Posts Tagged ‘Muddy Waters’

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/1

di admin

2 novembre 2009

La rubrica “Rock&Pop” sino a ieri presente nelle pagine del nostro Organo Ufficiale ha traslocato nel nostro sitoblog. Questo per almeno due motivi: primo, per non far invecchiare eccessivamente i contributi sulle novità discografiche (novità nel senso latefortheskyiano del termine, ovvero “novità si fa per dire”); secondo, per recuperare qualche pagina sulla rivista e dedicarla all’approfondimento. Pubblicheremo quindi in questo spazio le varie recensioni delle (per noi) più interessanti uscite discografiche. Buona lettura.

 

 

COBB & THE OTHER APOSTLEScobb001
I Leave My Place To The Bitches
2009 RNRCW CD

Quello che colpisce maggiormente nei prodotti discografici targati Alessandro Ducoli, sia che si tratti di lavori come quelli con i Bartolino’s o altri gruppi con cui da sfogo ai suoi impulsi cantautorali, sia che si tratti di dischi dall’impianto più dichiaratamente rock (il disco che sto recensendo e quelli degli Sanishjohnny), è l’incredibile spontaneità, che li attraversano dall’inizio alla fine. Ducoli è un genuino su tutti i fronti, uno che fa dischi perché gli piace farli, forse sotto sotto accarezza anche il sogno di ritagliarsi una fetta di fama o successo, ma in realtà non ne ha bisogno, perché la mole di dischi che ha prodotto in poco più di dieci anni di attività gli è già valsa comunque un bel posto tra i musicisti degni di rispetto. Ducoli è un generoso in tutti i sensi, perché c’è bisogno di dischi come questo, un disco pieno di energia, sicuramente più da band rispetto al precedente, che peraltro godeva di una magia tutta sua e per certi versi mi aveva forse colpito di più. Forse ora manca l’effetto sorpresa, ma in compenso c’è una classe da vendere, e come sempre l’urgenza di dire delle cose, a partire dal concetto, anzi dal fatto reale da cui il disco prende il titolo: una triste considerazione sul fatto che la maggior parte dei bar in cui il nostro era solito esibirsi sono diventati locali da spogliarello, nella migliore delle ipotesi. E allora ecco spiegato perché Ducoli/Cobb lascia il suo posto alle signorine, nei confronti delle quali peraltro non nasconde una certa simpatia. Un disco quasi interamente elettrico: rispetto a Easylove, il suo predecessore, ci sono forti venature funk, dall’iniziale title track (uno shuffle) alla successiva Like a Rolling Stones (dal titolo fuorviante). Il riferimento sembrano essere gli anni ‘70, soli di chitarra squarcianti, tastiere penetranti, una voce femminile al posto giusto, come nell’ottima Straight Up Coffee. Piace anche la nonchalance con cui Ducoli/Cobb, quasi a sottolineare questo dualismo di identità, passa dalla lingua inglese all’italiano nel corso della stessa canzone. E soprattutto piace pensare che in una remota valle dell’alta Italia ci sia qualcuno con le palle di continuare a fare la musica in cui crede con tanta costanza e prolificità. E vale la pena di tessere le lodi di House In The Woods, il brano che conclude questa ennesima fatica del nostro: non ho dubbi che se Neil Young ascoltasse questa canzone direbbe che l’avrebbe voluta scrivere lui, lui che nel suo ultimo disco non è riuscito a includerne nemmeno una che sia bella solo la metà di questa.

Paolo Crazy Carnevale

 

 

JOE COCKERcocker_woodstock[1]
Live at Woodstock
2009 A&M CD

Lo dico subito: della location di questo concerto non mi importa nulla. Sarà magari solo per ragioni anagrafiche, ma il mito di Woodstock mi è arrivato addosso già sdrucito e invecchiato, come un bel sogno di altri sognatori ormai trasformato in incubo. Qui può bastare ricordare che all’indomani della sua strepitosa performance al celebre festival Joe Cocker era passato dal rango di giovane promessa a quello di superstar, vittima predestinata di tante e tali pressioni commerciali da portarlo in pochissimi anni allo sfascio psicofisico (quel vacuo sguardo da tossico impietosamente ritratto in certe copertine degli anni ’70!). Importa invece che dopo 40 anni questa resta, appunto, una performance strepitosa. La fisicità dei ruggiti di Joe è quella di un ragazzo tutto sensualità e sentimento che fa evadere il rhytm and blues dalle prigioni in cui stava rinchiuso – le poltroncine di velluto dei night club, le luci basse delle sale da ballo, ma anche i teatri dai quali i soul brothers & sisters avevano appena cominciato a cercare di fuggire – per riportarlo in mezzo agli esseri umani “di mente e di cuore” come avrebbe detto Joni Mitchell. Stiamo parlando di entertainment, sia chiaro, e la scaletta dei brani eseguiti lo dimostra senza possibilità di dubbio: tre soli brani originali, e poi due cover della premiata copia soul Ashford & Simpson, una di Ray Charles, tre brani di Dylan (su tutti, una Just Like A Woman da spezzare il cuore), la Feelin’ Allright dei Traffic e a finire la beatlesiana With A Little Help From My Friends trasformata in un inno tutto anima e viscere. Una tipica scelta di repertorio, insomma, da “cantante di successo”, come miliardi di mestieranti. A fare la differenza, è innanzi tutto il cuore di Joe, la convinzione con cui le pulsazioni vengono messe in sintonia con la voglia di vita e di felicità di chi ascolta, e poi i musicisti, forse tecnicamente non eccelsi (però alle tastiere c’è Chris Stainton, destinato con merito a un luminoso futuro), ma dal feeling immenso. Uno dei pochi dischi di Woodstock che ancora oggi ha senso ascoltare: qui c’è il Joe Coker migliore, quello che col cuore gonfio di sentimento, i sensi tesi ad afferrare la felicità per riempirsene l’anima e le roche ombreggiature della voce ha incarnato, come forse nessun bianco in tutta la storia della nostra musica, lo spirito del rhytm and blues: la vita come ritmo di passione e sensualità, sofferto eppure gioioso, inesorabilmente risucchiato dal gorgo della morte.

