Archivio articoli per la categoria ‘Rock'n'Pop’

THE BURRITO BROTHERS – The Magic Time Machine Of Love

di Paolo Crazy Carnevale

17 ottobre 2025

Cover

THE BURRITO BROTHERS – The Magic Time Machine Of Love (2025)

La perseveranza con cui Chris P. James sta continuando a far musica sfruttando la fama di un gruppo con cui non c’entra nulla e il cui nome dovrebbe essere stato riposto in naftalina a fine anni settanta, sta rasentando l’indecenza. I Flying Burrito Brothers non andrebbero toccati per rispetto. Certo il Flying non c’è più nella denominazione, e ci mancherebbe, qui infatti non vola proprio nessuno, e considerato il fatto che l’unico membro fondatore ancora in vita, Chris Hillman, non vuole saperne, la sua volontà andrebbe rispettata.

Ma Chris James continua a marciarci. Ed è un peccato, perché è un buon musicista, e l’ostinazione con cui continua ad accampare diritti su un nome che suo non è mai stato rimane un mistero. Soprattutto considerando il fatto che i FBB successo non ne hanno mai avuto troppo e quindi seguitare a rispolverarne le gesta e le poche glorie, non porta certo tante più vendite di quelle legate a quei nostalgici irriducibili come i galli di Asterix, che gridano al miracolo e si entusiasmano ogni volta che il nome del gruppo viene rispolverato anche se in maniera tronca.

Questo è il quinto disco di studio che James registra sotto questa sigla, ma ci sono quelli usciti come Burrito Deluxe (che sono ben peggio di quelli dei Burrito Brothers)! Ed è un peccato ulteriore perché il secondo del lotto, Notorious Burrito Brothers che avevamo recensito con entusiasmo su queste colonne, meritava decisamente.

Ma in questo nuovo disco, si tocca il fondo. Peccato per i suoni azzeccati della pedal steel di Tony Paoletta e dell’ospite Al Perkins (un ex FBB ma non fondatore), ma la copertina che inserisce a tradimento i titoli di un paio di brani dei FBB primordiali e gli estratti parlati con la voce di gram Parsons sono un trucco accalappiavendite di bassa lega.

Il repertorio? Boh! Che dire qualche colpo di coda c’è, tipo More And More (il brano con Perkins, guarda caso), ma c’è troppa roba che non c’entra nulla, dalla citazione di Give Peace A Chance, l’iniziale A Whiter Shade Of Pale dei Procol Harum e la Pride of Man che fu cavallo di battaglia dei Quicksilver. Tutta roba lontanissima dal sound country rock. Time Machine sarebbe anche unbel brano, arioso, elaborato con bei suoni, ma è un altro genere! Whiskey Woman è invece ciofeca a tutto tondo, suoni FM o AOR che speravamo fossero caduti nel dimenticatoio e che invece tornano impenitenti e legati – ahinoi! – a un nome che abbiamo amato e che vorremmo non venisse sfruttato così biecamente.

Paolo Crazy Carnevale

SIMONE GALASSI – Simone Galassi

di Paolo Baiotti

17 ottobre 2025

Simone-Galassi_Cover-album

SIMONE GALASSI
SIMONE GALASSI
Autoprodotto 2025

Se avete voglia di fare un tuffo nel passato, tra gli anni Sessanta e Settanta in cui il rock-blues forgiato dalle chitarre di Jimi Hendrix, Rory Gallagher o Jimmy Page sveva un ruolo primario nel mondo del rock, potete rivolgervi con fiducia all’esordio del chitarrista e cantante modenese Simone Galassi, un disco registrato e prodotto in collaborazione con Carlo Poddighe, che ha dato un contributo essenziale suonando batteria, basso, pianoforte, organo Hammond, piano Wurtlizer e Clavinet. Simone è un uomo e un musicista di altri tempi che sembra catapultato per caso nell’attuale secolo; non a caso l’album è stato registrato con strumentazione analogica e vintage, così come la copertina si ricollega all’epoca psichedelica.
Si tratta di un esordio studiato a lungo, in coda ad un percorso iniziato negli anni Novanta che lo ha portato nel corso di un trentennio a suonare in Italia e all’estero, soprattutto in Germania, Gran Bretagna e Olanda, con una particolare attenzione alle esibizioni con la band Irish Fire in onore di Rory Gallagher, il grande chitarrista del quale ha studiato con passione musica e testi, fino alla richiesta di partecipare ai festival di Ballyshannon e Striegistal nati per celebrare il musicista irlandese. Simone ha vari progetti e suona anche nella band della cantautrice Ellen River, oltre a concentrarsi sulla promozione del progetto solista.
Venendo al contenuto del disco, pubblicato in vinile colorato, cd e cassetta, si tratta di dieci tracce autografe che vedono al centro la chitarra e la voce ruvida di Galassi, tra rock, blues e funky con un tocco di psichedelia, mentre i testi parlano della vita di ogni giorno, con riferimenti personali. Dall’intenso e potente rock-blues di These Chains con un suono debitore di Stevie Ray Vaughan al mid-tempo aspro e incisivo di I Have To Tell You, dall’incalzante zeppeliniana I’ll Never dove la voce ricorda anche il canadese Frank Marino al funky di 95 l’album si sviluppa senza momenti di stanca, seppur con qualche calo di creatività (In Your Eyes) compensato dal calore delle esecuzioni. La sulfurea ballata hendrixiana Since You’re Gone è una delle tracce più convincenti, con l’Hammond e il Wurtlizer che affiancano una chitarra sofferente, insieme all’altra ballata Shooting Stars e alla pesante e distorta Hazy Nights, la traccia più lunga e “moderna” del disco, con evidenti richiami al grunge mischiato con Hendrix.
Questo è un album che sembra paracadutato dal periodo d’oro del rock-blues, con un suono e una grafica adeguati.

