prod. CDdarkquarterercov_

È proprio vero che nascere in un luogo anziché in un altro ti modifica l’esistenza. Se i Dark Quarterer provenissero infatti da qualche città industriale inglese, tipo Sheffield o Birmingham, anziché dalla Toscana, sarebbero delle stelle di prima grandezza del firmamento heavy metal. Sono più di trent’anni che il gruppo di Gianni Nepi, voce e basso, Paolo “Nipa” Ninci, batteria, Francesco Sozzi, chitarre, e Francesco Longhi, tastiere si sbatte per farsi un nome nell’ambito del panorama metal internazionale. E alla luce di questo Symbols sarebbe un vero peccato non ci riuscisse. Sì, perché questa loro quinta prova sulla lunga distanza è davvero un monolite di incredibile potenza e bellezza, e il fatto che arrivi da un gruppo italiano riempie di orgoglio. Sessantotto minuti per solo sei brani, il più corto dei quali ne dura nove, il più lungo quasi quindici. Non un solo secondo è però da buttare, tutti i passaggi, raffinati e tecnicissimi sono essenziali allo svolgersi del pezzo. Il comun denominatore fra i brani dell’album è che sono tutti ispirati e dedicati a famosi personaggi storici. Il giovane faraone egizio Tutankhamen parla di sé in Wandering In The Dark (grandissimo l’assolo di chitarra di Francesco Sozzi). Ides Of March è ovviamente dedicata a Caio Giulio Cesare. Parte con delle tastiere molto evocative e cresce davvero potente con intervalli più soffusi quasi progressive e un’ottima prova interpretativa del cantante e autore (anche se in comproprietà) di tutti i brani Gianni Nepi. Una dovuta menzione va anche ai testi, molto curati nel descrivere e ripercorrere la vita del protagonista del brano. Pyramids Of Skulls parla di Gengis Khan, e sembra davvero di trovarsi nel bel mezzo delle scorrerie della cavalleria dell’esercito mongolo. Nella voce e nel canto di Gianni Nepi si sente tutta la potenza, la cattiveria e la ferocia del condottiero. Maestosa nel suo incedere, The Blind Church racconta di Giovanna D’Arco e descrive fin dal tono nel canto la fede della pulzella d’Orleans. Un brano bellissimo con una chitarra elettrica che mi ricorda a tratti il ritornello di Child In Time dei Deep Purple. Bravissimi. Tutti. Il senso del titolo, Symbols, sta nel fatto che, come spiegato nelle note di copertina, ogni sentimento umano può essere simbolicamente identificato nei soggetti protagonisti dell’album, che, come simbolo per la copertina ha scelto L’Uomo Vitruviano di Leonardo Da Vinci, in quanto rappresentazione della perfezione del corpo e della spiritualità. Ultimi due brani Shadows Of Night, molto ritmato e con accenni quasi jazz, con protagonista lo schiavo Kunta Kinte e la sua fuga per la libertà, e Crazy White Race, che inizia sulle note di una inconfondibile marcetta dell’esercito confederato all’epoca della guerra di secessione, dove siamo trasportati nel tepee del capo Apache Chiricaua Geronimo che, nel momento della caduta, chiede aiuto per sé ed il suo popolo a Manitou. Veramente grandioso. Forse ai nostri per sfondare davvero manca un po’ il cosiddetto physique du role, ma noi, che del look ce ne fregiamo, dischi come questo li vorremmo sempre in cima alle classifiche. Lasciate perdere l’ultimo lavoro degli Iron Maiden e prestate invece attenzione ai Dark Quarterer. Nel suo genere questo disco è un capolavoro. Credetemi.

Gianfranco Vialetto

 

THE SADIES
Darker Circles
2010 YepRoc Records CDsadiescov_

I canadesi Sadies sono come il buon vino, invecchiando migliorano. Dopo una serie di album (sette prima di questo) disseminati in dodici anni di carriera, ma mai andati oltre un vago interesse solo per pochi e informati appassionati, e alcune collaborazioni, più (Neko Case) o meno (John Doe) riuscite, giungono a questo Darker Circles che, prodotto dall’ex Jayhawks Gary Louris, inconfondibile il suo tocco, è senz’altro il loro parto più riuscito. Piacciono i Sadies, sia quando giocano a modernizzare i Byrds, quelli degli inizi come in Violet And Jeffrey Lee o nell’iniziale, strepitosa e leggermente più garage Another Year Again, e quelli più country in Postcards, sia in brani come Whispering Circles, dove giocano invece a fare i R.E.M. che giocano a fare i Byrds. Quelli di Reckoning, forse i miei preferiti. Bellissima anche Cut Corners, con la sua epicità da frontiera americana, piacerà sicuramente a Sid Griffin. Solo trentasei minuti, che passano in un lampo, tra il garage/ fuzz con richiami anche a Link Wray di Another Day Again e una ballata come Tell Her What I Said, a metà strada fra il primo Neil Young e i Green On Red più rilassati e tradizionalisti. Sono molti i riferimenti rintracciabili in questo disco, oltre ai già citati Byrds e, per ovvie ragioni, ai mai troppo rimpianti Jayhawks. Si va dal Paisley Underground al country rock californiano di Idle Tomorrows; da una ballata come The Quiet One, che avrebbe fatto un figurone in un qualsiasi disco delle più titolate band degli anni ’80 e mi ricorda un po’ anche i monumentali Church di The Blurred Crusade, al country/ punk di Choosing To Fly col suo tripudio di fidale e banjo fino alla strumentale conclusiva 10 More Songs, dove si possono trovare anche richiami alle colonne sonore di Ennio Morricone e perfino alcune cose degli Shadows. Un ultimo gruppo che viene in mente, attivo una decina di anni fa, sono i Cosmic Rough Riders, britannici, che ormai forse non se li ricorda più nessuno. Davvero bravi Sean Dean, Mike Belitsky, Dallas e Travis Good. Si fossero formati trenta o quarant’anni fa adesso sarebbero un gruppo di culto. Ma non è mai troppo tardi, i bei dischi non hanno data di scadenza, e noi di “Late For The Sky”, che di sterili questioni cronologico/ anagrafiche ce ne freghiamo, non possiamo assolutamente perderci questo gioiellino senza tempo. Grande Disco.

Gianfranco Vialetto

 

 

CHEAP WINE
Stay Alive
2010 Cheap Wine Records 2CDStay_ALive[1]

 
Da tempo non ascoltavo un disco come questo nuovo doppio dal vivo dei Cheap Wine, registrato nell’aprile del 2010. La band marchigiana è maturata incredibilmente, specialmente negli arrangiamenti e nella qualità delle composizioni, ponendosi ormai ai vertici della scena rock europea. Non sto scherzando! Il primo dischetto, incentrato sulla produzione più recente, è semplicemente perfetto. La voce calda e insinuante di Marco Diamantini e la raffinata chitarra del fratello Michele guidano l’opener Just Like Animals; poi il suono si inasprisce nello splendido boogie The Sea Is Down, nel quale emergono il prezioso piano dell’ospite Alessio Raffaelli (dei riminesi Miami & The Groovers), una slide paludosa e l’armonica di Marco. La ballata Circus Of Fools e le atmosfere da frontiera americana dell’evocativa A Pig On A Lead (la chitarra acustica di Michele e il piano si completano alla perfezione) completano il poker di brani tratti da Spirits, il recente indispensabile disco in studio della band. Ma ogni brano merita una citazione: l’intensa Murdered Song, la cantautorale Nothing Left To Say (quell’inizio di armonica e piano è un evidente richiamo a Springsteen, anche se la voce ricorda Steve Wynn), la gloriosa Among The Stones tratta dall’esordio del 1998, l’evocativa e malinconica Evil Ghost con un emozionante crescendo strumentale di slide e piano, una bella cover di Youngstown, lenta nella parte cantata, trascinante nella lunga coda strumentale e la ritmata Shakin’ The Cage. Il secondo dischetto è più elettrico e trascinante, con tracce provenienti in prevalenza da Moving del 2004 e Freak Show del 2007 che evidenziano ancora di più le qualità prorompenti della chitarra di Michele. Il cambiamento di clima si percepisce in Dance Over Troubles che parte con un riff potente, accoppiato con il piano rock ‘n roll di Raffaelli, l’armonica e la voce di Marco e un assolo di chitarra distorto il giusto; un’impressione confermata nella sparata Reckless, un rock punk tiratissimo. Il resto si mantiene su ottimi livelli, ma una citazione è inevitabile per il fulcro del dischetto, il tour de force della strepitosa Loom And Vanish, un brano epico con un inizio acustico che si sviluppa con un progressivo crescendo, raggiungendo l’apice nel magnifico assolo di Michele. Un doppio live degno dei classici degli anni ‘70; il riassunto glorioso della storia di una band che, se prevenisse da Seattle o da Birmingham, godrebbe di ben altra considerazione e popolarità.