Luciano Salvati

 

 

JOHN HAMMONDhammond
Rough & Tough
2009 Chesky Records CD

Quasi cinquanta anni di carriera, forse il più grande interprete ed esecutore bianco della musica blues di tutti i tempi, Hammond riesce ancora a stupirci con un nuovo album, grazie a una voce calda e coinvolgente, un tocco chitarristico unico unito alle sonorità stupende che riesce a trarre dalla sua armonica. Con un palmares di un Grammy Award e un WH Handy Award, oltre a diverse nomination, il 26 giugno di quest’anno ha suonato il suo 4.000° concerto. Una produzione discografica enorme, oltre trenta album, iniziata nel 1962 ma con pochissimi lavori non all’altezza. Hammond è soprattutto un grande interprete, perché ha scritto pochissimo, delle canzoni di tutti i grandi del blues, solo per citarne alcuni Muddy Waters, Chuck Berry, Jimmy Reed, Son House, Sonny Boy Williamson e Howlin‘ Wolf, ma un brano già ascoltato migliaia di volte nella sua esecuzione riesce a regalare ancora nuove sensazioni che ti coinvolgono in modo particolare. Quindici brani, classici senza tempo, prodotti da G.Love, nei quali John si fa aiutare da Stephen Hodges, drums, Marty Baloou al basso e Bruce Katz alle tastiere, mentre John suona acoustic and 12 strings guitar, National steel e armonica. Il disco è stato registrato nel novembre del 2008 in NYC, alla St. Peter Episcopal Church. Le canzoni, quasi tutte già interpretate da John, si susseguono senza sosta, una più bella della altra: My Mind Is Ramblin’ del suo idolo Howlin’ Wolf, She’s Though, Chattanuga Choo Choo, il classico di Glen Miller davvero stupendo, Statesboro Blues di Willie McTell, I Can Tell di Bo Diddley, No PlaceTo Go, It Hurts Me Too di Elmore James, I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, solo a titolo di esempio. Notevole il booklett allegato con notizie e foto. Un disco da non perdere.

Daniele Ghisoni

 

ZACHARY RICHARD
Last KissZACH RICH
2009 Artisti Garage CD

Amiamo svisceratamente Zachary Richard da tempo immemorabile e chi ci segue da tempo ben lo sa. Zach, dopo alcuni ottimi album in lingua francese per i cui giudizi riferentesi agli ultimi vi rimandiamo al numero 92 torna a fare un disco il lingua inglese. Ci siamo già soffermati precedentemente sulle motivazioni che possono spingere il cantante canadese ora a optare per l’uso dell’idioma francese, ora per quello anglofono evitando quindi di ripeterci. Per la precisione erano comunque diciassette anni che un suo CD non veniva proposto nell’idioma inglese e se i precedenti in tal lingua non ci avevano entusiasmato più di tanto, a parte Snake Bite Love del 1992, qua troviamo un lavoro che risente del pathos dei suoi LP francofoni ma con la riuscita capacità di coniugarlo appunto con la lingua inglese, e trattasi di un lavoro splendido. È ovvio che la lingua francofona abbia quel quid di pathos in più che la caratterizza ma Last Kiss, questo il titolo del nuovo album, è lavoro intenso e lancinante come nelle sue migliori pagine del passato. Eric Sauviat è protagonista alla chitarra mentre, tra gli ospiti, abbiamo Celine Dion nel bel duetto su Acadian Driftwood di Robbie Robertson. Le restanti undici canzoni sono tutte a firma Richard e vi ritroviamo Au bord de Lac Bijou già ripresa in Italia da Fabrizio Poggi, unica canzone qua proposta in francese. Freddy Koella al mandolino, violino e steel ci fa capire che trattasi della stessa già pubblicata precedentemente da Richard e un ascolto più attento ci conferma che è la stessa apparsa su Cap Enrage nel 1996. Peccato, ovviamente pensavamo fosse una nuova versione. Non sappiamo il riscontro che questo disco in inglese potrà avere sugli acquirenti di tal lingua e anche se da sempre Zachary lo preferiamo quando canta in francese questo è sicuramente un lavoro tra i più suggestivi della sua discografia, anche se ancora una volta a e ormai definitivamente, purtroppo crediamo, dobbiamo rassegnarci al fatto che non viene assolutamente più da lui usata la fisarmonica! Si poteva scegliere una foto di copertina migliore poiché questa rende impietosamente evidente il passare degli anni, e trattasi inoltre di foto decisamente mediocre. Molto più affascinante quella col cappello che fa mostra di se nella seconda pagina del libretto accluso e che, se usata in copertina, avrebbe maggiormente reso giustizia al disco. Come di consueto, i testi raccontano con maestria della sua terra e delle sue vicende. Un gran bel disco tristemente invernale orientato mestamente anche sul trascorrere del tempo, ma quello del trascorrere del tempo e della nostalgia era caratteristica primaria anche del suo splendido penultimo lavoro, Lumiere dans le Noir. (Per Rosi, passata come una meteora…).

