Archivio articoli per la categoria ‘Rock'n'Pop’

KATE MCDONNELL – Trapeze

di Paolo Baiotti

21 luglio 2025

KateMcDonnell

KATE MCDONNELL
TRAPEZE
Dog Eared Discs 2024

Nata a Baltimora nel ’63 in una famiglia di musicisti professionisti (i nonni) o dilettanti (i genitori), Kate ha alle spalle una carriera non molto prolifica, ma significativa. Introdotta alla musica folk dai dischi di Joan Baez, ha imparato a suonare la chitarra appassionandosi a musicisti come Leo Kottke e Steve Howe. Dotata di una voce da soprano, ha formato un duo con la sorella gemella suonando nell’area di Baltimora durante il periodo del college. Dopo una pausa si è unita al chitarrista Freddie Tane (ex Bill Haley) con il quale ha inciso due dischi, aprendo per Bob Dylan, Willie Nelson e Judy Collins. Nei primi anni novanta ha iniziato a scrivere e a suonare da sola nei festival folk più conosciuti (Kerrville, Falcon Ridge) esordendo nel ’92 con Broken Bones, accolto positivamente dalla critica. Tour americani ed europei si sono susseguiti dal ’98 quando ha inciso Next, seguito tre anni dopo da Don’t Get Me Started presentato anche al Festival di Newport. Nel 2005 è uscito Where The Mongoes Are (Appleseed Recordings), ma l’anno dopo Kate ha deciso di dedicarsi agli studi per diventare terapeuta infantile, ottenendo il diploma e lavorando per dieci anni in questo settore pur non tralasciando la musica. Ha continuato a scrivere con la partner Anne Lindley finchè nel 2020, durante la pandemia, è tornata in studio vicino a Woodstock per incidere Ballad Of A Bad Girl con musicisti di qualità (Jerry Marotta, Tony Levin). Tre anni dopo è la volta di Trapeze che comprende 14 tracce scritte tra il 2021 e il 2024 con l’eccezione di una traccia del 2012, la metà in coppia con la Lindley. Assistita alla produzione da Jimi Woodul che ha registrato il disco nel suo studio suonando vari strumenti (chitarra, tastiere, synth, percussioni), alla batteria dal vecchio collaboratore Sam Zucchini e al basso da James Gascoyne, Kate mantiene le sue caratteristiche di cantatutrice folk con venature rock e pop, più accentuate in questa occasione. Si alternano tempi lenti e più ritmati sempre con una forte vena melodica, cori accattivanti e un accompagnamento discreto in cui la chitarra ha un ruolo primario. Forse la sforbiciatura di un paio di brani avrebbe giovato all’ascolto, tuttavia la title track, ballata intima interpretata con intensità, la ritmata A Hard Heart, Come Over Here influenzata dalla scrittura e dal modo di cantare di Joan Baez, la trascinante Nowhere To Go, l’animata Fight For Your Life, Step Right Up con un testo contro il rischio della vendita indiscriminata delle armi e la sofferta Madeleine dimostrano le doti di autrice e di interprete di Kate.
La confezione in digipack del cd è molto curata e comprende i testi delle canzoni.

Paolo Baiotti

BIRDFEEDER – Woodstock

di Paolo Baiotti

9 luglio 2025

Birdfeeder_Woodstock_Cover

BIRDFEEDER
WOODSTOCK
Soul Selects 2024

Chris Harford, solista e membro fondamentale della indie-band 3 Colors, nei primi anni novanta si ritrova con l’amico Mark Mulcahy, batterista e cantante solista nonché anima dei Miracle Legion e poi dei Polaris. Entrambi dell’area di Boston, registrano dei demos che restano per un paio di decenni in cantina, finchè Chris li fa ascoltare a Kevin Salem, chitarrista e cantante, autore di Soma City nel ’94 seguito da altri due album da solista, dopo avere fatto parte dei Dumptruck e per un breve periodo dei Yo La Tengo. A causa di problemi di salute Kevin aveva messo da parte la carriera solista dedicandosi alla produzione e alla scrittura di colonne sonore, trasferendosi a Woodstock. Harford e Salem decidono di registrare alcuni di questi demos, aggiungendo un paio di brani nello studio del chitarrista che produce il disco o, meglio, il mini-album formato da otto brani per meno di mezzora, che ha come copertina una foto dello studio. Il nome Birdfeeder viene suggerito da Mark, voce solista in tutte le canzoni. Siamo in ambito indie-rock con venature pop, canzoni semplici arrangiate in modo essenziale e minimale, che hanno un loro fascino e una ragione d’essere, trattandosi di tre musicisti di valore.
Se l’apertura di Big Chairs And Candy ricorda i Wilco più rilassati anche nella voce, She Stood Up At The PTA ha una melodia azzeccata, come la beatlesiana My Cousin. Più vicine al rock il primo singolo So Triangular, pur essendo molto asciutto con qualche somiglianza con i fratelli Dickinson e la ritmata So It’s a Bomb, mentre il suono si ammorbidisce nuovamente in Born This Way (da apprezzare gli intrecci vocali tra Mark e Chris) e nell’acustica A Fairy Tale cantata parzialmente in falsetto. In chiusura l’unico demo invariato rispetto al nastro originale, la distorta e sperimentale Super Diamondaire, che non si amalgama con il resto del materiale.