Paolo Baiotti

 

 

BLUE COUPE
Tornado On The Tracks
2010 Blue Coupe CDblue_coupe[1]

 

I tre componenti dei Blue Coupe hanno un passato glorioso. I fratelli Albert e Joe Bouchard sono stati la sezione ritmica dei Blue Oyster Cult nel periodo d’oro della band americana, il primo alla batteria e il secondo al basso; entrambi sono ottimi compositori e cantanti discreti. Dennis Dunaway è stato il bassista di Alice Cooper sino al 1976, poi ha collaborato con Joe nel trio Bouchard Dunaway & Smith, mentre Albert ha formato i Brain Surgeons con i quali ha inciso numerosi dischi. Ovviamente, il suono è ispirato principalmente dall’hard rock classico degli anni ‘70, ma non solo. Joe in questi anni ha ripreso a suonare la chitarra, ha insegnato musica e ha affinato le sue capacità di compositore e cantante, mentre Albert ha mantenuto le caratteristiche di mistero e inquietudine presenti nei suoi brani migliori. E il disco è impregnato di questo particolare tipo di atmosfera che ha reso grandi i BOC, non a caso definiti le menti pensanti dell’hard rock americano. I Blue Coupe hanno iniziato a suonare insieme tre anni fa; qualche concerto e numerose prove sono sfociati nella registrazione di Tornado On The Tracks. L’inquietante opener You (Like Vampires) è stata nominata per i Grammy nella categoria di migliore canzone rock e se lo merita appieno, mantenendosi in equilibrio tra rock e gusto per la melodia. L’aspra Angel’s Well ha un testo del poeta Jim Carroll e la partecipazione di Robbie Krieger alla chitarra, mentre Deep End è una tipica composizione di Albert (anche voce solista). La melanconica ballata God I Need You Tonight scritta da Dunaway completa l’ottimo poker iniziale dell’album. I brani successivi sono più alterni; interessante la cover di Dolphin’s Smile, una traccia minore dei Byrds nella quale il trio evidenzia impasti vocali inattesi, ottima Untamed Youth che riesce a mantenere un clima di mistero con una melodia pop, dura e cadenzata Waiting For My Ship composta e cantata da Dennis nello stile dell’Alice Cooper Band. Un esordio promettente da parte di tre professionisti che non si accontentano di riproporre solo i brani classici del loro repertorio. Il sito della band è www.bluecoupeband.com.

Paolo Baiotti

 

 

IQ
The Wake Live At De Boerderij
2010 Gep/Spv CD+DVDiq_live[1]

 
La new wave del progressive britannico dei primi anni ‘80 ha prodotto alla fine una sola band di successo, i Marillion almeno fino a quando il cantante Fish è rimasto nella formazione e tante band rimaste confinate in una nicchia, tra le quali Twelfth Night, Pendragon, Pallas, IQ. Questi ultimi si sono sempre caratterizzati per una coerenza di fondo e la testardaggine nel restare fedeli ai dettami del prog (con una sbandata alla fine degli anni ‘80). Sono ancora sulla breccia faticando come tutte le band indipendenti, ma hanno mantenuto uno zoccolo duro di fan che hanno apprezzato la loro coerenza. Il secondo album The Wake è uno dei più amati dalla band; per celebrarne il venticinquennale ne hanno pubblicato un’edizione limitata quadrupla con demos, outtakes, qualche inedito e un DVD (di qualità video modesta) seguita da un tour nel corso del quale per la prima volta l’album è stato eseguito interamente. Dalla data olandese di Zoetermeer è stato pubblicato un doppio, con un CD che ripropone The Wake e un DVD che aggiunge i bis del concerto. The Wake è un disco emozionante, sicuramente debitore del prog dei Genesis, ma la band non è puramente derivativa, ha personalità forti nel cantante Peter Nicholls e nel chitarrista Mike Holmes, mentre il nuovo tastierista Mark Westworth non fa rimpiangere Martin Orford che ha lasciato il quintetto tre anni fa. Ogni traccia meriterebbe una citazione; la cadenzata title track, la complessa The Magic Roundabout con cambi di ritmo e atmosfera che dimostrano il gusto per la melodia, le capacità strumentali dei musicisti e la teatralità del cantante (che si apprezza maggiormente nel DVD) con un epico crescendo finale della chitarra di Holmes, la drammatica Widow’s Peak, uno dei classici del progressive degli anni ‘80 e la conclusiva, melodica Headlong che si apre in un finale splendido, prima cantato e poi strumentale. Il concerto è piacevole da vedere sul DVD con le proiezioni di immagini e video che accompagnano le canzoni e l’aggiunta di tre brani, Infernal Chorus (con una drammatica interpretazione di Nicholls) e Failsafe dall’ambizioso doppio concept Subterranea e l’intricata suite The Darkest Hour, fluida nonostante i molteplici cambi di ritmo, dal non dimenticato Ever, un altro album che meriterebbe di essere eseguito interamente.


Paolo Baiotti

 

 

FLYNNVILLE TRAIN
Redemption
2010 Next Evolution CDflynnville[1]

 

Vengono da Middletown, una cittadina dell’Indiana nel mezzo del Midwest, i quattro componenti dei Flynnville Train, il cantante Brian Flynn (dotato di una bella voce potente e profonda che a tratti ricorda Ronnie Van Zant), il chitarrista Brent Flynn, il bassista Damon Michael e il batterista Tommy Bales. Hanno esordito nel 2007 con l’omonimo album per l’etichetta del country singer Toby Keith, ma non sono riusciti a emergere; ci riprovano con Redemption, decisamente più spostato verso il rock rispetto all’esordio. Le radici sudiste si sentono eccome e non solo nella voce di Brian, ma è evidente anche l’influenza dell’hard rock classico e del country più ruspante, non quello industriale di Nashville. L’opener Home e la grintosa Preachin’ To The Choir evidenziano con orgoglio la matrice southern del quartetto, anche nei testi vicini alle tematiche della working class. On Our Way è un up-tempo country che resta in testa, 33 Steps una ballata che nelle parti vocali ricorda CSN, Alright un rock energico con richiami agli Aerosmith degli anni ‘70. Notevole Friend Of Sinners, un brano ben costruito con cambi di ritmo e un testo di carattere religioso. Più scontati lo slow country The One You Love e l’honky-tonk di Tip A Can. Molto piacevole il southern country Turn Left con un riuscito intreccio di chitarra elettrica, slide e violino, trascinante il boogie blues Scratch Me Where I’m Itchin’ (non particolarmente originale). Si chiude con una cover di Sandman degli America, con intrecci vocali degni della versione originale nella prima parte e una coda accelerata in puro stile sudista. Undici brani abbastanza brevi e serrati per una band interessante anche in prospettiva. Reperibile sul sito www.flynnvilletrain.com.