Ronald Stancanelli

 

 

LOW ANTHEMlow[1]
Oh My God, Charlie Darwin
2008 Bella Union (Usa, Europa 2009)

Disco dell’anno? Questo Oh My God, Charlie Darwin ha nel primo ascolto, e soprattutto nei successivi, un impatto devastante come fu quello di tanti anni fa ascoltando i novelli Cowboy Junkies. Arrivano da Providence nel Rhode Island e sono Ben Knox Miller, Jeffrey Prystowsky e Jocie Adams. Questo album ha venduto circa 7000 copie semplicemente con l’interesse che il passa parola data la loro indubbia bravura ha generato. Chi li ha visti dal vivo e ha poi comprato il loro CD ne ha parlato, e così via sino a che, alla fine, è stato appena pubblicato anche in Europa per la Bella Union. Credo che chi li ascolterà ne resterà affascinato e sicuramente un ulteriore passaparola positivo si creerà anche da noi. I primi 5000 CD erano numerati a mano e una prima parte degli stessi addirittura con la copertina dipinta a mano da Miller che è anche pittore. Molteplici e variegati gli strumenti utilizzati nel gennaio 2008 quando il disco è stato registrato, anche una cetra, tabla, e un organo a pompa. Realmente è difficile citare un brano a discapito di un altro ma certamente To Ohio e Charlie Darwin si ergono tra le canzoni più belle che abbiamo ascoltato in questo 2009. Le voci sono perfette e così ogni singolo strumento. Nulla è lasciato al caso come nada es fuera de lugar o desordenado. I brani si alternano tra dolci ballate acustiche e sincopati ritmi elettrici. Appena finisce, la durata è quella canonica degli LP di una volta, circa 42 minuti, viene voglia immediatamente di riascoltarlo e l’unica cosa che può dispiacere per un lavoro di questo tipo è il non avere tra le mani un vinile con bella grande e rigida copertina cartonata ma un semplice piccolo dischetto digitale. Uno dei dischi più belli che ho ascoltato ultimamente, probabilmente il migliore, che non mi stancherà di consigliarvi di acquistare esortandovi, se l’effetto sarà lo stesso che ha fatto su di me, di continuare un meritato passa parola. Crediamo possa realmente essere disco dell’anno e in attesa (pare che sarà così, che vengano anche in Italia) di andare a vederli, ci accingiamo a riascolatre Charlie Darwin per l’ennesima volta. Il loro precedente CD What The Crow Brings è uscito nell’ottobre del 2007. Esiste anche un album datato 2006 dal titolo Low Anthem edito in un paio di centinaia di copie vendute direttamente da loro ma è stato poi da loro stessi ritirato con nessuna intenzione di mai più ripubblicarlo. Benvenuto quindi a questo combo che pensiamo in un immediato futuro farà sicuramente ancor parlare di se. Quattro stellette se non qualcosa di più.

Ronald Stancanelli

 

loreley

MARILLION
Recital Of The Script
2009 Emi 2 CD
Live From Loreley
2009 Emi 2 CD

Tra il 1983 e il 1987 i Marillion sono stati il gruppo di riferimento per gli appassionati di rock progressivo. Nella loro scia hanno cercato di emergere altre band principalmente britanniche (Pendragon, I.Q., Pallas, Twelfth Night), ma solo i Marillion hanno ottenuto un notevole riscontro commerciale almeno in Europa. Guidati dal carismatico cantante marillionFish, con Steve Rothery alla chitarra e Mark Kelly alle tastiere, Pete Trewavas al basso e Mike Pointer alla batteria hanno pubblicato lo splendido album d’esordio Script For A Jester’s Tear nel 1983. Recital Of The Script ci permette di rivivere uno dei momenti migliori di quel periodo, la seconda data all’Hammersmith Odeon di Londra del 19 aprile, ultima serata di un tour trionfale. Parzialmente pubblicato in versione video, il concerto viene stampato per la prima volta integralmente in due dischetti. Oltre a versioni eccellenti dei brani dell’album, tra i quali spiccano la title track, un classico del prog con cambi di ritmo perfetti e un’interpretazione cristallina di Fish, la complessa The Web, la melodia indimenticabile di Chelsea Monday con Rothery in primo piano e la drammatica Forgotten Sons, vengono eseguite le b-sides Charting The Single e Three Boats Down From The Candy e il primo singolo Market Square Heroes. Ma, soprattutto, come bis possiamo riascoltare la suite Grendel, pubblicata originariamente come b-side, un brano mitico per i fan e mai troppo amato dalla band, forse un po’ acerbo e derivativo (alcuni passaggi ricalcano fortemente i Genesis), ma interpretato teatralmente da Fish che, come il suo idolo Peter Gabriel, usava costumi e maschere sul palco. Quattro anni dopo la band è in una fase molto diversa, come spiega Fish nelle interessanti note del booklet. Dopo il successo crescente culminato con Misplaced Childhood, un album concept perfetto salito in cima alle classifiche europee spinto dai singoli Kayleigh e Lavender, le fatiche di tour intensivi, un quarto disco meno riuscito (Clutching At Straws) e contrasti tra i musicisti hanno minato l’equilibrio interno. Quando il 18 luglio del 1987 i ragazzi salgono sul grande palco di Loreley davanti a ventimila fan per uno dei concerti più significativi del tour, la tensione è al massimo. La voce di Fish non è più quella degli esordi; gli sforzi richiesti dal repertorio della band, i troppi concerti e stravizi di ogni tipo hanno ridotto la sua autonomia (non a caso Cori Josias lo affianca come corista). I Marillion sono ancora una band in forma, anzi tecnicamente sono migliorati, ma hanno perso in freschezza. Anche questo concerto è stato pubblicato negli anni ‘80 in videocassetta e poi in DVD, ma non integralmente. Il cadenzato opener Slainte Mhath, una complessa White Russian e la deliziosa ballata Sugar Mice rappresentano bene il nuovo album nel primo dischetto, alternate ai classici Incubus e Fugazi, oltre alla inevitabile Script For A Jester’s Tear. Il secondo compact si apre con la sequenza Hotel Hobbies/ Warm Wet Circles/ That Time Of The Night, seguita dalla prima facciata di Misplaced Childohood e dalla trascinante The Last Straw. I bis comprendono Garden Party e Market Square Heroes con l’attiva partecipazione del pubblico. Pochi mesi dopo Fish lascia la band per intraprendere una carriera solista che non riuscirà mai a decollare, mentre i Marillion lo sostituiscono con Steve Hogarth e cambiano gradualmente genere musicale, virando verso un pop rock un po’ freddo, non privo di spunti interessanti. Lasciata la Emi sono diventati indipendenti, hanno un sito internet molto ben gestito e uno zoccolo duro di appassionati, ma le emozioni suscitate negli anni ‘80 restano nel cuore dei fan che li hanno seguiti e apprezzati in quel periodo irripetibile.