Paolo Baiotti

LOLLY LEE – Lolly Lee

di Paolo Baiotti

10 ottobre 2025

Lolly_Lee_Album_Cover

LOLLY LEE
LOLLY LEE
Admiral Bean 2024

Lolly Lee non è solo una cantante, ma una polistrumentista di Birmingham, Alabama, che ha alle spalle un lungo cammino in ambito musicale. All’età di 63 anni ha pubblicato il suo primo album solista dopo una serie di esperienze, concerti, bambini, matrimonio, cadute e risalite, alti e bassi. Negli anni ottanta ha fatto parte della rock band The Mortals come cantante solista, prendendo qualcosa dalle sue artiste preferite: Stevie Nicks, Lucinda Williams e Joni Mitchell. In seguito, è diventata chitarrista ritmica e cantante degli Split The Dark, attivi nel sud est, lasciando per diventare madre. Dopo una lunga pausa nella quale ha lavorato dietro le quinte come compositrice vivendo nell’Alabama rurale, nel 2022 ha perso il marito per malattia, il padre e il cane, riversando il suo dolore in nuove canzoni e preparando finalmente l’esordio da solista, convinta anche dall’appoggio dei quattro figli. In questa attività è stata coadiuvata dal vecchio amico Anthony Crawford, non proprio l’ultimo arrivato, collaboratore di Neil Young negli anni Ottanta in Everybody’s Rockin’, Old Ways e A Treasure (era membro degli Shocking Pinks e degli International Harvesters) e più recentemente in Prairie Wind e Fork On The Road, nonché di altri artisti tra i quali Vince Gill, Steve Winwood e Dwight Yoakam, oltre che compositore, artista solista e in coppia con la moglie Savana Lee nel duo Sugarcane Jane. Nel disco in esame Anthony, oltre a produrre insieme a Lolly Lee nello studio di proprietà Admiral Bean, ha suonato basso, batteria, chitarra, mandolino, lap steel e tastiere, mentre ai cori è stato affiancato dalla moglie, lasciando a Lolly la chitarra e la voce solista.
Mischiando elementi di rock, country e americana l’artista dimostra di avere l’energia di una giovane esordiente, una voce caratteristica, testi intelligenti e una discreta capacità di scrittura. Il rock solido di Satellite con un coro che resta in testa, il singolo Great Crusade in cui la tonalità vocale ricorda Marianne Faithfull, potente e toccante nel catturare l’essenza dell’amore, della perdita e delle difficoltà della vita quotidiana nell’Alabama rurale, l’oscura e inquietante melodia di Shot At The Devil, il country morbido di Free State Of Winston, l’animata e nostalgica Sweet Alabama Home e la rilassata I Used To Live Here emergono in un album ben costruito e prodotto con cura.

Paolo Baiotti

THE BOBBY TENDERLOIN UNIVERSE – Satan Is A Woman

di Paolo Baiotti

8 ottobre 2025

bobby

THE BOBBY TENDERLOIN UNIVERSE
SATAN IS A WOMAN
CMR 2024

Quando ho ascoltato per la prima volta la title track che apre il nuovo album di questa formazione canadese di Edmonton, ho pensato che il fantasma di Johnny Cash fosse tornato tra noi. Bobby ha una voce profonda che ricorda l’inimitabile Cash e anche la musica del brano, che nel testo propone l’ipotesi di una protagonista diabolica che entra nel mondo di Tenderloin travestita come una moderna femme fatale, il tipo di persona che cattura all’istante il cuore di un uomo, ma allo stesso tempo minaccia di distruggerlo nel processo, richiama il country classico. Un’impressione ribadita da What Do I Do che rivisita il “boom chicka boom” dei Tennesse Three, con l’aggiunta della pedal steel di Nathan Grey che interviene in tutto il disco e, in questo caso, della voce di Cayley Thomas, giovane cantante di Edmonton.
Quando tocca le tonalità più profonde come in Bad Boys Of Redemption Ranch, Bobby aggiunge un tocco oscuro pur nell’ambito di melodie country/pop di presa immediata debitrici di Lee Hazelwood. Prodotto con cura da Paul Arnusch che suona basso, percussioni e chitarra elettrica, il disco profuma di pop anni sessanta nella pianistica ballata Marigold in cui hanno un ruolo di primo piano i cori di Rhonda Chinchilla, Emma Frazier e Kayla Enns e il violino di Nathanial Wong, mentre la chiusura del primo lato è affidata ad un’altra ballata, la melanconica I Will Onfollow You supportata dagli archi.
Il gruppo, che ha supportato dal vivo artisti del calibro di Charley Crockett e Orville Peck, ha esordito nel 2019 su lunga durata, aspettando cinque anni per incidere il secondo album. Quest’anno ha pubblicato uno strano Ep, A Fistful Of Metal, in cui riarrangia in chiave country & western brani di gruppi metal come Iron Maiden (Fear Of The Dark) e Judas Priest (Breaking The Law).
Tornando a Satan Is A Woman, il secondo lato del vinile (è uscito anche il cd) è aperto da un altro duetto, Take Me As I Am con Emma Frazier, a dire il vero un po’ banale, proseguendo con altri brani fedeli alla tradizione come When The Bullet Hits The Bull o la pianistica Rollin’ Back To You, trasmettendo alla fine l’impressione di un ascolto piacevole che resta in superficie senza lasciare un segno profondo.

Paolo Baiotti

PARALLELS – Exodus

di Paolo Baiotti

24 settembre 2025

parallels

PARALLELS
EXODUS
Autoprodotto 2024

“In un classico formato concept album, Exodus racconta la storia di una giovane coppia che affronta la guerra: ‘Se non ti sottometti, ti offrono la spada’. Decidono che lui lascerà il paese per primo, dato che lei aspetta il loro primogenito da un giorno all’altro. È un viaggio pericoloso, tra fuoco incrociato, cecchini e potenziali tradimenti. Lui deve attraversare il mare. Ma lo farà? E lei? Si riuniranno?”.
Così viene presentato nelle note di copertina Exodus, l’ambizioso debutto del trio svedese dei Parallels formato da Ulrik Arfurén (voce solista e basso), Torbiorn Carlsson (tastiere) e Anders Boriesson (chitarra e voce), che si possono considerare una formazione di neo-prog con venature metal. Il tema principale riguarda il flagello della guerra, che purtroppo i tempi recenti hanno mostrato sempre presente nella mente di troppe nazioni e di troppe persone. Ognuno può applicarlo all’area di conflitto che ritiene più vicina, anche se questo progetto è dedicata alla lotta ucraina, come si evince dal dialogo iniziale in quella lingua.
Dal punto di vista musicale i Parallels dimostrano di avere una notevole competenza strumentale e anche la scrittura e gli arrangiamenti, quasi interamente nelle mani di Carlsson, sono di buon livello pur avendo inevitabili riferimenti sia al prog degli anni Settanta (Camel, Genesis, Pink Floyd) che a quello degli anni ottanta (IQ, Twelfth Night). Prevalgono le parti melodiche con le tastiere e i synth in primo piano, oltre alla voce consistente e solida di Arfuren che in un paio di tracce è affiancato dalla cantante Maria Kirilov.
L’apertura di The Beginning è drammatica ed emozionante, con un testo commovente che accompagna una musica che a tratti ricorda i Camel e i Pink Floyd con una chitarra espressiva nell’assolo centrale seguita da una parte cantata più sforzata e sofferta dove le tastiere il comando. Segue The Escape che ha una prima parte che dà la sensazione di fuga con il synth e una chitarra heavy, una sezione più quieta cantata, un break strumentale con le tastiere avvolgenti e un finale accelerato che confluisce nella bluesata You’ve Got To Run, duetto vocale tra Arfuren e la Kirilov accompagnati dal piano, da una chitarra gilmouriana e dagli archi. Il crescendo di One More Road è seguito dalla potente e trascinante Fields Of Despair in cui una chitarra ruvida duetta con le tastiere in un contrasto che caratterizza il brano, esemplare per i continui cambi di ritmo e atmosfera, confluendo nella sofferta How Can This Even Be?, l’altro duetto con la Kirilov.
La seconda parte è aperta e chiusa da Not Alone Part 1-2: la prima è la traccia più lunga del disco in cui piano e tastiere avvolgono l’ascoltatore e che, dopo il cantato, accelera con il synth e la chitarra in dialogo serrato rallentando nuovamente con il ritorno della voce solista. Il prog-metal di Forgotten, la sofferta Darkness e la cadenzata Sea Of Death sottolineano i momenti più difficili della fuga, mentre in Say Hello (Solid Ground) viene tentata una via d’uscita oltre la linea del fronte alla ricerca della tanto agognata liberazione che sembra possibile nella chiusura di Not Alone part 2, portatrice di un messaggio di speranza sottolineato dalla solennità della musica.
Exodus è un disco che merita un ascolto accurato, specialmente da parte degli appassionati di prog classico.