Paolo Baiotti

 

PREACHIN STONE
Uncle Buck’s Vittles
2010 Preacher Stone CDpreacher[1]

 

Ci sono ancora band che suonano southern rock. Certo, contaminato dal country e da qualche schitarrata hard rock, ma fondamentalmente il buon vecchio rock sudista dei Lynyrd Skynyrd e degli Outlaws. Una di queste è formata da quattro ragazzi del Nord Carolina giunti al secondo album. I Preacher Stone aderiscono alle parole d’ordine dei bravi redneck (Dio, patria, famiglia, rispetto per la natura, amore per le armi). Inoltre sono talmente attaccati al locale che è diventato quasi la loro seconda casa da dedicargli il titolo del disco: Uncle Buck’s All American Grill è il pub di Salisbury, NC. nel quale suonano ogni fine settimana e che li ha sostenuti a inizio carriera. E di strada ne hanno già fatta! Curato nella confezione e nel suono, il disco ribadisce con forza le radici e le intenzioni di Ronnie Riddle (voce) e Marty Hill (chitarra), leader e principali compositori del quartetto che comprende Josh Sanders al basso e Brent Enman alla batteria. Tra i brani spiccano la granitica Can’t Keep A Good Man Down, la ballata Carved In Stone con un testo dedicato ai veterani, il morbido country rock Come On In, la classica ballatona sudista Hand On The Bible (il testo riguarda il legame indissolubile tra genitori e figli) nella quale emergono la voce potente di Riddle e una chitarra raffinata. A tratti (Nuff Said ad esempio) siamo ai confini con l’hard rock o con il country pop (lo slow Don’t Take Me With You), ma la strada maestra non viene smarrita e Save My Soul ci riporta in piena atmosfera sudista nel testo relativo a un condannato all’impiccagione e nel suono skynyrdiano con un ottimo assolo di Hill. Nel finale due brani atipici: Judge Me Not, un rock vicino al suono grunge composto e cantato da Sanders e una cover di Come Together tosta e ruvida, forse un po’ greve. Per informazioni il sito della band è www.preacherstone.com.

Paolo Baiotti

 

 

TOM GILLAM & TRACTOR PULL
Play Loud… Dig Deep
2009 Blue Rose CDtom_gillam[1]

 

Tom Gillam è un compositore, cantante e chitarrista cresciuto tra il New Jersey e Philadelphia che da anni si è trasferito ad Austin. Con i suoi Tractor Pull ha inciso quattro album in studio, questo live e una raccolta con inediti pubblicata solo in Europa dalla preziosa label tedesca Blue Rose. È uno dei tanti musicisti di roots rock ai confini con il country che macinano chilometri faticando il giusto (e anche di più) per riuscire a emergere. Commesso in un negozio di dischi ha iniziato tardi a incidere, ha avuto gravi problemi di dipendenza dall’alcool e dalle droghe sfociato in una serie di infarti più o meno gravi che lo hanno portato a un passo dalla morte nel 2006. A quel punto è riuscito a ripulirsi e a cambiare vita, quasi un nuovo inizio coinciso con lo spostamento in Texas. Ha una voce che nelle canzoni più morbide ricorda Don Henley e in quelle più veloci e grintose Joe Walsh. La qualità delle composizioni non è straordinaria e questo è un suo limite; ma non mancano passione, energia e carattere, specialmente dal vivo. Registrato tra il 2007 e il 2008 nel corso del tour di Never Look Back, il dischetto offre un riassunto significativo della carriera di Gillam. La grintosa Outside The Lines, la melodica Disappearing Act, il roots rock trascinante di Dallas con il prezioso apporto della solista di Craig Simon e la jammata Shake My Hand con le chitarre che si inseguono senza paura mi sembrano le tracce più convincenti. Interessante la cover della pop song The Girl I Knew Somewhere dei Monkees (una delle band preferite di Tom) in medley con l’inedito strumentale Nova’s Journey. Un live energico e ruspante con versioni allungate e improvvisate senza strafare, che ha il pregio di evidenziare i meriti di Gillam e della sua band più di quanto non avvenga negli album in studio.

Paolo Baiotti

RAY WILSON
Propaganda Man
2008 xxx CDwilson prop man

Di Ray Wilson si può dire, oltre al fatto di essere un ottimo cantante e un bravo autore di canzoni, di avere un gran limite. Ovvero di continuare perseverando oltre ogni misura a confrontarsi in modo ormai quasi irritante coi Genesis. Ci eravamo già permessi precedentemente sulle pagine di “Late” di far notare come nei suoi concerti i pezzi da lui proposti dei Genesis erano ben la metà se non oltre rispetto a quelli a sua firma, anche se nell’ambito di un live show ci può stare, considerando anche che alcuni brani erano decisamente di piacevole ascolto, ricordiamo per fare un esempio tangibile Dancin’ With The Monnlight Knight che pur potendo soffrire un confronto con la voce di Peter Gabriel era da Wilson proposta con notevole spessore. Ma il fatto che a volte ci disorienta è che Ray Wilson è autore di brani non solo piacevoli ma decisamente belli e potremmo qui citare Change, Another Try, Lemon Yellow Sun, She, Sarah, Show Me The Way, Goodbye Baby Blue, The Airport Song, Bless Me, Propaganda Man, On the Other Side, Not About Us con Banks e Rutheford e ci fermiamo qui, essendocene molti altri. Di conseguenza, una accusa rivolta al buon artista scozzese, e non solo da noi, era quella di essersi da un po’ di tempo un attimino fossilizzato sul versante Genesis, pur avendo spiccate doti personali (ovviamente come cantante ma soprattutto come autore di testi) e, infine, il che non guasta, aver fisique du role e notevoli doti di performer sul palco. Questa peculiarità espressa dal vivo che rasentava un certo rischio da un lato era controbilanciata dal fatto che i brani targati Genesis avevano una valenza e un impatto decisamente superiori sul pubblico di quanto non potessero fare canzoni a lui ascritte. Il che potrebbe anche essere vero, ma il vostro cronista le varie volte che lo ha visto dal vivo ha sempre apprezzato e atteso i suoi pezzi più che le varie cover anche se è indubbio che un brano molto noto vive di una sua palese efficacia. Pur ribadendo che tutto questo discorso è riferito al versante live del nostro amico musicista. Quello su cui adesso ci sentiamo di dissentire in toto è il suo nuovo album dal titolo Genesis Klassic nel quale ripropone, questa volta in studio, dopo averle fatte dal vivo in salse varie, ovvero elettriche o acustiche, dette canzoni con una band supportata da un quartetto d’archi. Piacevole o meno, bello o non bello pensiamo che questo sia solamente un disco di cui non si sentiva il bisogno e la riprova è nel fatto acclarato e assodato che il pezzo migliore ovvero Constantly Reminded, peraltro già proposta dal vivo nel CD Live With The Stiltskin, è brano suo! Pur ammettendo che il disco in questione non è malaccio lo saltiamo orientandoci sul precedente del quale per questioni di tempo, che a volte manca e vola pure via, non eravamo riusciti a parlare in altre occasioni. Propaganda Man è un bel disco, certamente inferiore a Change del 2003, ma a differenza di quello che era immediato per quanto concerneva la ricezione da parte dell’ascoltatore questo che forse al primo ascolto può lasciare un pochino indifferenti cresce in modo esponenziale nei successivi fino a divenire decisamente un ottimo, piacevole album. Tutte le canzoni sono firmate da lui in modo solitario o con l’aiuto di Scott Spence, Ali Ferguson e Graeme Hughes. La durata del CD è quella canonica dei vecchi LP che stavano a pelo nella facciata di una C90 e che restano tuttora i tempi più esatti per l’assimilazione di un album.

Ronald Stancanelli

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/1

di admin

2 novembre 2009

La rubrica “Rock&Pop” sino a ieri presente nelle pagine del nostro Organo Ufficiale ha traslocato nel nostro sitoblog. Questo per almeno due motivi: primo, per non far invecchiare eccessivamente i contributi sulle novità discografiche (novità nel senso latefortheskyiano del termine, ovvero “novità si fa per dire”); secondo, per recuperare qualche pagina sulla rivista e dedicarla all’approfondimento. Pubblicheremo quindi in questo spazio le varie recensioni delle (per noi) più interessanti uscite discografiche. Buona lettura.