Paolo Baiotti

 

 

MIAMI & THE GROOVERSGROOVERS
Merry Go Round
2008

Noi che siamo fruitori, la rivista e questo sitoblog ne sono esempio lampante, di musica straniera non possiamo non dare atto al gruppo dei Miami And The Groovers di avere fatto un album, vabbeh chiamamolo CD, di enorme impatto, immediato e dirompente. È un lavoro che potrebbe senza alcuna riserva essere uscito dal New Jersey e di New Jersey nostrano si tratta. Lorenzo Semprini, lead vocal, chitarre e armonica, Claudio Giani al sassofono, Marco Ferri alla batteria, Beppe Ardito alla chitarra elettrica, Luca Fabbri al basso e Alessio Raffaelli alle tastiere e fisarmonica omaggiano i propri ascoltatori di un album a cento miglia all’ora tra campagne e praterie. I ragazzi, arrivano chi dall’Emilia chi dalla Romagna, ci verrebbe di dire tra la via Emilia e l’East, e hanno masticato nel loro percorso da Southside Johnny a John Cafferty passando tra le maglie di Willie Nile, Murray McLauchlan, Elliott Murphy, non disdegnando certo l’ascolto di Springsteen o dei nostrani Rocking Chairs. Tredici brani di spumeggiante ritmo e di cinematografica espressione quasi tutti a firma di Semprini o da solo o in coppia con vari compagno di gruppo. Il CD è dedicato a Warren Zevon e tra gli artisti ospiti ci fa piacere trovare amici di come Joel Guzman, gia fisarmonicista con Joe Ely, Jono Manson, cantautore ormai ubicato dalle nostre parti e Marc Reinsman all’armonica. Se i primi brani seguono le coordinate degli artisti su citati, My Sweet Rose sta tra i Lucky Seven e i Black Sorrow e i nostri amici, qua con Guzman, sono a cavallo del confine muovendosi mirabilmente nella Sun Belt. Ma non finisce qua, poiché un pezzo come The Time Has Come ci porta nelle praterie dei Green On Red e la passione che trasuda sia da questo brano che dal resto finora ascoltato ci porta lontano e ci fa sognare e ben sperare se escono qua dischi di siffatto livello. Poi il genere sarà di nicchia, la distribuzione magari non facile, il pubblico non sarà nell’ordine delle migliaia di fan ma ce ne fossero di prodotti di siffatta levatura. Noi li abbiamo incontrati e poi sentiti suonare e quando ne avremo l’occasione saremo di nuovo li perché questo è il nuovo che avanza. Questo CD è stato preceduto nel 2005 da Dirty Roads, bel titolo per un album del quale contiamo di parlarne quanto prima. La produzione è affidata allo stesso Semprini e la registrazione effettuata a Trebbiantico, mixato a Ravenna e ulteriori tracce inserite tra San Marino e gli States. La voce, molto bella, di Semprini a tratti ricorda Graziano Romani e non smetteremo mai di ringraziare l’Emilia Romagna per tutta la buona musica donataci in questi anni. I brani si susseguono e in Sliding Doors la chitarra trasversalmente ci ricorda il suono di Philip Donnelly. Un album che più va avanti più ci piace. Non c’è una canzone minore o di riempitivo, tutto è ben dosato e ogni pezzo trascina con passione il seguente. Andate sul sito di questo gruppo sia per procurarvi il CD che per scoprire quando e dove suoneranno la prossima volta. (www.miami-groovers.com).