Paolo Baiotti

GRAZIANO ROMANI – Looking Ahead

di Paolo Crazy Carnevale

22 settembre 2025

Romani_Looking-Ahead

GRAZIANO ROMANI – Looking Ahead (Route 61 Recordsvc 2025)

Non solo Springsteen. È la prima cosa che viene in mente ascoltando questo nuovo lavoro del rocker emiliano Graziano Romani. Non che avessimo bisogno di questo disco per scoprire che la musica di Romani va ben oltre. Ma è una cosa che è bene e giusto ribadire. Romani è stato l’anima e la voce dei Rockin’ Chairs, formazione di Reggio Emilia devota alla musica del boss: ricordo di averli sentiti nominare la prima volta alla fine del 1984 grazie ad una loro versione di Jungleland registrata proditoriamente dal vivo nella mia città (ma io stavo facendo il soldato altrove, allora) e finita in una compilation casalinga su nastro. Un paio d’anni dopo sono tornati a suonare dalle mie parti e il concerto non me lo sono perso. Poco dopo è arrivato il famoso primo LP su Ala Bianca/EMI. Da quei tempi eroici – per una band rock di quel genere in Italia non era certo facile avere l’opportunità di fare dischi – di acqua sotto i ponti ne è passata molta, allo sfaldamento del gruppo, Romani ha fatto seguire una carriera solista di riguardo, varia, ha persino preso parte a tributi a Springsteen, ha fatto dischi in omaggio agli eroi dei fumetti cari a lui e alla sua generazione, di cui ricordo con piacere quello a Tex Willer.

Nella musica, lui non ha mai smesso di crederci. E Looking Ahead ne è la riprova. Ascolto dopo ascolto il disco cresce, matura, conquista. Se non sapessimo chi è Graziano Romani e se non sapessimo che la Route 61 è una label italiana, potrebbe essere un disco d’Oltreoceano, il disco di un artista che la musica americana la conosce a menadito, sa scrivere brani come se fosse nato lì, anche meglio forse, e oltretutto lo fa riuscendo pure a dire qualcosa coi suoi testi. Ogni brano è come una cartolina e nel booklet è accompagnato dal relativo francobollo. Il disco trasuda suoni ben costruiti, la fisarmonica quasi zydeco dell’energica Middlejune che apre il disco parla chiaro, tra l’altro la suona Franco Borghi, qui anche ad uno strepitoso pianoforte, che stava con Graziano già ai tempi dei Rockin’Chair. Così come il mitico Max Marmiroli, che qui si occupa della sezione fiati e che come Borghi negli ultimi quindici anni è sempre rimasto a fianco del titolare. Singing About Nothing gira dalle parti di Southside Johnny, ottima la chitarra di Fellon Brown e ottimo il refrain di facile assimilazione; Lay Down These Arms, oltre a confermare il buono stato della vena del Graziano autore, sta ancora nel New Jersey di fine anni settanta, con Marmiroli che suona come se fosse da solo gli Asbury Jukes, è quindi la volta della soul ballad This Kind of Sparks, con solo del sax e gran sostegno della sezione ritmica formata da Lele Cavalli e Nik Bertolani. L’arrangiamento festoso di Bright Side Of The River ci riporta al soul celtico di Kevin Rowland e soci, Unafraid ricorda un po’ Ligabue, che è uno che viene dalla stessa scuola di Romani, con un testo in stile hobo che cita inevitabilmente Woody Guthrie, Borghi ci mette un bel solo di fisarmonica. Con Universal Law il suono si fa più impetuoso e robusto, l’organo tira cannonate e l’autore invita a tornare a fare l’amore – in contrapposizione con la guerra che sembra si stia facendo ovunque di questi tempi. Altro attacco in chiave Southside Johnny per In A Just World, con Marmiroli e Borghi che sono i protagonisti della struttura sonora, magnificamente sorretta da basso e batteria. Lo status elevato del disco prosegue con From This Moment On, Black Alley Beauty (bel giro di chitarra), Looking Ahead, forse la canzone che ricorda maggiormente l’ispiratore primordiale di Romani insieme alla conclusiva Last Juke Box On Earth, brano evocativo costruito sull’onda di ricordi davvero lontani.

Paolo Crazy Carnevale

MICHAEL WARD – Brighter Days

di Paolo Baiotti

21 settembre 2025

MICHAEL-WARD.Album-cover

MICHAEL WARD With Dogs And Fishes
BRIGHTER DAYS
Autoprodotto 2024

Nell’agosto del 2024, Michael Ward con la sua band Dogs & Fishes ha pubblicato il quinto album Brighter Days, con otto canzoni registrate agli Hyde Street Studios di Rancho Rivera in California di cui Michael è proprietario. L’album, che ha un significato politico espresso con forza nei testi, è influenzato dal blues, dal rock classico, dal soul di Memphis e soprattutto, dal suono della west coast. Il disco è stato masterizzato dall’esperto Howie Weinberg (Herbie Hancock, Beastie Boys, Jethro Tull, U2).
La band Dogs And Fishes, oltre a Michael (voce e chitarra), è formata da sei elementi che suonano insieme da un ventennio, vale a dire Prairie Prince (The Tubes, Tom Waits, John Fogerty) alla batteria, Chris Von Sneidern (Chuck Prophet) alla chitarra, Richard Howell (Etta James, Taj Mahal) al sax, Drew Zingg (Steely Dan) alla chitarra, Jeff Cleland (Hot Sauce) al basso e il boliviano Fernando De Sanjines (Samba Do Coracao) alla batteria e percussioni.
Tra i brani spicca il singolo Big Bite, un funky-rock chitarristico in cui è curiosamente campionato un frammento della dichiarazione di guerra di Mussolini assimilato al modello trumpiano di visione politica. Come ha dichiarato Ward “L’attuale modello trumpiano è schietto e audace nel porre le sue intenzioni fasciste come centrali nella sua attuale piattaforma, così com’è. Questa melodia affronta i meccanismi di attrazione di questo pericoloso stato d’animo.” Da notare anche una cover accelerata di Highway 61 in cui la voce mi ha ricordato Ian Gillan dei Deep Purple, con un notevole apporto di tastiere, chitarre e fiati unita alla polemica TV Preacher, atto d’accusa contro i predicatori, la mossa Dress Up Day in cui emerge il sax di Howell nella jam finale e la fluida A Walk In The Park registrata dal vivo, attraversata da un sax nuovamente in primo piano.