 

 

COBB & THE OTHER APOSTLEScobb001
I Leave My Place To The Bitches
2009 RNRCW CD

Quello che colpisce maggiormente nei prodotti discografici targati Alessandro Ducoli, sia che si tratti di lavori come quelli con i Bartolino’s o altri gruppi con cui da sfogo ai suoi impulsi cantautorali, sia che si tratti di dischi dall’impianto più dichiaratamente rock (il disco che sto recensendo e quelli degli Sanishjohnny), è l’incredibile spontaneità, che li attraversano dall’inizio alla fine. Ducoli è un genuino su tutti i fronti, uno che fa dischi perché gli piace farli, forse sotto sotto accarezza anche il sogno di ritagliarsi una fetta di fama o successo, ma in realtà non ne ha bisogno, perché la mole di dischi che ha prodotto in poco più di dieci anni di attività gli è già valsa comunque un bel posto tra i musicisti degni di rispetto. Ducoli è un generoso in tutti i sensi, perché c’è bisogno di dischi come questo, un disco pieno di energia, sicuramente più da band rispetto al precedente, che peraltro godeva di una magia tutta sua e per certi versi mi aveva forse colpito di più. Forse ora manca l’effetto sorpresa, ma in compenso c’è una classe da vendere, e come sempre l’urgenza di dire delle cose, a partire dal concetto, anzi dal fatto reale da cui il disco prende il titolo: una triste considerazione sul fatto che la maggior parte dei bar in cui il nostro era solito esibirsi sono diventati locali da spogliarello, nella migliore delle ipotesi. E allora ecco spiegato perché Ducoli/Cobb lascia il suo posto alle signorine, nei confronti delle quali peraltro non nasconde una certa simpatia. Un disco quasi interamente elettrico: rispetto a Easylove, il suo predecessore, ci sono forti venature funk, dall’iniziale title track (uno shuffle) alla successiva Like a Rolling Stones (dal titolo fuorviante). Il riferimento sembrano essere gli anni ‘70, soli di chitarra squarcianti, tastiere penetranti, una voce femminile al posto giusto, come nell’ottima Straight Up Coffee. Piace anche la nonchalance con cui Ducoli/Cobb, quasi a sottolineare questo dualismo di identità, passa dalla lingua inglese all’italiano nel corso della stessa canzone. E soprattutto piace pensare che in una remota valle dell’alta Italia ci sia qualcuno con le palle di continuare a fare la musica in cui crede con tanta costanza e prolificità. E vale la pena di tessere le lodi di House In The Woods, il brano che conclude questa ennesima fatica del nostro: non ho dubbi che se Neil Young ascoltasse questa canzone direbbe che l’avrebbe voluta scrivere lui, lui che nel suo ultimo disco non è riuscito a includerne nemmeno una che sia bella solo la metà di questa.

Paolo Crazy Carnevale

 

 

JOE COCKERcocker_woodstock[1]
Live at Woodstock
2009 A&M CD

Lo dico subito: della location di questo concerto non mi importa nulla. Sarà magari solo per ragioni anagrafiche, ma il mito di Woodstock mi è arrivato addosso già sdrucito e invecchiato, come un bel sogno di altri sognatori ormai trasformato in incubo. Qui può bastare ricordare che all’indomani della sua strepitosa performance al celebre festival Joe Cocker era passato dal rango di giovane promessa a quello di superstar, vittima predestinata di tante e tali pressioni commerciali da portarlo in pochissimi anni allo sfascio psicofisico (quel vacuo sguardo da tossico impietosamente ritratto in certe copertine degli anni ’70!). Importa invece che dopo 40 anni questa resta, appunto, una performance strepitosa. La fisicità dei ruggiti di Joe è quella di un ragazzo tutto sensualità e sentimento che fa evadere il rhytm and blues dalle prigioni in cui stava rinchiuso – le poltroncine di velluto dei night club, le luci basse delle sale da ballo, ma anche i teatri dai quali i soul brothers & sisters avevano appena cominciato a cercare di fuggire – per riportarlo in mezzo agli esseri umani “di mente e di cuore” come avrebbe detto Joni Mitchell. Stiamo parlando di entertainment, sia chiaro, e la scaletta dei brani eseguiti lo dimostra senza possibilità di dubbio: tre soli brani originali, e poi due cover della premiata copia soul Ashford & Simpson, una di Ray Charles, tre brani di Dylan (su tutti, una Just Like A Woman da spezzare il cuore), la Feelin’ Allright dei Traffic e a finire la beatlesiana With A Little Help From My Friends trasformata in un inno tutto anima e viscere. Una tipica scelta di repertorio, insomma, da “cantante di successo”, come miliardi di mestieranti. A fare la differenza, è innanzi tutto il cuore di Joe, la convinzione con cui le pulsazioni vengono messe in sintonia con la voglia di vita e di felicità di chi ascolta, e poi i musicisti, forse tecnicamente non eccelsi (però alle tastiere c’è Chris Stainton, destinato con merito a un luminoso futuro), ma dal feeling immenso. Uno dei pochi dischi di Woodstock che ancora oggi ha senso ascoltare: qui c’è il Joe Coker migliore, quello che col cuore gonfio di sentimento, i sensi tesi ad afferrare la felicità per riempirsene l’anima e le roche ombreggiature della voce ha incarnato, come forse nessun bianco in tutta la storia della nostra musica, lo spirito del rhytm and blues: la vita come ritmo di passione e sensualità, sofferto eppure gioioso, inesorabilmente risucchiato dal gorgo della morte.

Luciano Salvati

 

 

JOHN HAMMONDhammond
Rough & Tough
2009 Chesky Records CD

Quasi cinquanta anni di carriera, forse il più grande interprete ed esecutore bianco della musica blues di tutti i tempi, Hammond riesce ancora a stupirci con un nuovo album, grazie a una voce calda e coinvolgente, un tocco chitarristico unico unito alle sonorità stupende che riesce a trarre dalla sua armonica. Con un palmares di un Grammy Award e un WH Handy Award, oltre a diverse nomination, il 26 giugno di quest’anno ha suonato il suo 4.000° concerto. Una produzione discografica enorme, oltre trenta album, iniziata nel 1962 ma con pochissimi lavori non all’altezza. Hammond è soprattutto un grande interprete, perché ha scritto pochissimo, delle canzoni di tutti i grandi del blues, solo per citarne alcuni Muddy Waters, Chuck Berry, Jimmy Reed, Son House, Sonny Boy Williamson e Howlin‘ Wolf, ma un brano già ascoltato migliaia di volte nella sua esecuzione riesce a regalare ancora nuove sensazioni che ti coinvolgono in modo particolare. Quindici brani, classici senza tempo, prodotti da G.Love, nei quali John si fa aiutare da Stephen Hodges, drums, Marty Baloou al basso e Bruce Katz alle tastiere, mentre John suona acoustic and 12 strings guitar, National steel e armonica. Il disco è stato registrato nel novembre del 2008 in NYC, alla St. Peter Episcopal Church. Le canzoni, quasi tutte già interpretate da John, si susseguono senza sosta, una più bella della altra: My Mind Is Ramblin’ del suo idolo Howlin’ Wolf, She’s Though, Chattanuga Choo Choo, il classico di Glen Miller davvero stupendo, Statesboro Blues di Willie McTell, I Can Tell di Bo Diddley, No PlaceTo Go, It Hurts Me Too di Elmore James, I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, solo a titolo di esempio. Notevole il booklett allegato con notizie e foto. Un disco da non perdere.

Daniele Ghisoni

 

ZACHARY RICHARD
Last KissZACH RICH
2009 Artisti Garage CD

Amiamo svisceratamente Zachary Richard da tempo immemorabile e chi ci segue da tempo ben lo sa. Zach, dopo alcuni ottimi album in lingua francese per i cui giudizi riferentesi agli ultimi vi rimandiamo al numero 92 torna a fare un disco il lingua inglese. Ci siamo già soffermati precedentemente sulle motivazioni che possono spingere il cantante canadese ora a optare per l’uso dell’idioma francese, ora per quello anglofono evitando quindi di ripeterci. Per la precisione erano comunque diciassette anni che un suo CD non veniva proposto nell’idioma inglese e se i precedenti in tal lingua non ci avevano entusiasmato più di tanto, a parte Snake Bite Love del 1992, qua troviamo un lavoro che risente del pathos dei suoi LP francofoni ma con la riuscita capacità di coniugarlo appunto con la lingua inglese, e trattasi di un lavoro splendido. È ovvio che la lingua francofona abbia quel quid di pathos in più che la caratterizza ma Last Kiss, questo il titolo del nuovo album, è lavoro intenso e lancinante come nelle sue migliori pagine del passato. Eric Sauviat è protagonista alla chitarra mentre, tra gli ospiti, abbiamo Celine Dion nel bel duetto su Acadian Driftwood di Robbie Robertson. Le restanti undici canzoni sono tutte a firma Richard e vi ritroviamo Au bord de Lac Bijou già ripresa in Italia da Fabrizio Poggi, unica canzone qua proposta in francese. Freddy Koella al mandolino, violino e steel ci fa capire che trattasi della stessa già pubblicata precedentemente da Richard e un ascolto più attento ci conferma che è la stessa apparsa su Cap Enrage nel 1996. Peccato, ovviamente pensavamo fosse una nuova versione. Non sappiamo il riscontro che questo disco in inglese potrà avere sugli acquirenti di tal lingua e anche se da sempre Zachary lo preferiamo quando canta in francese questo è sicuramente un lavoro tra i più suggestivi della sua discografia, anche se ancora una volta a e ormai definitivamente, purtroppo crediamo, dobbiamo rassegnarci al fatto che non viene assolutamente più da lui usata la fisarmonica! Si poteva scegliere una foto di copertina migliore poiché questa rende impietosamente evidente il passare degli anni, e trattasi inoltre di foto decisamente mediocre. Molto più affascinante quella col cappello che fa mostra di se nella seconda pagina del libretto accluso e che, se usata in copertina, avrebbe maggiormente reso giustizia al disco. Come di consueto, i testi raccontano con maestria della sua terra e delle sue vicende. Un gran bel disco tristemente invernale orientato mestamente anche sul trascorrere del tempo, ma quello del trascorrere del tempo e della nostalgia era caratteristica primaria anche del suo splendido penultimo lavoro, Lumiere dans le Noir. (Per Rosi, passata come una meteora…).