Ronald Stancanelli

 

 

MUDDY WATERSMUDDY
The Johnny Winter Sessions 1976 – 1981
2009 Raven Records CD

Chi pensava che non ci fosse più materiale interessante di Muddy si sbagliava di grosso. Infatti, la australiana Raven pubblica questo bellissimo CD che riguarda un periodo particolarmente importante per uno dei padri del blues di Chicago, in quanto segnava il passaggio dal blues canonico, quello della Chess Records ormai in declino, a quello contaminato dalla musica rock, derivato dal british blues britannico. Muddy entra in studio con uno dei più grandi chitarristi bianchi di blues, Johnny Winter, l’albino dall’anima nera (detto anche Silver Train, dalla canzone che gli avevano dedicato i Rolling Stones). Con Muddy e Johnny alcuni dei più grandi musicisti di blues, alcuni giovanissimi, altri già allora leggende viventi. Eccoli: Pinetop Perkins al piano, James Cotton, Jerry Portnoy e Walter Horton all’armonica; alle chitarre Jimmy Rogers, Bob Margolin e Luther Guitar Jr. Johnson. Alla batteria Willie Big Eyes Smith. Al basso Calvin Jones e Charlie Calmese. Diciannove brani stupendi prodotti da Winter e pubblicati sui quattro album di Muddy per la Blue Sky: Hard Again, I ‘m Ready, King Bee e Muddy Mississippi Waters, oltre a Walking Through The Park, pubblicata nell’album Nothing But The Breeze di Johnny Winter e Trouble No More, pubblicata solo nella ristampa in CD deluxe di Muddy Mississippi Waters. Musica che gronda lacrime e sudore, un suono grezzo e sporco come quello dei Rolling Stones ma sempre fresco e attuale. Muddy esegue tutte le parti vocali e Johnny tutti gli assolo, inarrivabile alla slide, mentre gli altri musicisti sono semplicemente superlativi. Canzoni di eterna bellezza composte da Waters come Rock Me, 33 Years, I Can’t Be Satisfied e Crosseyed Cat, si alternano a classici come Mannish Boy di Bo Diddley, Good Morning Little Scoolgirl di Sonny Boy Willamson, I Want To Be Loved di Willie Dixon, I‘m A King Bee di Slim Harpo e Mean Old Frisco di Arthur Big Boy Crudup. Vista la elegante edizione con un esauriente booklet allegato e la ottima incisione è consigliato anche a chi ha già tutto di Muddy, ma soprattutto a chi vuole conoscerlo.

Daniele Ghisoni

 

 

PAOLO NUTINI
Sunny Side UpNUTINI[1]
2009 Atlantic CD

 
Oltre ai Low Anthem, un altro nome che mi ha eccitato particolarmente è stato quello di tal Paolo Nutini, artefice di un disco decisamente interessante, coinvolgente e particolarmente suggestivo. Il giovanotto ha una particolare voce, a tratti quasi un soul man, molto più matura della sua età e inizialmente, infatti, si pensava trattarsi di un artista di mezza avanzata età. Invece, dalle foto che lo ritraggono nel libretto pare possa avere poco meno di trent’anni. Sunny Side Up, questo il titolo di un lavoro che assembla vari brani che abbracciano disparati generi tra cui non possiamo esimerci dal citare ovviamente un pop di alta fattura, (Coming Up Easy) un country di buonissima levatura, (Simple Things) pezzi di eccellente cantautorato (le ottime Candy e Worried Man) e allegri momenti tra le terre d’Albione e le Highlands scottish (Chamber Music). In altri frangenti le tematiche musicali abbracciano un lento inno quasi da cerimonia funebre (Keep Rolling), alcuni istanti mescolano pop con reggae (10/10) altri si rivolgono alle classiche ballate (Growing Up Beside You) mentre qualcosa vibra tra suoni sfumatamente blues (Pencil Full Of Lead e No Other Way), e infine una spruzzata di soul jazz che non guasta (High Hopes). Un lavoro molto interessante che andremo ulteriormente a scoprire quando nel mese di novembre Nutini arriverà qua da noi con una manciata di date che si annunciano decisamente interessanti. L’artista scozzese che aveva esordito nel 2006 con These Streets è prodotto da Ethan John che ha anche lavorato anche con Ray Lamontagne, trait d’union questo con i Low Anthem che hanno recentemente suonato appunto con lui. Come dicevamo, un disco dalle molteplici sfaccettature, tutte affascinanti e godibili che per essere completato ha avuto bisogno di viaggi tra studi di registrazione ubicati da Los Angeles a New York e dal Galles alla verde Irlanda. Tutti i brani sono a sua firma e un cenno al disegno di copertina che riporta a cover splendide degli anni passati.