Paolo Baiotti

BROCK DAVIS – Everyday Miracle

di Paolo Baiotti

21 settembre 2025

Brock-Davis-Med-Res-Cover

BROCK DAVIS
EVERYDAY MIRACLE
Raintown Records 2024

Cresciuto in una cittadina vicina a Vancouver, ma da tempo residente a Santa Cruz in California, Brock è un cantautore che ama mischiare un fingerstyle acustico con il suono elettrico della Telecaster byrdsiana e l’organo B3, tra rock, country e folk.
È un veterano dei palchi avendo lavorato in bar e club e inciso un paio di album, A Song Waiting To Be Sung e il più recente Everyday Miracle, che raccoglie la prima parte delle canzoni registrate da Zach Allen (Keb’ Mo’) nel Backstage Studio di Nashville con alcuni session-men di lusso quali sono giustamente considerati Rob McNelly (Buddy Guy, Lady Antebellum, Kenny Chesney) e Justin Ostrander (Luke Bryan, Cody Johnson) alla chitarra, Russ Pahl (Robert Plant, Vince Gill, Carrie Underwood) alla pedal steel, Michael Rojas (Black Keys, Dolly Parton, Stevie Nicks) alle tastiere, Duncan Mullins (Crystal Gayle, Richard Marx) al basso e Marcus Finnie (Keb’ Mo’, Taj Mahal, Lady Antebellum) alla batteria.
Everyday Miracle è un disco melodico, riflessivo, elegante, a tratti emozionale pur essendo musicalmente piuttosto uniforme, con uno studiato utilizzo dei cori d’ispirazione gospel in tracce come Rain Falling On The Water, la riflessiva Give Forgiveness ed Everyday Miracle. Tra gli episodi country-rock più ritmati che vivacizzano l’ascolto citerei You’d Think I Know By Now e il singolo Keep On che ha ricevuto notevoli attenzioni. La voce di Brock risalta nella ballata pop I’ll Always Be Your Dad un po’ zuccherosa, nell’elegante The Warrior, nella love song Angela (Please Say Yes) e nella dolente September Rain, mentre la chiusura di My Promise To You richiama nel testo le promesse di nozze di Brock alla moglie.
Il musicista, confermando il suo romanticismo, ha commentato così questo brano: “mia moglie ama i grandi gesti romantici; quindi, sapevo che volevo chiederle di sposarmi con una canzone. Ma non sono riuscito a superare la prima riga che ho iniziato a piangere e poi anche lei si è messa a piangere. Ma ha detto di sì”.

Paolo Baiotti

LEAF RAPIDS – Velvet Paintings

di Paolo Baiotti

17 settembre 2025

LEAF RAPIDS
VELVET PAINTINGS
Forty Below 2025
Mile33 2024

I coniugi Keri e Devin Latimer sono il fulcro dei Leaf Rapids, formazione che prende il nome dalla cittadina situata nel nord-ovest del Manitoba in Canada dove risiedono, una zona isolata in un territorio un tempo abitato da tribù indiane. Dopo avere militato nei primi anni del nuovo millennio nel quartetto di alternative-country Nathan che ha inciso tre album, hanno proseguito da soli esordendo nel 2015 con Lucky Stars, seguito nel 2019 da Citizen Alien, un disco particolare che traeva ispirazione da vicende famigliari della coppia (Keri è di origine giapponese).
Dopo una pausa coincisa con il periodo della pandemia è il momento di Velvet Paintings, un album che vuole avere un suono roots-country e una visione più ampia sul mondo e sugli interpreti del momento attuale. Keri (autrice e cantante) e Devin (basso) sono accompagnati da Joanna Miller (batteria e voce) e Chris Dunn (chitarra), con l’aggiunta del contributo di Bill Western (pedal steel), Geoff Hilhorst (tastiere), Natanielle Felicitas (violoncello) e John Paul Peters (violino) che ha mixato e coprodotto il disco con Keri nello stuudio Private Ear di Winnipeg.
La title track si offre all’ascolto in modo quieto e melodico con la voce sottile della cantante in primo piano; Starling To a Starling accelera il ritmo senza scossoni, con un’influenza country data dalla pedal steel, che continua in Fast Romantic, aperta da arpeggi non dissimili da Jackson dei coniugi Cash. Si prosegue con la romantica ballata Silver Fillings e con il delicato folk-pop Night Shift in cui Keri lascia il ruolo di voce solista alla batterista Joanna Miller, autrice della canzone. L’eterea Paramjit’s Sonnet ammorbidita dagli archi conferma la preferenza per le melodie avvolgenti, ribadita dalla carezzevole In The Woods, mentre il ritmo si rialza un pochino nel country chitarristico di Trepidatious Celebrations in cui gli strumenti si intrecciano con sapienza, portandoci alla chiusura di Insomniac Show.
Prodotto con il prezioso aiuto finanziario della “Manitoba Film & Music”, Velvet Paintings è l’ennesima riprova della vitalità della scena roots canadese.

Paolo Baiotti

NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS – Still Shakin’

di Paolo Baiotti

13 settembre 2025

nma

NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS
STILL SHAKIN’
New West 2025

Nel presentare il nuovo album Luther Dickinson ha dichiarato: “Still Shakin’ è una celebrazione del nostro primo album che ci ha cambiato la vita, Shake Hands with Shorty, pubblicato 25 anni fa e una lettera d’amore e di apprezzamento a coloro che ci hanno supportato e ci hanno permesso di continuare a suonare in tutti questi anni. Portare in tour questo ciclo di album fino al 2026 segnerà trent’anni da quando abbiamo fondato i North Mississippi Allstars e non abbiamo resistito a commemorare entrambi gli anniversari. Invece di concentrarci sul vecchio materiale abbiamo deciso di registrare nuova musica nello spirito del nostro debutto”.
Formati nel ’96 dai fratelli Luther e Cody come un collettivo di musicisti della zona nord del Mississippi, ispirati dal padre Jim Dickinson (musicista e produttore) e dagli storici bluesman dell’Hill Country Blues (RL Burnside, Junior Kimbrough e Fred McDowell), hanno supportato nel loro primo tour americano RL Burnside, evolvendo gradualmente il loro suono che, partendo dal blues locale, ha inserito elementi meno tradizionali e il gusto per l’improvvisazione psichedelica con influenze punk e stoner. Gli Allstars hanno avuto numerosi musicisti nella loro line-up, da Cedric Burnside a Chris Chew, da Oteil Burbridge e Garry Burnside e hanno collaborato a numerosi dischi di altri, specialmente Luther che ha anche suonato per un certo periodo con i Black Crowes e Phil & Friends.
L’esordio è stato registrato nello studio di famiglia, lo Zebra Ranch di Independence come molti dischi successivi e gran parte di Still Shakin’. L’attuale line-up della band comprende Rayfield Holloman (pedal steel, basso e basso synth) e Joey Williams (voce, chitarra e basso), due musicisti presentati a Luther da Robert Randolph, ma partecipano all’album altri amici e colleghi.
A tre anni dal valido Set Sail, Still’Shakin’ definito da Luther un disco di Modern Mississippi Music mischia il suono delle origini con influenze più recenti risultando ancora una volta interessante e convincente. La versione accelerata e funkeggiante di Preachin’ Blues è un esempio di questo mix di tradizione e modernità, a differenza di Stay All Night (Junior Kimbrough) che vira verso la tradizione con l’intervento della chitarra e voce di Robert Kimbrough, figlio di Junior e dell’Hammond di JoJo Hermann (Widespread Panic). Le voci di Sharisse e Shontelle Norman accompagnano Luther nel mid-tempo My Mind Is Ramblin’ (Junior Kimbrough), seguito da Pray For Peace, brano che intitolava l’album del 2017, ripreso in una versione venata di gospel con le voci di Cody e Joey e da K.C. Jones (Furry Lewis) in cui il basso è affidato a Graheme Lesh, figlio del bassista dei Grateful Dead al quale è dedicato il disco.
Se l’ondeggiante Still Shakin’ ha un groove ballabile con dei suoni più moderni, anche Poor Boy (R.L. Burnside) viene rivista con Rayfield al synth bass e Duwayne Burnside alla chitarra solista dove si alterna con la slide di Luther nella jam strumentale, mentre il tradizionale Don’t Let The Devil Ride, con Joey Williams voce solista, ha un delizioso andamento insinuante e brillanti break strumentali. Nel finale non poteva mancare un brano dedicato al padre Jim, il melodico (e atipico) strumentale Monomyth con Luther al piano e Kashiah Hunter alla steel guitar.