Ronald Stancanelli

 

 

LOW ANTHEMlow[1]
Oh My God, Charlie Darwin
2008 Bella Union (Usa, Europa 2009)

Disco dell’anno? Questo Oh My God, Charlie Darwin ha nel primo ascolto, e soprattutto nei successivi, un impatto devastante come fu quello di tanti anni fa ascoltando i novelli Cowboy Junkies. Arrivano da Providence nel Rhode Island e sono Ben Knox Miller, Jeffrey Prystowsky e Jocie Adams. Questo album ha venduto circa 7000 copie semplicemente con l’interesse che il passa parola data la loro indubbia bravura ha generato. Chi li ha visti dal vivo e ha poi comprato il loro CD ne ha parlato, e così via sino a che, alla fine, è stato appena pubblicato anche in Europa per la Bella Union. Credo che chi li ascolterà ne resterà affascinato e sicuramente un ulteriore passaparola positivo si creerà anche da noi. I primi 5000 CD erano numerati a mano e una prima parte degli stessi addirittura con la copertina dipinta a mano da Miller che è anche pittore. Molteplici e variegati gli strumenti utilizzati nel gennaio 2008 quando il disco è stato registrato, anche una cetra, tabla, e un organo a pompa. Realmente è difficile citare un brano a discapito di un altro ma certamente To Ohio e Charlie Darwin si ergono tra le canzoni più belle che abbiamo ascoltato in questo 2009. Le voci sono perfette e così ogni singolo strumento. Nulla è lasciato al caso come nada es fuera de lugar o desordenado. I brani si alternano tra dolci ballate acustiche e sincopati ritmi elettrici. Appena finisce, la durata è quella canonica degli LP di una volta, circa 42 minuti, viene voglia immediatamente di riascoltarlo e l’unica cosa che può dispiacere per un lavoro di questo tipo è il non avere tra le mani un vinile con bella grande e rigida copertina cartonata ma un semplice piccolo dischetto digitale. Uno dei dischi più belli che ho ascoltato ultimamente, probabilmente il migliore, che non mi stancherà di consigliarvi di acquistare esortandovi, se l’effetto sarà lo stesso che ha fatto su di me, di continuare un meritato passa parola. Crediamo possa realmente essere disco dell’anno e in attesa (pare che sarà così, che vengano anche in Italia) di andare a vederli, ci accingiamo a riascolatre Charlie Darwin per l’ennesima volta. Il loro precedente CD What The Crow Brings è uscito nell’ottobre del 2007. Esiste anche un album datato 2006 dal titolo Low Anthem edito in un paio di centinaia di copie vendute direttamente da loro ma è stato poi da loro stessi ritirato con nessuna intenzione di mai più ripubblicarlo. Benvenuto quindi a questo combo che pensiamo in un immediato futuro farà sicuramente ancor parlare di se. Quattro stellette se non qualcosa di più.

Ronald Stancanelli

 

loreley

MARILLION
Recital Of The Script
2009 Emi 2 CD
Live From Loreley
2009 Emi 2 CD

Tra il 1983 e il 1987 i Marillion sono stati il gruppo di riferimento per gli appassionati di rock progressivo. Nella loro scia hanno cercato di emergere altre band principalmente britanniche (Pendragon, I.Q., Pallas, Twelfth Night), ma solo i Marillion hanno ottenuto un notevole riscontro commerciale almeno in Europa. Guidati dal carismatico cantante marillionFish, con Steve Rothery alla chitarra e Mark Kelly alle tastiere, Pete Trewavas al basso e Mike Pointer alla batteria hanno pubblicato lo splendido album d’esordio Script For A Jester’s Tear nel 1983. Recital Of The Script ci permette di rivivere uno dei momenti migliori di quel periodo, la seconda data all’Hammersmith Odeon di Londra del 19 aprile, ultima serata di un tour trionfale. Parzialmente pubblicato in versione video, il concerto viene stampato per la prima volta integralmente in due dischetti. Oltre a versioni eccellenti dei brani dell’album, tra i quali spiccano la title track, un classico del prog con cambi di ritmo perfetti e un’interpretazione cristallina di Fish, la complessa The Web, la melodia indimenticabile di Chelsea Monday con Rothery in primo piano e la drammatica Forgotten Sons, vengono eseguite le b-sides Charting The Single e Three Boats Down From The Candy e il primo singolo Market Square Heroes. Ma, soprattutto, come bis possiamo riascoltare la suite Grendel, pubblicata originariamente come b-side, un brano mitico per i fan e mai troppo amato dalla band, forse un po’ acerbo e derivativo (alcuni passaggi ricalcano fortemente i Genesis), ma interpretato teatralmente da Fish che, come il suo idolo Peter Gabriel, usava costumi e maschere sul palco. Quattro anni dopo la band è in una fase molto diversa, come spiega Fish nelle interessanti note del booklet. Dopo il successo crescente culminato con Misplaced Childhood, un album concept perfetto salito in cima alle classifiche europee spinto dai singoli Kayleigh e Lavender, le fatiche di tour intensivi, un quarto disco meno riuscito (Clutching At Straws) e contrasti tra i musicisti hanno minato l’equilibrio interno. Quando il 18 luglio del 1987 i ragazzi salgono sul grande palco di Loreley davanti a ventimila fan per uno dei concerti più significativi del tour, la tensione è al massimo. La voce di Fish non è più quella degli esordi; gli sforzi richiesti dal repertorio della band, i troppi concerti e stravizi di ogni tipo hanno ridotto la sua autonomia (non a caso Cori Josias lo affianca come corista). I Marillion sono ancora una band in forma, anzi tecnicamente sono migliorati, ma hanno perso in freschezza. Anche questo concerto è stato pubblicato negli anni ‘80 in videocassetta e poi in DVD, ma non integralmente. Il cadenzato opener Slainte Mhath, una complessa White Russian e la deliziosa ballata Sugar Mice rappresentano bene il nuovo album nel primo dischetto, alternate ai classici Incubus e Fugazi, oltre alla inevitabile Script For A Jester’s Tear. Il secondo compact si apre con la sequenza Hotel Hobbies/ Warm Wet Circles/ That Time Of The Night, seguita dalla prima facciata di Misplaced Childohood e dalla trascinante The Last Straw. I bis comprendono Garden Party e Market Square Heroes con l’attiva partecipazione del pubblico. Pochi mesi dopo Fish lascia la band per intraprendere una carriera solista che non riuscirà mai a decollare, mentre i Marillion lo sostituiscono con Steve Hogarth e cambiano gradualmente genere musicale, virando verso un pop rock un po’ freddo, non privo di spunti interessanti. Lasciata la Emi sono diventati indipendenti, hanno un sito internet molto ben gestito e uno zoccolo duro di appassionati, ma le emozioni suscitate negli anni ‘80 restano nel cuore dei fan che li hanno seguiti e apprezzati in quel periodo irripetibile.