Ronald Stancanelli

 

 

RYAN ADAMS & THE CARDINALSR.Adams_Everybody_cov.[1]
Everybody Knows
2007 Lost Highway CD

A scorrere la produzione discografica di Ryan Adams, prima con i Whiskeytown e poi come solista, si potrebbe pensare di aver a che fare con un cinquantenne con circa venticinque anni di carriera alle spalle. Invece, Ryan di anni ne ha solo trentacinque e Faithless Street, debutto dei Whiskeytown, risale solo al 1995. Decisamente iperattivo il nostro amico, dei cui album solisti ho ormai perso il conto, e anche un tantino sopravvalutato dalla critica perché, per forza di cose, in mezzo a tante pubblicazioni ce ne sono di sicuramente validissime, ma anche altre molto più noiose. Heartbreaker, Gold e Cold Roses ad esempio mi erano sicuramente piaciuti, mentre i due capitoli di Love Is Hell o Demolition (in realtà una raccolta di outtake) un po’ meno. E non aiuta certo a essere più indulgenti nei suoi confronti il suo carattere, in quanto l’ego di Ryan Adams è inversamente proporzionale alla sua simpatia, come si può facilmente intuire dalle varie interviste lette sulle riviste di settore. Oltre a pubblicare dischi a suo nome, l’irrequieto cantautore americano si dedica anche alla produzione di lavori altrui (ottimo il suo intervento in Songbird di Willie Nelson) o come talent scout (vedi il lancio in grande stile dell’amico Jesse Malin). In questa sede vorrei spendere due parole su un EP del 2007, Everybody Knows, composto da un paio di inediti e alcuni brani pescati fra la sua torrenziale discografia e reinterpretati per l’occasione, e a mio parere fra i migliori dischi da lui pubblicati. Solo otto canzoni per trentacinque minuti di durata totale per questo dischetto, venduto comunque a prezzo speciale, ma non c’è un solo brano da buttare. Con lui sono i Cardinals, ormai il suo gruppo fisso, nei quali milita anche un certo Neal Casal alla chitarra e cori, che non è sicuramente l’ultimo arrivato, autore di pregevoli lavori a suo nome, Fades Away e Diamone Time su tutti. Inoltre, il vecchio amico Brad Pemberton alla batteria, il tastierista Jamie Candiloro, responsabile anche della splendida produzione del CD, con in più Chris Fenstein al basso e Jon Graboff alla pedal steel. Le canzoni. Oltre alla bella title track, uno dei brani di punta del suo album precedente, Easy Tiger, le mie preferite sono le ballate mid-tempo Follow The Lights, sublime country rock, e If I Am A Stranger, già sentita in Cold Roses, ma qui è migliore, la trascinante This Is It, che si trovava in versione diversa nell’album Rock’n’Roll, la particolare cover di Down In A Hole degli Alice In Chains, gruppo apparentemente distante anni luce dai consueti standard di Ryan Adams, e la pianistica Dear John, scritta assieme a Norah Jones e dedicata a John Lennon. In sostanza, quindi, un dischetto che mi sento di consigliarvi assolutamente e che dimostra che se il suo autore, con un po’ di umiltà, puntasse più alla qualità che alla quantità, potrebbe entrare nel novero dei grandi.

Gianfranco Vialetto

 

 

RAMBLIN’ JACK ELLIOTTramblin jack
A Stranger Here
2009 Anti CD

Lo confesso, ho la tendenza a storcere il naso quando leggo le recensioni che incensano eccessivamente il ritorno sulle scene di un grande vecchio. Spesso mi sembrano dettate dalla nostalgia, o addirittura dal senso del dovere di chi scrive: dover parlar bene per forza di un artista dalla leggendaria carriera. Ramblin’ Jack mi è sempre stato simpatico come personaggio, mi piace ricordarlo al fianco di Dylan nella Rolling Thunder Revue, ma per il resto l’ho sempre reputato uno cresciuto all’ombra di Guthrie e poi, pur essendone più vecchio, del grande ebreo (il cui ultimo disco non piace affatto). Qualche anno fa mi ero lasciato tentare da un suo celebratissimo disco di duetti per la Hightone, ma l’avevo trovato null’altro che piacevole. Con queste premesse, quando ho letto di questa pubblicazione della Anti, mi sono sorti molti dubbi, ma non ho saputo resistere, per fortuna, perché stavolta c’è davvero da gridare al miracolo. Finora uno dei dischi migliori dell’anno, forse della decade. Dieci blues tradizionali che più tradizionali non si può. Dal reverendo Gary Davis a Blind Willy Johnson. Il segreto della bellezza di questo disco sta probabilmente nella produzione intelligentemente essenziale di Joe Henry, che ci mette molto del suo per garantire un risultato da record. Elliott poi fa la sua parte cantando questi vecchi blues come non lo avevamo mai sentito cantare prima, con una rara intensità e con la voce più giusta che potesse esserci. Pochi compagni in studio, David Hidalgo, Van Dyke Parks, Greg Leisz, tutti tesi a costruire un sound penetrante come non se ne sentiva da quando Ry Cooder incise i suoi primi dischi. Sarà la presenza di Parks, forse, ma questo disco ricorda davvero molto i suoni dei primi tre dischi del chitarrista di Los Angeles, sia per il risultato che per gli intenti. Tra le perle del disco vanno senz’altro citate Death Don’t Have No Mercy e Soul Of A Man, ma piacciono molto tutti i brani come il country blues Richland Women Blues di Mississippi John Hurt, How Long Blues, la tristissima Grinnin’ In Your Face.