Paolo Baiotti

CHARLIE MUSSELWHITE – Look Out Highway

di Paolo Baiotti

10 settembre 2025

40 below singles template 1

CHARLIE MUSSELWHITE
LOOK OUT HIGHWAY
Forty Below 2025

Charlie è uno dei “grandi vecchi” del blues tuttora in attività sia in studio che dal vivo. E non sbaglia un colpo! Nato in Mississippi, cresciuto a Memphis, ha vissuto per molti anni a Chicago e poi a San Francisco, ma più recentemente è tornato a casa trasferendosi a Clarksdale. Dopo il disco con Ben Harper (No Mercy In This Land, Anti 2018), quello con Elvin Bishop (100 Years Of Blues, Alligator 2020) e l’eccellente Mississippi Son (Alligator 2022), ha firmato per la Forty Below che recentemente ha pubblicato Look Out Highway registrato ai Greaseland Studios del chitarrista norvegese Kid Andersen (Rick Estrin & The Nightcats, Elvin Bishop) che ha prodotto il disco con Gary Vincent e Henrietta, moglie di Charlie. Vincitore di numerosi Grammys e Blues Awards con quasi 60 anni di carriera iniziata nel ’66 con l’album Stand Back! per la Vanguard il grande armonicista, chitarrista e cantante ha ancora voglia di dimostrare la sua autenticità, la voce graffiante e robusta e l’indubbia capacità di armonicista con un timbro riconoscibile che gli hanno consentito di collaborare con artisti di ogni epoca, da Tom Waits a Cindy Lauper, da Bonnie Raitt ai Blind Boys Of Alabama.
In questo disco in cui i brani sono in qualche modo legati dal tema del viaggio e della strada, Charlie è accompagnato dalla sua band formata da Matt Stubbs alla chitarra, Randy Bermudes al basso e June Core alla batteria con Andersen, che più volte ha suonato con lui, alla chitarra e tastiere. La title track posta in apertura ha un suono più duro del solito e un’armonica abrasiva, mentre la successiva Sad Eyes è più lenta e melodica anche negli interventi dell’armonica, mettendo in mostra le doti del chitarrista Matt Stubbs. Dal Chicago blues di Storm Warning all’incisivo shuffle di Baby Won’t You Please Help Me, dalla saltellante Hip Shakin’ Mama al blues mid-tempo Highway 61 con le tastiere in primo piano il disco scorre veloce senza momenti di stanca. Charlie dimostra di avere voglia di sorprendere in Ghosts In Memphis dove duetta con il rapper Al Kapone e nel rock-blues Ready For Times To Get Better (incisa nel ’76 da Crystal Gayle) dove interviene la cantante Edna Lockett, tornando sul suo terreno preferito nel magistrale slow strumentale Blue Lounge in cui suona la slide, chiudendo con il flessuoso blues di Open Road un altro album pienamente riuscito.

Paolo Baiotti

BONNY JACK – Somewhere, Nowhere

di Donata Ricci

9 settembre 2025

BONNY-JACK-Somewhere-Nowhere

BONNY JACK
Somewhere, Nowhere
Autoprodotto / AZ Press – 2025

Chi mastica di fotografia conosce la differenza tra il formato raw (ossia grezzo) ed il lezioso jpg, risultato di elaborazioni in fase di post-produzione. Ebbene, la terza prova discografica di Bonny Jack, dall’interessante titolo Somewhere, Nowhere, è assimilabile a un fotogramma sonoro in formato raw, che sappiamo essere il migliore in quanto privo di edulcorazioni. Le undici tracce del disco arrivano all’ascoltatore dirette, nude, scevre di artifizi che possano alterarne l’immediatezza. Ed è esattamente ciò che serve per conservare ogni granello di polvere depositatasi sui camperos e per disegnare quelle atmosfere dark-western che Bonny Jack riesce a miscelare con un blues primitivo e con l’irruenza del combat folk più genuino. Il ricorso alla lingua inglese risulta dunque appropriato, perché altrimenti come lo racconti il deserto geografico e interiore che ti brucia dentro? Congrui anche gli arrangiamenti, affidati all’incisiva fisarmonica di Angelica Foschi, all’armonica di Ren Vas Terul, al violino segnante di Brian D., alla slide nonché chitarre elettriche e armonica di Guido Jandelli, alle percussioni di Andrea Vettor e infine alla voce di Alia; oltre naturalmente al banjo e all’imprescindibile chitarra di Bonny Jack, il quale qui lascia a casa l’elettrica optando per un’acustica arrembante, perché resta inteso che il suo formato preferito è quello one man band, supportato da kazoo, tamburi a pedale e sonagli a cavigliera. Eppure non disdegna una coralità quasi tribale, come quella che si apprezza nel canto corale di Wake up. Classe 1984, al secolo Matteo Senese, Bonny viene attratto precocemente dalla chitarra, milita in svariate band nostrane e poi si trasferisce a Seattle, dove respira grunge a pieni polmoni prima di rientrare in Italia con un bagaglio musicale ormai maturo. La pubblicazione di Somewhere, Nowhere è preceduta dal singolo Carnival valley, per chi scrive il brano migliore della raccolta: il giro armonico mi rimanda immediatamente a Good shepherd e il suono sembra proprio quello dell’aeroplano Jefferson periodo Volunteers. Un’influenza inattesa e decisamente gradevole. Poi si vira con naturalezza e senza stridore alcuno alle sonorità mariachi di Mexican standoff, dove la tromba di Tyler R. regala l’attesa dose di Messico. Degna di menzione anche l’affascinante Post apocalypse song, una sorta di native song da cantare sommessamente e con cuore ispirato davanti ad un tepee evocando l’Erdgeist, lo spirito della Terra. Ulteriore conferma che questo disco è in definitiva il racconto di un viaggio spirituale in bilico tra giorno e notte, tra arsura e sorgente, tra morte e vita. In altre parole tra opposti, come sembra avvalorare il disegno interno alla confezione di cartoncino grezzo (anch’esso decisamente raw) che mostra un volto tagliato in diagonale, per metà teschio e per metà truccato a festa.