Paolo Baiotti

 

 

MIAMI & THE GROOVERSGROOVERS
Merry Go Round
2008

Noi che siamo fruitori, la rivista e questo sitoblog ne sono esempio lampante, di musica straniera non possiamo non dare atto al gruppo dei Miami And The Groovers di avere fatto un album, vabbeh chiamamolo CD, di enorme impatto, immediato e dirompente. È un lavoro che potrebbe senza alcuna riserva essere uscito dal New Jersey e di New Jersey nostrano si tratta. Lorenzo Semprini, lead vocal, chitarre e armonica, Claudio Giani al sassofono, Marco Ferri alla batteria, Beppe Ardito alla chitarra elettrica, Luca Fabbri al basso e Alessio Raffaelli alle tastiere e fisarmonica omaggiano i propri ascoltatori di un album a cento miglia all’ora tra campagne e praterie. I ragazzi, arrivano chi dall’Emilia chi dalla Romagna, ci verrebbe di dire tra la via Emilia e l’East, e hanno masticato nel loro percorso da Southside Johnny a John Cafferty passando tra le maglie di Willie Nile, Murray McLauchlan, Elliott Murphy, non disdegnando certo l’ascolto di Springsteen o dei nostrani Rocking Chairs. Tredici brani di spumeggiante ritmo e di cinematografica espressione quasi tutti a firma di Semprini o da solo o in coppia con vari compagno di gruppo. Il CD è dedicato a Warren Zevon e tra gli artisti ospiti ci fa piacere trovare amici di come Joel Guzman, gia fisarmonicista con Joe Ely, Jono Manson, cantautore ormai ubicato dalle nostre parti e Marc Reinsman all’armonica. Se i primi brani seguono le coordinate degli artisti su citati, My Sweet Rose sta tra i Lucky Seven e i Black Sorrow e i nostri amici, qua con Guzman, sono a cavallo del confine muovendosi mirabilmente nella Sun Belt. Ma non finisce qua, poiché un pezzo come The Time Has Come ci porta nelle praterie dei Green On Red e la passione che trasuda sia da questo brano che dal resto finora ascoltato ci porta lontano e ci fa sognare e ben sperare se escono qua dischi di siffatto livello. Poi il genere sarà di nicchia, la distribuzione magari non facile, il pubblico non sarà nell’ordine delle migliaia di fan ma ce ne fossero di prodotti di siffatta levatura. Noi li abbiamo incontrati e poi sentiti suonare e quando ne avremo l’occasione saremo di nuovo li perché questo è il nuovo che avanza. Questo CD è stato preceduto nel 2005 da Dirty Roads, bel titolo per un album del quale contiamo di parlarne quanto prima. La produzione è affidata allo stesso Semprini e la registrazione effettuata a Trebbiantico, mixato a Ravenna e ulteriori tracce inserite tra San Marino e gli States. La voce, molto bella, di Semprini a tratti ricorda Graziano Romani e non smetteremo mai di ringraziare l’Emilia Romagna per tutta la buona musica donataci in questi anni. I brani si susseguono e in Sliding Doors la chitarra trasversalmente ci ricorda il suono di Philip Donnelly. Un album che più va avanti più ci piace. Non c’è una canzone minore o di riempitivo, tutto è ben dosato e ogni pezzo trascina con passione il seguente. Andate sul sito di questo gruppo sia per procurarvi il CD che per scoprire quando e dove suoneranno la prossima volta. (www.miami-groovers.com).

Ronald Stancanelli

 

 

MUDDY WATERSMUDDY
The Johnny Winter Sessions 1976 – 1981
2009 Raven Records CD

Chi pensava che non ci fosse più materiale interessante di Muddy si sbagliava di grosso. Infatti, la australiana Raven pubblica questo bellissimo CD che riguarda un periodo particolarmente importante per uno dei padri del blues di Chicago, in quanto segnava il passaggio dal blues canonico, quello della Chess Records ormai in declino, a quello contaminato dalla musica rock, derivato dal british blues britannico. Muddy entra in studio con uno dei più grandi chitarristi bianchi di blues, Johnny Winter, l’albino dall’anima nera (detto anche Silver Train, dalla canzone che gli avevano dedicato i Rolling Stones). Con Muddy e Johnny alcuni dei più grandi musicisti di blues, alcuni giovanissimi, altri già allora leggende viventi. Eccoli: Pinetop Perkins al piano, James Cotton, Jerry Portnoy e Walter Horton all’armonica; alle chitarre Jimmy Rogers, Bob Margolin e Luther Guitar Jr. Johnson. Alla batteria Willie Big Eyes Smith. Al basso Calvin Jones e Charlie Calmese. Diciannove brani stupendi prodotti da Winter e pubblicati sui quattro album di Muddy per la Blue Sky: Hard Again, I ‘m Ready, King Bee e Muddy Mississippi Waters, oltre a Walking Through The Park, pubblicata nell’album Nothing But The Breeze di Johnny Winter e Trouble No More, pubblicata solo nella ristampa in CD deluxe di Muddy Mississippi Waters. Musica che gronda lacrime e sudore, un suono grezzo e sporco come quello dei Rolling Stones ma sempre fresco e attuale. Muddy esegue tutte le parti vocali e Johnny tutti gli assolo, inarrivabile alla slide, mentre gli altri musicisti sono semplicemente superlativi. Canzoni di eterna bellezza composte da Waters come Rock Me, 33 Years, I Can’t Be Satisfied e Crosseyed Cat, si alternano a classici come Mannish Boy di Bo Diddley, Good Morning Little Scoolgirl di Sonny Boy Willamson, I Want To Be Loved di Willie Dixon, I‘m A King Bee di Slim Harpo e Mean Old Frisco di Arthur Big Boy Crudup. Vista la elegante edizione con un esauriente booklet allegato e la ottima incisione è consigliato anche a chi ha già tutto di Muddy, ma soprattutto a chi vuole conoscerlo.

Daniele Ghisoni

 

 

PAOLO NUTINI
Sunny Side UpNUTINI[1]
2009 Atlantic CD

 
Oltre ai Low Anthem, un altro nome che mi ha eccitato particolarmente è stato quello di tal Paolo Nutini, artefice di un disco decisamente interessante, coinvolgente e particolarmente suggestivo. Il giovanotto ha una particolare voce, a tratti quasi un soul man, molto più matura della sua età e inizialmente, infatti, si pensava trattarsi di un artista di mezza avanzata età. Invece, dalle foto che lo ritraggono nel libretto pare possa avere poco meno di trent’anni. Sunny Side Up, questo il titolo di un lavoro che assembla vari brani che abbracciano disparati generi tra cui non possiamo esimerci dal citare ovviamente un pop di alta fattura, (Coming Up Easy) un country di buonissima levatura, (Simple Things) pezzi di eccellente cantautorato (le ottime Candy e Worried Man) e allegri momenti tra le terre d’Albione e le Highlands scottish (Chamber Music). In altri frangenti le tematiche musicali abbracciano un lento inno quasi da cerimonia funebre (Keep Rolling), alcuni istanti mescolano pop con reggae (10/10) altri si rivolgono alle classiche ballate (Growing Up Beside You) mentre qualcosa vibra tra suoni sfumatamente blues (Pencil Full Of Lead e No Other Way), e infine una spruzzata di soul jazz che non guasta (High Hopes). Un lavoro molto interessante che andremo ulteriormente a scoprire quando nel mese di novembre Nutini arriverà qua da noi con una manciata di date che si annunciano decisamente interessanti. L’artista scozzese che aveva esordito nel 2006 con These Streets è prodotto da Ethan John che ha anche lavorato anche con Ray Lamontagne, trait d’union questo con i Low Anthem che hanno recentemente suonato appunto con lui. Come dicevamo, un disco dalle molteplici sfaccettature, tutte affascinanti e godibili che per essere completato ha avuto bisogno di viaggi tra studi di registrazione ubicati da Los Angeles a New York e dal Galles alla verde Irlanda. Tutti i brani sono a sua firma e un cenno al disegno di copertina che riporta a cover splendide degli anni passati.