Paolo Crazy Carnevale

 

 

RANCHO DELUXErancho_deluxe
True Freedom
2009 Rancho Deluxe CD

Non sono ben chiari i criteri dell’industria discografica, ma non c’è di che stupirsi: il fatto che dischi come questo possano girare solo grazie all’autoproduzione la dice davvero lunga. True Freedom è la seconda prova di questo duo californiano dalle grandi risorse, si tratta di un signor disco ben sorretto dalle composizioni di Mark Adams (autore principale) e Jesse Jay Harris (sopraffino chitarrista e polistrumentista), figlio, quest’ultimo, di quel Greg Harris che sul finire degli anni ‘70 seppe infondere nuova linfa ai riformati Flying Burrito Brothers, rivestendo il mitico live giapponese del1978 di un gran suono chitarristico e della propria voce graffiante. I Rancho Deluxe sembrano proprio figli di quel suono, un gran bel country-rock californiano caratterizzato da ottimi suoni di chitarra, dove le acustiche si mescolano bene con la Telecaster (Jesse Jay) e con la pedal steel di Jaydee Maness restituendoci sonorità che temevamo passate a miglior vita. Le canzoni sono molto convincenti, con un bel treno di ritmo (alla batteria c’è nientemeno che Don Heffington che ha suonato con Dylan e con i Lone Justice), con le belle tastiere di Skip Edwards e qua e là la partecipazione di papà Harris che passa dalla chitarra al violino e al mandolino come ai tempi dei FBB. Maintenance Man è un gran brano con una bella e lunga coda strumentale con le chitarre a dettar legge, Ghost Town, breve ma spedita, è un honky tonk con le chitarre giuste e il piano che saltella qua e là. Negli strumentali Bone Rock Breakdown e Templeton Gap Jesse Jay Harris ha modo di sbizzarrirsi e dimostrare di che pasta è fatto il suo suono, degno figlio di papà Greg e con la lezione di Clarence White ben fissata in testa. Mercy Me è un altro brano convincente che richiama molte cose, Semi Cool Cube si muove più sui toni da ballata e nel finale gioca bene sugli intrecci delle chitarre che sono le vere protagoniste del disco. La title track è invece un brano di largo respiro, con una bella introduzione strumentale e con toni molto più rilassati rispetto alla maggior parte dei brani e belle armonie vocali. L’augurio è che questa band possa avere un futuro, perché di suoni come questi c’è davvero molto bisogno…

Paolo Crazy Carnevale

 

 

RAY DAVIES & THE CORAL
CROUCH END FESTIVAL CHORUSdavis
The Kinks Choral
2009 Decca CD

Solo un genio come Ray Davies poteva pensare a riproporre le più famose canzoni dei Kinks facendosi accompagnare da un coro liturgico, riuscendo in modo eccellente ad amalgamare brani seminali con sonorità così diverse, unendo il sacro al profano in modo unico. Il risultato è un disco davvero unico per la sua bellezza, nel quale Ray canta facendosi accompagnare da una rock band composta da Billy Shamely e Milton McDonald alle chitarre, Dick Nolan al basso, Toby Baron alla batteria e Gunnar Frick e Ian Gibbons alle tastiere. Il coro è originario di Crouch End, un sobborgo vicino a quello di Mushwell Hill dove Ray è cresciuto, ed è diretto da David Temple. Ray aveva già utilizzato questo coro nella incisione di Other People‘s Lives e in alcune sue esibizioni dal vivo. Dieci brani stupendi, alcuni tratti da Village Green Preservation Society (disco stupendo, recentemente ristampato come triplo CD in edizione deluxe), ma tutti in questa versione col coro che si amalgama perfettamente alla strumentazione elettrica, assumono una prospettiva musicale diversa, mantenendo intatto il nucleo originale della melodia. Le eterne You Really Go Me e All Day And All Of The Night, dal riff chitarristico unico e irripetibile, con il coro assumono un alone di magia. Lo stesso dicasi per le melodiche Days, See My Friend, Shangri -La e Celluloid Heroes (queste ultime due sono tra le composizioni di Davies quelle che adoro) che continuano sempre a incantare. Anche le famosissime Waterloo Sunset e Victoria con questo arrangiamento sembrano avere una immediatezza nuova e avvolgente. Notevole è anche Working Man Cafè, tratta dal suo ultimo, omonimo album, che fa la sua bella figura in mezzo a tanti classici. un cenno a parte merita il medley di Villane Green, con Big Sky, Picture Book, Johnny Thunder, Do You Remember Walter? e ovviamente la title track che coinvolgono in modo sorprendente. Un grande disco che non mi stanco mai di riascoltare! Una volta i dischi preferiti che riascoltavi in continuazione si consumavano, succederà anche per questo CD?

Daniele Ghisoni

 

 

THE HOOCHIE COOCHIE MEN WITH JON LORDhookie
Live At The Basement
2009 Edel Records CD + DVD