Donata Ricci

JIM PATTON & SHERRY BROKUS – Big Red Gibson/Harbortowne

di Paolo Baiotti

28 agosto 2025

patton 2

patton 1

JIM PATTON & SHERRY BROKUS
BIG RED GIBSON (Berkalin 2023)
HARBORTOWNE (Berkalin 2024)

Abbiamo scritto più volte in passato dei coniugi Jim Patton e Sherry Brokus, coppia nella vita e nel lavoro, l’ultima volta nel 2022 in occasione della pubblicazione di Going The Distance. Questi sono i due dischi successivi, che rappresentano due versioni un po’ diverse della loro collaborazione che dura da più di 40 anni, dapprima con il gruppo folk/rock Edge City di Baltimora poi, in seguito allo spostamento in Texas a Austin, con una serie di dischi in coppia, sempre prodotti dall’amico chitarrista e tastierista Ron Flynt.
Big Red Gibson, settimo album pubblicato dalla coppia, è un ritorno a un suono rock, seppur sempre con un mix di elettrico e e acustico. Jim canta le principali parti soliste con Sherry ai cori, l’aiuto di Bettysoo (James McMurtry) alla voce, la chitarra elettrica di Cordy Lavery, la batteria di Steve McCarthy, il basso e le tastiere di Ron Flynt che ha sovrainteso alle registrazioni ai Jumping Dog Studios di Austin. La title track, la melodica Dead End Town, il folk-rock A Road That I Never Go Down, il pop-rock Janey Has A Locket, la ritmata Wild, Dumb & Unsatisfied rinvigorita da una chitarra psichedelica e la ballata I Still Believe In You posta in chiusura hanno attirato la nostra attenzione. Peccato per la partecipazione limitata di Sherry e per un paio di brani decisamente minori.
Harbortowne dal canto suo rappresenta il lato più folk del duo con una serie di canzoni legate ad una città immaginaria, con testi che esplorano temi rilevanti come la solitudine, i sogni andati a male, i piani abbandonati e quanto sia difficile per due persone andare d’accordo anche quando si amano e hanno a cuore il bene reciproco.
A partire dal folk della title track si respira un’atmosfera leggera dominata dalle chitarre acustiche di Jim, Rod, Rick Brotherton (Robert Earl Keen) e Bettysoo. Il disco si muove con eleganza tra il folk morbido di Never Going Back, una canzone iniziata nel ’69 e ripresa l’anno scorso in cui si inserisce il violino di Warren Hood (Lyle Lovett), When You Win The Lottery, altro brano fermo da alcuni anni sul fatto che sia necessario vincere alla lotteria per vivere decentemente in America, la sofferta ballata Missing You con gli archi, la briosa A Woman Like You, il country-folk Sally Brown, la pregevole ballata Until The Fire Is Gone e la conclusiva delicata Start Again in cui Sherry Brokus ha il suo primo ruolo solista dal 2019.
Harbortowne sembra più riuscito sia dal punto di vista compositivo che degli arrangiamenti; forse è più adatto all’attuale modo di scrivere e suonare del duo.
Cantautore semplice, poco pretenzioso e genuino, dotato di una voce discreta, Patton ha costruito una carriera solida senza picchi, ma anche senza cadute fragorose.

Paolo Baiotti

NOAH ZACHARIN – Points Of Light

di Paolo Baiotti

4 agosto 2025

noah

NOAH ZACHARIN
POINTS OF LIGHT
Sonic Peach 2024

Considerato uno dei cantautori canadesi più promettenti dell’ultimo decennio, Noah ha iniziato ad esibirsi a 14 anni, diventando musicista professionista alla fine del 2015. Nato a Montreal, si è trasferito da anni in una zona forestale nell’Ontario rurale vicino a Madoc, spostandosi ogni tanto in una baita isolata nella zona est del paese, chiamata Canadian Shield. Molto apprezzato come chitarrista per il suo fingerstyle, come autore e interprete dotato di una voce calda ed espressiva, nonché per i testi poetici, ha pubblicato il suo nono album Points Of Light nel 2024 prodotto da Danny Greenspoon, un mix di brani suonati da solo o con una band che comprende Russ Boswell al basso e Cary Craig alla batteria e percussioni, con alcuni ospiti, tra i quali Marc Ribot all’ukulele, Denis Keldie alle tastiere e Burke Carroll alla pedal steel.
Se i primi brani tra i quali Ten Tons Of Road, Bed Of Nails e la pregevole ballata So Much Work To Be Done sono influenzati dalla tradizione folk di artisti come Eric Andersen, James Taylor e David Wilcox, il disco vira verso il blues con What Have I Got To Show For It, traccia sciolta in cui si inserisce l’armonica di Roly Platt e il jazz con la swingata Lester Brown attraversata dalla tromba di Kevin Turcotte, tornando alla ballata folk con la dolente Tom Morrow. Nel finale la bluesata e pianistica Done Gone Gone è seguita dal pregevole strumentale acustico Something Like A River e dalla lunga e complessa Been A Long Day arrangiata con gli archi che chiude un disco meritevole di attenzione.