Ronald Stancanelli

 

 

RYAN ADAMS & THE CARDINALSR.Adams_Everybody_cov.[1]
Everybody Knows
2007 Lost Highway CD

A scorrere la produzione discografica di Ryan Adams, prima con i Whiskeytown e poi come solista, si potrebbe pensare di aver a che fare con un cinquantenne con circa venticinque anni di carriera alle spalle. Invece, Ryan di anni ne ha solo trentacinque e Faithless Street, debutto dei Whiskeytown, risale solo al 1995. Decisamente iperattivo il nostro amico, dei cui album solisti ho ormai perso il conto, e anche un tantino sopravvalutato dalla critica perché, per forza di cose, in mezzo a tante pubblicazioni ce ne sono di sicuramente validissime, ma anche altre molto più noiose. Heartbreaker, Gold e Cold Roses ad esempio mi erano sicuramente piaciuti, mentre i due capitoli di Love Is Hell o Demolition (in realtà una raccolta di outtake) un po’ meno. E non aiuta certo a essere più indulgenti nei suoi confronti il suo carattere, in quanto l’ego di Ryan Adams è inversamente proporzionale alla sua simpatia, come si può facilmente intuire dalle varie interviste lette sulle riviste di settore. Oltre a pubblicare dischi a suo nome, l’irrequieto cantautore americano si dedica anche alla produzione di lavori altrui (ottimo il suo intervento in Songbird di Willie Nelson) o come talent scout (vedi il lancio in grande stile dell’amico Jesse Malin). In questa sede vorrei spendere due parole su un EP del 2007, Everybody Knows, composto da un paio di inediti e alcuni brani pescati fra la sua torrenziale discografia e reinterpretati per l’occasione, e a mio parere fra i migliori dischi da lui pubblicati. Solo otto canzoni per trentacinque minuti di durata totale per questo dischetto, venduto comunque a prezzo speciale, ma non c’è un solo brano da buttare. Con lui sono i Cardinals, ormai il suo gruppo fisso, nei quali milita anche un certo Neal Casal alla chitarra e cori, che non è sicuramente l’ultimo arrivato, autore di pregevoli lavori a suo nome, Fades Away e Diamone Time su tutti. Inoltre, il vecchio amico Brad Pemberton alla batteria, il tastierista Jamie Candiloro, responsabile anche della splendida produzione del CD, con in più Chris Fenstein al basso e Jon Graboff alla pedal steel. Le canzoni. Oltre alla bella title track, uno dei brani di punta del suo album precedente, Easy Tiger, le mie preferite sono le ballate mid-tempo Follow The Lights, sublime country rock, e If I Am A Stranger, già sentita in Cold Roses, ma qui è migliore, la trascinante This Is It, che si trovava in versione diversa nell’album Rock’n’Roll, la particolare cover di Down In A Hole degli Alice In Chains, gruppo apparentemente distante anni luce dai consueti standard di Ryan Adams, e la pianistica Dear John, scritta assieme a Norah Jones e dedicata a John Lennon. In sostanza, quindi, un dischetto che mi sento di consigliarvi assolutamente e che dimostra che se il suo autore, con un po’ di umiltà, puntasse più alla qualità che alla quantità, potrebbe entrare nel novero dei grandi.

Gianfranco Vialetto

 

 

RAMBLIN’ JACK ELLIOTTramblin jack
A Stranger Here
2009 Anti CD

Lo confesso, ho la tendenza a storcere il naso quando leggo le recensioni che incensano eccessivamente il ritorno sulle scene di un grande vecchio. Spesso mi sembrano dettate dalla nostalgia, o addirittura dal senso del dovere di chi scrive: dover parlar bene per forza di un artista dalla leggendaria carriera. Ramblin’ Jack mi è sempre stato simpatico come personaggio, mi piace ricordarlo al fianco di Dylan nella Rolling Thunder Revue, ma per il resto l’ho sempre reputato uno cresciuto all’ombra di Guthrie e poi, pur essendone più vecchio, del grande ebreo (il cui ultimo disco non piace affatto). Qualche anno fa mi ero lasciato tentare da un suo celebratissimo disco di duetti per la Hightone, ma l’avevo trovato null’altro che piacevole. Con queste premesse, quando ho letto di questa pubblicazione della Anti, mi sono sorti molti dubbi, ma non ho saputo resistere, per fortuna, perché stavolta c’è davvero da gridare al miracolo. Finora uno dei dischi migliori dell’anno, forse della decade. Dieci blues tradizionali che più tradizionali non si può. Dal reverendo Gary Davis a Blind Willy Johnson. Il segreto della bellezza di questo disco sta probabilmente nella produzione intelligentemente essenziale di Joe Henry, che ci mette molto del suo per garantire un risultato da record. Elliott poi fa la sua parte cantando questi vecchi blues come non lo avevamo mai sentito cantare prima, con una rara intensità e con la voce più giusta che potesse esserci. Pochi compagni in studio, David Hidalgo, Van Dyke Parks, Greg Leisz, tutti tesi a costruire un sound penetrante come non se ne sentiva da quando Ry Cooder incise i suoi primi dischi. Sarà la presenza di Parks, forse, ma questo disco ricorda davvero molto i suoni dei primi tre dischi del chitarrista di Los Angeles, sia per il risultato che per gli intenti. Tra le perle del disco vanno senz’altro citate Death Don’t Have No Mercy e Soul Of A Man, ma piacciono molto tutti i brani come il country blues Richland Women Blues di Mississippi John Hurt, How Long Blues, la tristissima Grinnin’ In Your Face.

Paolo Crazy Carnevale

 

 

RANCHO DELUXErancho_deluxe
True Freedom
2009 Rancho Deluxe CD

Non sono ben chiari i criteri dell’industria discografica, ma non c’è di che stupirsi: il fatto che dischi come questo possano girare solo grazie all’autoproduzione la dice davvero lunga. True Freedom è la seconda prova di questo duo californiano dalle grandi risorse, si tratta di un signor disco ben sorretto dalle composizioni di Mark Adams (autore principale) e Jesse Jay Harris (sopraffino chitarrista e polistrumentista), figlio, quest’ultimo, di quel Greg Harris che sul finire degli anni ‘70 seppe infondere nuova linfa ai riformati Flying Burrito Brothers, rivestendo il mitico live giapponese del1978 di un gran suono chitarristico e della propria voce graffiante. I Rancho Deluxe sembrano proprio figli di quel suono, un gran bel country-rock californiano caratterizzato da ottimi suoni di chitarra, dove le acustiche si mescolano bene con la Telecaster (Jesse Jay) e con la pedal steel di Jaydee Maness restituendoci sonorità che temevamo passate a miglior vita. Le canzoni sono molto convincenti, con un bel treno di ritmo (alla batteria c’è nientemeno che Don Heffington che ha suonato con Dylan e con i Lone Justice), con le belle tastiere di Skip Edwards e qua e là la partecipazione di papà Harris che passa dalla chitarra al violino e al mandolino come ai tempi dei FBB. Maintenance Man è un gran brano con una bella e lunga coda strumentale con le chitarre a dettar legge, Ghost Town, breve ma spedita, è un honky tonk con le chitarre giuste e il piano che saltella qua e là. Negli strumentali Bone Rock Breakdown e Templeton Gap Jesse Jay Harris ha modo di sbizzarrirsi e dimostrare di che pasta è fatto il suo suono, degno figlio di papà Greg e con la lezione di Clarence White ben fissata in testa. Mercy Me è un altro brano convincente che richiama molte cose, Semi Cool Cube si muove più sui toni da ballata e nel finale gioca bene sugli intrecci delle chitarre che sono le vere protagoniste del disco. La title track è invece un brano di largo respiro, con una bella introduzione strumentale e con toni molto più rilassati rispetto alla maggior parte dei brani e belle armonie vocali. L’augurio è che questa band possa avere un futuro, perché di suoni come questi c’è davvero molto bisogno…

Paolo Crazy Carnevale

 

 

RAY DAVIES & THE CORAL
CROUCH END FESTIVAL CHORUSdavis
The Kinks Choral
2009 Decca CD