The Hoochie Coochie Men (da una canzone di Wilie Dixon) sono un’ottima band australiana di blues guidata dal bassista Bob Daisley che, tornato in patria dopo una incredibile militanza di oltre trent’anni con artisti del calibro di Ozzy Osbourne, i Rainbow di Ritchie Blackmore, Ronnie James Dio, Chicken Shack, Uriah Hep e Gary Moore, solo per citarne alcuni, chiama con sé i vecchi amici Rob Grosser, batteria e Tim Gaze, chitarra, già con i Rose Tattoo e Jimmy Barnes (questo ultimo cantante ex Cold Chisel, altra storica band di blues australiana). Con ospiti Mike Grubb alle tastiere e Jim Conway all’armonica pubblicano l’omonimo album che contiene spettacolari cover di classici come I Just Want To Make Love To You e You Need Love di Willie Dixon, Dallas di Johnny Winter, The Walk di Jimmy Mc Cracklin, Strange Brew dei Cream, oltre a proprie composizioni. Nel gennaio del 2003 il giornalista Paul Hogan (niente a che vedere con l’attore di Mr. Cocrodile Dundee) convince Jon Lord, che stava dirigendo alla Opera House la Sidney Symphony Orchestra, a unirsi loro per una data al mitico Basement Club. La serata, era il 7 febbraio, davanti a pochi ma competenti appassionati, diventa un evento memorabile che sorprende anche gli organizzatori per il feeling che si instaura subito tra Jon e la band, supportata da una robusta sessione fiati. Dopo l’intro e le iniziali Hideway di Freddie King, Green Onions di Booker T. e Dust My Broom di Ellmore James, con Gaze stupendo alla voce e alla chitarra solista, il blues entra nel sangue e tutta la serata diventa una stupenda improvvisazione, con i musicisti che si ritrovano a memoria. Due ore di musica, con Jon che detta i fraseggi dal suo Hammond, con Jim Conway, personaggio stupendo, che si presenta sulla sedia a rotelle alla quale è condannato per tutta la vita a soffiare il suo dolore nell’armonica. Poi, ancora ospiti come l’idolo locale Jimmy Barnes e via a canzoni senza tempo come When A Blindman Cries e The Hoochie Coochie Men Blues. Incredibile come in solo una serata la benemerita DEL sia riuscita a produrre una discografia del genere: prima una edizione in doppio CD, poi in CD+DVD, quindi in triplo CD con tutta la serata e interviste varie, poi un doppio DVD! Dimenticavo un altro doppio DVD, sempre di quella serata, sottotitolato Danger White Men Dancing nel quale è ospite niente meno che Ian Gillan in Over And Over e If This Ain‘t The Bues.

Daniele Ghisoni

 

 

THE POPEScover Popes
Outlaw Heaven
2009 Townsend Records CD

Come nelle migliori storie di fuorilegge irlandesi ubriaconi e poeti è finalmente uscito il nuovo album dei Popes, l’ormai epica band fondata dal leggendario e immancabile Shane McGowan nel 1991, durante una pausa dei suoi fidi Pogues. A distanza di cinque anni dall’ultima uscita discografica del gruppo, Release The Best, comprendente la riedizione del precedente disco, il primo senza Shane, Holloway Road, più un CD live di un concerto londinese, ecco Outlaw Heaven un ennesima bella prova della band irlandese. La voce a tratti waitsiana del fuorilegge Paul “Maddog” McGuinness e il ritmo indiavolato e pieno di whiskey dei suoi Popes ci riportano quel suono così tanto amato da noi orfani dei primi Pogues o degli indimenticabili Thin Lizzy. Proprio dall’esperienza di quattro mesi come ospite della prigione di Sua Maestà di Pentonville e dai suoi eccessi con droghe e whiskey nasce il paradiso del fuorilegge, ironica ma intensa visione di McGuinness sulla sua permanenza in prigione, scrivendo ed eseguendo le bozze di alcune di queste canzoni proprio a un suo compagno di cella. Outlaw Heaven è un ruvido disco rock, un mix a tratti rosso sangue e caotico di punk, rockabilly e irish music prodotto dagli stessi Popes con l’aiuto in sala di registrazione del vate McGowan e del suo fidato Spider Stacy che appaiono anche come ospiti in tre canzoni. Il viaggio nel particolare paradiso di McGuinness si apre con Black Is The Colour che inizialmente ricorda le atmosfere folk per poi scatenarsi in riff alla Metallica con la voce roca di “Maddog” Paul che ci apre la porta della sua cella. Seguono la bella Let The Bells Ring Out e la stupenda Angels Are Coming, una ballata degna di sua maestà Shane, ruvida e dolce in perfetto stile irish con il banjo, il mandolino e il violino di Fiachra Shanks e Ben Gunnery in evidenza. La band ci porta piacevolmente a Outlaw Heaven, la title track dove Paul Mc Guinness duetta con i suoi amici Shane & Spider e il risultato è una splendida canzone in perfetto stile tradizionale irish alla maniera dei Pogues con un riff quasi western in sottofondo alle voci che si rincorrono in un crescendo irresistibile per poi trasportarci alla delicata e intensa Boys – They Don’t Cry, altro brano da non tralasciare dopo un solo ascolto. Dopo la rockeggiante e tradizionale You’re Gonna Shine e la tormentata e ritmica Crucified i gagliardi Popes e i loro illustri amici ci consigliano di “non lasciare che i bastardi ci mettano sotto” nell’ovviamente poetica e intensa Bastards. Non troviamo il romanticismo e la poesia di Shane McGowan ma la convinzione, la forza e il fuoco scorrono nelle liriche di questo lavoro del gruppo irlandese, come dimostrano la rabbia del brano seguente Underneath The Blue Sky e la quiete tra le corde del violino e la voce quasi narrante di McGuinness di Slip Away delizioso preludio alla straordinaria song di chiusura dell’album. Loneliness Of A Long Distance Drunker non può che essere cantata dalla voce impastata e ruvida di Shane McGowan, sempre eccezionale per come conduce la canzone tra spigoli vigorosi e liriche tipicamente irlandesi.
Una chiusura degna di un grande disco ricco dello stream of whiskey irlandese e di ricordi, Bobby Sands, Robert Johnson, James Joyce, John Dillinger e “Lord Fucking Nelson” tra i brani e molti nomi leggendari di “fuorilegge” che ci hanno lasciato come John Belushi e Syd Barret o MalcolmX e Frank Sinatra nell’ultima pagina del booklet. Bentornati!

Michele Marcolla