Paolo Baiotti

KATE MCDONNELL – Trapeze

di Paolo Baiotti

21 luglio 2025

KateMcDonnell

KATE MCDONNELL
TRAPEZE
Dog Eared Discs 2024

Nata a Baltimora nel ’63 in una famiglia di musicisti professionisti (i nonni) o dilettanti (i genitori), Kate ha alle spalle una carriera non molto prolifica, ma significativa. Introdotta alla musica folk dai dischi di Joan Baez, ha imparato a suonare la chitarra appassionandosi a musicisti come Leo Kottke e Steve Howe. Dotata di una voce da soprano, ha formato un duo con la sorella gemella suonando nell’area di Baltimora durante il periodo del college. Dopo una pausa si è unita al chitarrista Freddie Tane (ex Bill Haley) con il quale ha inciso due dischi, aprendo per Bob Dylan, Willie Nelson e Judy Collins. Nei primi anni novanta ha iniziato a scrivere e a suonare da sola nei festival folk più conosciuti (Kerrville, Falcon Ridge) esordendo nel ’92 con Broken Bones, accolto positivamente dalla critica. Tour americani ed europei si sono susseguiti dal ’98 quando ha inciso Next, seguito tre anni dopo da Don’t Get Me Started presentato anche al Festival di Newport. Nel 2005 è uscito Where The Mongoes Are (Appleseed Recordings), ma l’anno dopo Kate ha deciso di dedicarsi agli studi per diventare terapeuta infantile, ottenendo il diploma e lavorando per dieci anni in questo settore pur non tralasciando la musica. Ha continuato a scrivere con la partner Anne Lindley finchè nel 2020, durante la pandemia, è tornata in studio vicino a Woodstock per incidere Ballad Of A Bad Girl con musicisti di qualità (Jerry Marotta, Tony Levin). Tre anni dopo è la volta di Trapeze che comprende 14 tracce scritte tra il 2021 e il 2024 con l’eccezione di una traccia del 2012, la metà in coppia con la Lindley. Assistita alla produzione da Jimi Woodul che ha registrato il disco nel suo studio suonando vari strumenti (chitarra, tastiere, synth, percussioni), alla batteria dal vecchio collaboratore Sam Zucchini e al basso da James Gascoyne, Kate mantiene le sue caratteristiche di cantatutrice folk con venature rock e pop, più accentuate in questa occasione. Si alternano tempi lenti e più ritmati sempre con una forte vena melodica, cori accattivanti e un accompagnamento discreto in cui la chitarra ha un ruolo primario. Forse la sforbiciatura di un paio di brani avrebbe giovato all’ascolto, tuttavia la title track, ballata intima interpretata con intensità, la ritmata A Hard Heart, Come Over Here influenzata dalla scrittura e dal modo di cantare di Joan Baez, la trascinante Nowhere To Go, l’animata Fight For Your Life, Step Right Up con un testo contro il rischio della vendita indiscriminata delle armi e la sofferta Madeleine dimostrano le doti di autrice e di interprete di Kate.
La confezione in digipack del cd è molto curata e comprende i testi delle canzoni.

Paolo Baiotti

BIRDFEEDER – Woodstock

di Paolo Baiotti

9 luglio 2025

Birdfeeder_Woodstock_Cover

BIRDFEEDER
WOODSTOCK
Soul Selects 2024

Chris Harford, solista e membro fondamentale della indie-band 3 Colors, nei primi anni novanta si ritrova con l’amico Mark Mulcahy, batterista e cantante solista nonché anima dei Miracle Legion e poi dei Polaris. Entrambi dell’area di Boston, registrano dei demos che restano per un paio di decenni in cantina, finchè Chris li fa ascoltare a Kevin Salem, chitarrista e cantante, autore di Soma City nel ’94 seguito da altri due album da solista, dopo avere fatto parte dei Dumptruck e per un breve periodo dei Yo La Tengo. A causa di problemi di salute Kevin aveva messo da parte la carriera solista dedicandosi alla produzione e alla scrittura di colonne sonore, trasferendosi a Woodstock. Harford e Salem decidono di registrare alcuni di questi demos, aggiungendo un paio di brani nello studio del chitarrista che produce il disco o, meglio, il mini-album formato da otto brani per meno di mezzora, che ha come copertina una foto dello studio. Il nome Birdfeeder viene suggerito da Mark, voce solista in tutte le canzoni. Siamo in ambito indie-rock con venature pop, canzoni semplici arrangiate in modo essenziale e minimale, che hanno un loro fascino e una ragione d’essere, trattandosi di tre musicisti di valore.
Se l’apertura di Big Chairs And Candy ricorda i Wilco più rilassati anche nella voce, She Stood Up At The PTA ha una melodia azzeccata, come la beatlesiana My Cousin. Più vicine al rock il primo singolo So Triangular, pur essendo molto asciutto con qualche somiglianza con i fratelli Dickinson e la ritmata So It’s a Bomb, mentre il suono si ammorbidisce nuovamente in Born This Way (da apprezzare gli intrecci vocali tra Mark e Chris) e nell’acustica A Fairy Tale cantata parzialmente in falsetto. In chiusura l’unico demo invariato rispetto al nastro originale, la distorta e sperimentale Super Diamondaire, che non si amalgama con il resto del materiale.

Paolo Baiotti

ROSALBA GUASTELLA – Dharma

di Paolo Baiotti

3 luglio 2025

cover

ROSALBA GUASTELLA
DHARMA
Rubber Soul 2025

Terzo album solista per la cantautrice torinese Rosalba Guastella, in passato vocalist dell’ultima formazione dei No Strange. Dopo il folk-blues dai morbidi sapori psichedelici di matrice britannica dell’esordio My Little Songs, il successivo Grace si rivolgeva maggiormente verso la west coast di fine anni sessanta, l’epoca hippy del flower power con influenze orientali. Dharma si può leggere come una sintesi dei due dischi precedenti, con la voce dolce a tratti sussurrata di Rosalba avvolta da una maggiore incidenza strumentale della chitarra di Dario Lombardo e della tromba di Stefano Chiappo, con qualche altro intervento di rilievo.
Come sempre è da apprezzare la passione con la quale è curata la grafica del disco, pubblicato dalla Rubber Soul (emanazione dell’omonimo negozio torinese) per ora in un’edizione di cento copie numerate in vinile colorato (splatter arancio o blu) comprendente un inserto con i testi.
L’iniziale At Fillmore è una sintesi di influenze indiane e californiane con la voce che assume tonalità alla Grace Slick, strumenti indiani e mirati inserimenti della chitarra di Dario, seguita dal folk orientaleggiante di The Green Valley in cui spiccano le tastiere di Ludovico Ellena e il flauto di Guido Rossetti e dal folk gitano-californiano (se così si può dire) di Gipsy che richiama la vocalità di Patti Smith. Dopo Water, caratterizzata da un tappeto di tastiere e da giochi vocali di Rosalba, The Real Me chiude il primo lato mettendo in luce, dopo un breve momento vocale, una tromba evocativa che duetta con la chitarra. Si riparte con la minimale e spettrale Shape Of Waterfall che sfuma nella ritmata Over The Rain, prima traccia non scritta da Rosalba, ma da Marco Milanesio. Don’t Stay Away, composta da Claudio Belletti (musica) e Rosalba (testo) è lenta e rilassata, un esempio di psichedelia rarefatta, in cui si inseriscono i vocalizzi della cantante e la chitarra robusta di Stefano Danusso. La romantica ballata pianistica Julia opera di Rosario, padre di Rosalba che ne ha scritto il testo, sembra un po’ fuori contesto e precede la chiusura morbida e sussurrata di Radio, forse un po’ fragile.
Nel compesso Dharma è un album pregevole che necessita di essere assorbito con la giusta lentezza, con qualche carenza nella parte finale.
Il disco si può ascoltare e acquistare qui: https://rosalbaguastella.bandcamp.com/album/dharma