Solo un genio come Ray Davies poteva pensare a riproporre le più famose canzoni dei Kinks facendosi accompagnare da un coro liturgico, riuscendo in modo eccellente ad amalgamare brani seminali con sonorità così diverse, unendo il sacro al profano in modo unico. Il risultato è un disco davvero unico per la sua bellezza, nel quale Ray canta facendosi accompagnare da una rock band composta da Billy Shamely e Milton McDonald alle chitarre, Dick Nolan al basso, Toby Baron alla batteria e Gunnar Frick e Ian Gibbons alle tastiere. Il coro è originario di Crouch End, un sobborgo vicino a quello di Mushwell Hill dove Ray è cresciuto, ed è diretto da David Temple. Ray aveva già utilizzato questo coro nella incisione di Other People‘s Lives e in alcune sue esibizioni dal vivo. Dieci brani stupendi, alcuni tratti da Village Green Preservation Society (disco stupendo, recentemente ristampato come triplo CD in edizione deluxe), ma tutti in questa versione col coro che si amalgama perfettamente alla strumentazione elettrica, assumono una prospettiva musicale diversa, mantenendo intatto il nucleo originale della melodia. Le eterne You Really Go Me e All Day And All Of The Night, dal riff chitarristico unico e irripetibile, con il coro assumono un alone di magia. Lo stesso dicasi per le melodiche Days, See My Friend, Shangri -La e Celluloid Heroes (queste ultime due sono tra le composizioni di Davies quelle che adoro) che continuano sempre a incantare. Anche le famosissime Waterloo Sunset e Victoria con questo arrangiamento sembrano avere una immediatezza nuova e avvolgente. Notevole è anche Working Man Cafè, tratta dal suo ultimo, omonimo album, che fa la sua bella figura in mezzo a tanti classici. un cenno a parte merita il medley di Villane Green, con Big Sky, Picture Book, Johnny Thunder, Do You Remember Walter? e ovviamente la title track che coinvolgono in modo sorprendente. Un grande disco che non mi stanco mai di riascoltare! Una volta i dischi preferiti che riascoltavi in continuazione si consumavano, succederà anche per questo CD?

Daniele Ghisoni

 

 

THE HOOCHIE COOCHIE MEN WITH JON LORDhookie
Live At The Basement
2009 Edel Records CD + DVD

The Hoochie Coochie Men (da una canzone di Wilie Dixon) sono un’ottima band australiana di blues guidata dal bassista Bob Daisley che, tornato in patria dopo una incredibile militanza di oltre trent’anni con artisti del calibro di Ozzy Osbourne, i Rainbow di Ritchie Blackmore, Ronnie James Dio, Chicken Shack, Uriah Hep e Gary Moore, solo per citarne alcuni, chiama con sé i vecchi amici Rob Grosser, batteria e Tim Gaze, chitarra, già con i Rose Tattoo e Jimmy Barnes (questo ultimo cantante ex Cold Chisel, altra storica band di blues australiana). Con ospiti Mike Grubb alle tastiere e Jim Conway all’armonica pubblicano l’omonimo album che contiene spettacolari cover di classici come I Just Want To Make Love To You e You Need Love di Willie Dixon, Dallas di Johnny Winter, The Walk di Jimmy Mc Cracklin, Strange Brew dei Cream, oltre a proprie composizioni. Nel gennaio del 2003 il giornalista Paul Hogan (niente a che vedere con l’attore di Mr. Cocrodile Dundee) convince Jon Lord, che stava dirigendo alla Opera House la Sidney Symphony Orchestra, a unirsi loro per una data al mitico Basement Club. La serata, era il 7 febbraio, davanti a pochi ma competenti appassionati, diventa un evento memorabile che sorprende anche gli organizzatori per il feeling che si instaura subito tra Jon e la band, supportata da una robusta sessione fiati. Dopo l’intro e le iniziali Hideway di Freddie King, Green Onions di Booker T. e Dust My Broom di Ellmore James, con Gaze stupendo alla voce e alla chitarra solista, il blues entra nel sangue e tutta la serata diventa una stupenda improvvisazione, con i musicisti che si ritrovano a memoria. Due ore di musica, con Jon che detta i fraseggi dal suo Hammond, con Jim Conway, personaggio stupendo, che si presenta sulla sedia a rotelle alla quale è condannato per tutta la vita a soffiare il suo dolore nell’armonica. Poi, ancora ospiti come l’idolo locale Jimmy Barnes e via a canzoni senza tempo come When A Blindman Cries e The Hoochie Coochie Men Blues. Incredibile come in solo una serata la benemerita DEL sia riuscita a produrre una discografia del genere: prima una edizione in doppio CD, poi in CD+DVD, quindi in triplo CD con tutta la serata e interviste varie, poi un doppio DVD! Dimenticavo un altro doppio DVD, sempre di quella serata, sottotitolato Danger White Men Dancing nel quale è ospite niente meno che Ian Gillan in Over And Over e If This Ain‘t The Bues.

Daniele Ghisoni

 

 

THE POPEScover Popes
Outlaw Heaven
2009 Townsend Records CD

Come nelle migliori storie di fuorilegge irlandesi ubriaconi e poeti è finalmente uscito il nuovo album dei Popes, l’ormai epica band fondata dal leggendario e immancabile Shane McGowan nel 1991, durante una pausa dei suoi fidi Pogues. A distanza di cinque anni dall’ultima uscita discografica del gruppo, Release The Best, comprendente la riedizione del precedente disco, il primo senza Shane, Holloway Road, più un CD live di un concerto londinese, ecco Outlaw Heaven un ennesima bella prova della band irlandese. La voce a tratti waitsiana del fuorilegge Paul “Maddog” McGuinness e il ritmo indiavolato e pieno di whiskey dei suoi Popes ci riportano quel suono così tanto amato da noi orfani dei primi Pogues o degli indimenticabili Thin Lizzy. Proprio dall’esperienza di quattro mesi come ospite della prigione di Sua Maestà di Pentonville e dai suoi eccessi con droghe e whiskey nasce il paradiso del fuorilegge, ironica ma intensa visione di McGuinness sulla sua permanenza in prigione, scrivendo ed eseguendo le bozze di alcune di queste canzoni proprio a un suo compagno di cella. Outlaw Heaven è un ruvido disco rock, un mix a tratti rosso sangue e caotico di punk, rockabilly e irish music prodotto dagli stessi Popes con l’aiuto in sala di registrazione del vate McGowan e del suo fidato Spider Stacy che appaiono anche come ospiti in tre canzoni. Il viaggio nel particolare paradiso di McGuinness si apre con Black Is The Colour che inizialmente ricorda le atmosfere folk per poi scatenarsi in riff alla Metallica con la voce roca di “Maddog” Paul che ci apre la porta della sua cella. Seguono la bella Let The Bells Ring Out e la stupenda Angels Are Coming, una ballata degna di sua maestà Shane, ruvida e dolce in perfetto stile irish con il banjo, il mandolino e il violino di Fiachra Shanks e Ben Gunnery in evidenza. La band ci porta piacevolmente a Outlaw Heaven, la title track dove Paul Mc Guinness duetta con i suoi amici Shane & Spider e il risultato è una splendida canzone in perfetto stile tradizionale irish alla maniera dei Pogues con un riff quasi western in sottofondo alle voci che si rincorrono in un crescendo irresistibile per poi trasportarci alla delicata e intensa Boys – They Don’t Cry, altro brano da non tralasciare dopo un solo ascolto. Dopo la rockeggiante e tradizionale You’re Gonna Shine e la tormentata e ritmica Crucified i gagliardi Popes e i loro illustri amici ci consigliano di “non lasciare che i bastardi ci mettano sotto” nell’ovviamente poetica e intensa Bastards. Non troviamo il romanticismo e la poesia di Shane McGowan ma la convinzione, la forza e il fuoco scorrono nelle liriche di questo lavoro del gruppo irlandese, come dimostrano la rabbia del brano seguente Underneath The Blue Sky e la quiete tra le corde del violino e la voce quasi narrante di McGuinness di Slip Away delizioso preludio alla straordinaria song di chiusura dell’album. Loneliness Of A Long Distance Drunker non può che essere cantata dalla voce impastata e ruvida di Shane McGowan, sempre eccezionale per come conduce la canzone tra spigoli vigorosi e liriche tipicamente irlandesi.
Una chiusura degna di un grande disco ricco dello stream of whiskey irlandese e di ricordi, Bobby Sands, Robert Johnson, James Joyce, John Dillinger e “Lord Fucking Nelson” tra i brani e molti nomi leggendari di “fuorilegge” che ci hanno lasciato come John Belushi e Syd Barret o MalcolmX e Frank Sinatra nell’ultima pagina del booklet. Bentornati!

Michele Marcolla