Paolo Baiotti

MICHAEL MENAGER – Line In The Water

di Paolo Baiotti

30 giugno 2025

menager

MICHAEL MENAGER
LINE IN THE WATER
Autoprodotto 2023

Californiano nativo dell’area est di Los Angeles, ha studiato nella Bay Area durante gli anni sessanta laureandosi in letteratura, appassionato sia di autori storici che degli scrittori della Beat Generation. Nello stesso periodo si è avvicinato alla musica folk e blues partendo da Mississippi John Hart e Gary Davis per arrivare a Dylan, Waits e Townes Van Zandt. Dopo avere vissuto in Algeria e a Parigi è tornato in California e quindi in Oregon dove ha lavorato in diversi settori, suonando nel tempo libero. Nell’87, dopo una delusione personale, si è trasferito in Australia adattandosi a diversi lavori, ma dedicandosi con maggiore attenzione alla musica. L’amico cantautore Heath Cullen lo ha convinto ad esordire in età matura nel 2014 con Clean Exit seguito due anni dopo da Not The Express, entrambi prodotti da Cullen, abbracciando uno stile country-blues con influenze folk e bluegrass, un pizzico di jazz e rock and roll, in sostanza quello che viene definito “Americana”. Dopo una lunga pausa torna con Line In The Water in cui si è affidato nuovamente all’australiano, autore nel 2020 del pregevole Springtime In The Heart per il quale si era spostato a Los Angeles dove era stato prodotto da Joe Henry. Registrato nel New South Wales durante la pandemia, il disco conferma la solida scrittura folk di Menager, arricchito nel suono dai tipici tocchi essenziali e minimali del produttore che ha suonato batteria, banjo, violino e mandolino (il nome della band di accompagnamento The Devil’s Creek Rounders è fittizio, sono tutti alter ego di Heath).
Menager ha una voce folk espressiva e avvolgente, anche quando narra invece di cantare come nella bluesata title track. Line In The Water comprende nove tracce autografe e una cover, partendo con il folk What Is It Really That i Need? caratterizzato da interventi mirati del violino e di chitarra acustica, seguito da High Water Ahead che richiama il suono minimale e cadenzato di Tom Waits e dal blues Baby, I Can Change.
Tutti i brani fanno la loro figura; dovendo scegliere citerei ancora la melodica Autumn Flood On Devil’s Creek in cui spicca un’elettrica incisiva e l’acustica e drammatica Just This. Il disco è chiuso dall’unica cover, Home di Heath Cullen, una ballata arrangiata con un violino di matrice irlandese.
Sulla pagina Bandcamp dell’artista sono reperibili i suoi tre album.

Paolo Baiotti

ASHLEY E. NORTON – Call Of The Void

di Paolo Baiotti

18 giugno 2025

Ashley-E-Norton

ASHLEY E NORTON
CALL OF THE VOID
Autoprodotto 2024

Ashley E Norton è nata a Boston, ma è californiana d’adozione, essendosi trasferita a Ramona nell’area di San Diego dopo un periodo passato in Arizona. Abbiamo scritto di lei alcuni anni fa quando, superata la pandemia, dopo avere fatto parte del duo indie/folk Whitheward, ha iniziato ad esibirsi in un altro duo con Stephanie Groot con il nome Lady Psychiatrist’s Booth pubblicando un ep e un album. Ora Ashley, che ha fatto parte di altri gruppi in passato (Delcoa, Ash & The Mondays, Dolly’s Revenge), si presenta da solista con un album registrato a Nashville prodotto da Johnny Garcia, chitarrista di Garth Brooks e Trisha Yearwood, accolto favorevolmente negli ambienti roots europei. Non è un disco country, bensì di Americana con venature country e pop che si adattano alla voce duttile e solida della cantante che ha scritto tutti i brani, alcuni con Garcia e Jimmy Mattingly, ad eccezione di una cover. Garcia ha suonato ogni strumento ad eccezione di violino e violoncello, lasciati a Mattingly (anche lui proveniente dalla band di Brooks).
L’apertura di America In Me lascia intendere le influenze tra roots e country di Ashley, mettendo in mostra la sua voce melodica un po’ alla Sheryl Crow e un accompagnamento essenziale in cui spicca la chitarra solista di Garcia. Le canzoni hanno una loro intensità, pur non tralasciando una certa leggerezza. Every Woman I Know è più dura e cadenzata, interpretata con tonalità più basse, mentre Baby Blue Jean ha un ritmo spezzato, venature country e una chitarra twangy. La cover di Going To California dei Led Zeppelin, che segue la ritmata title track, fa la sua figura anche se è diversa dal resto del repertorio, con gli archi piazzati al momento giusto. Proseguendo nell’ascolto emergono il roots-pop scorrevole di The Fortune Teller, in cui si apprezza l’apporto strumentale di Garcia, la bluesata I Only Think About You, il western-roots It Doesn’t Matter e la ballata Songbirds In The Stars posta in chiusura con un violino espressivo.
Pur denotando qualche incertezza nella scrittura, Call Of The Void è un esordio solista promettente.

Paolo Baiotti

WEST OF EDEN – Whitechapel

di Paolo Baiotti

9 giugno 2025

west of

WEST OF EDEN
WHITECHAPEL
West of Music 2024

In attività da quasi trent’anni con tredici album all’attivo, gli svedesi West Of Eden di Goteborg hanno quasi sempre cantato in inglese, fedeli ad una matrice folk celtica. Nel 2021 hanno pubblicato in svedese Taube, interpretando brani del cantautore locale Evert Taube, molto conosciuto in Svezia; l’anno dopo sono tornati all’inglese con Next Stop Christmas, secondo album natalizio del loro percorso dopo Another Celtic Christmas del 2016, seguito da lunghi tour nei paesi nordici, ripetuti ogni anno sotto le festività.
Punti di forza del gruppo sono la voce chiara e limpida della leader Jenny Shaub che suona anche il flauto e la fisarmonica e che ha una tonalità perfetta per il folk britannico che richiama Fairport Convention e Steeleye Span, coadiuvata dal fratello Martin Shaub alla voce, chitarra acustica, mandolino e tastiere; gli altri componenti sono Lars Broman al violino, Henning Serhede alla chitarra, lap steel e banjo, Martin Holmlund al basso e Ola Karlevo alla batteria, percussioni e bodhran.
Nei loro dischi hanno sempre curato le armonie vocali e il suono, nonché la grafica. Anche il nuovo album è un digipack in cd con un booklet che contiene i testi; inoltre ha la particolarità di essere un concept album in cui le canzoni hanno come soggetto le storie delle donne vittime di Jack lo squartatore, criminale che ha agito nell’Ottocento nel quartiere londinese di Whitechapel. Siamo quindi in pieno ambito di “murder ballads”, sviluppate con un’alternanza di suoni elettrici e acustici combinati con sapienza.
Tra i brani di un disco che scorre veloce senza momenti di stanca spiccano Whitechapel Blues che descrive il quartiere fungendo da introduzione, seguito dal folk-rock The Ten Bells (riferimento a un pub della zona associato a due vittime del killer) in cui Jenny canta e suona la fisarmonica, la notevole ballata Nothing profumata d’Irlanda e interpretata alla perfezione da Jenny, la robusta e trascinante Harry The Hawker cantata da Martin che richiama il suono dei migliori Waterboys con l’intervento del banjo di Ron Block (Union Station), la scorrevole Mudlarking, lo strumentale irish Dark Annie e la delicata We Will Never Be Afraid Again che chiude l’album con un testo di speranza per un futuro più sereno.

Paolo Baiotti