Paolo Baiotti

ROSALBA GUASTELLA – Dharma

di Paolo Baiotti

3 luglio 2025

cover

ROSALBA GUASTELLA
DHARMA
Rubber Soul 2025

Terzo album solista per la cantautrice torinese Rosalba Guastella, in passato vocalist dell’ultima formazione dei No Strange. Dopo il folk-blues dai morbidi sapori psichedelici di matrice britannica dell’esordio My Little Songs, il successivo Grace si rivolgeva maggiormente verso la west coast di fine anni sessanta, l’epoca hippy del flower power con influenze orientali. Dharma si può leggere come una sintesi dei due dischi precedenti, con la voce dolce a tratti sussurrata di Rosalba avvolta da una maggiore incidenza strumentale della chitarra di Dario Lombardo e della tromba di Stefano Chiappo, con qualche altro intervento di rilievo.
Come sempre è da apprezzare la passione con la quale è curata la grafica del disco, pubblicato dalla Rubber Soul (emanazione dell’omonimo negozio torinese) per ora in un’edizione di cento copie numerate in vinile colorato (splatter arancio o blu) comprendente un inserto con i testi.
L’iniziale At Fillmore è una sintesi di influenze indiane e californiane con la voce che assume tonalità alla Grace Slick, strumenti indiani e mirati inserimenti della chitarra di Dario, seguita dal folk orientaleggiante di The Green Valley in cui spiccano le tastiere di Ludovico Ellena e il flauto di Guido Rossetti e dal folk gitano-californiano (se così si può dire) di Gipsy che richiama la vocalità di Patti Smith. Dopo Water, caratterizzata da un tappeto di tastiere e da giochi vocali di Rosalba, The Real Me chiude il primo lato mettendo in luce, dopo un breve momento vocale, una tromba evocativa che duetta con la chitarra. Si riparte con la minimale e spettrale Shape Of Waterfall che sfuma nella ritmata Over The Rain, prima traccia non scritta da Rosalba, ma da Marco Milanesio. Don’t Stay Away, composta da Claudio Belletti (musica) e Rosalba (testo) è lenta e rilassata, un esempio di psichedelia rarefatta, in cui si inseriscono i vocalizzi della cantante e la chitarra robusta di Stefano Danusso. La romantica ballata pianistica Julia opera di Rosario, padre di Rosalba che ne ha scritto il testo, sembra un po’ fuori contesto e precede la chiusura morbida e sussurrata di Radio, forse un po’ fragile.
Nel compesso Dharma è un album pregevole che necessita di essere assorbito con la giusta lentezza, con qualche carenza nella parte finale.
Il disco si può ascoltare e acquistare qui: https://rosalbaguastella.bandcamp.com/album/dharma

Paolo Baiotti

MICHAEL MENAGER – Line In The Water

di Paolo Baiotti

30 giugno 2025

menager

MICHAEL MENAGER
LINE IN THE WATER
Autoprodotto 2023

Californiano nativo dell’area est di Los Angeles, ha studiato nella Bay Area durante gli anni sessanta laureandosi in letteratura, appassionato sia di autori storici che degli scrittori della Beat Generation. Nello stesso periodo si è avvicinato alla musica folk e blues partendo da Mississippi John Hart e Gary Davis per arrivare a Dylan, Waits e Townes Van Zandt. Dopo avere vissuto in Algeria e a Parigi è tornato in California e quindi in Oregon dove ha lavorato in diversi settori, suonando nel tempo libero. Nell’87, dopo una delusione personale, si è trasferito in Australia adattandosi a diversi lavori, ma dedicandosi con maggiore attenzione alla musica. L’amico cantautore Heath Cullen lo ha convinto ad esordire in età matura nel 2014 con Clean Exit seguito due anni dopo da Not The Express, entrambi prodotti da Cullen, abbracciando uno stile country-blues con influenze folk e bluegrass, un pizzico di jazz e rock and roll, in sostanza quello che viene definito “Americana”. Dopo una lunga pausa torna con Line In The Water in cui si è affidato nuovamente all’australiano, autore nel 2020 del pregevole Springtime In The Heart per il quale si era spostato a Los Angeles dove era stato prodotto da Joe Henry. Registrato nel New South Wales durante la pandemia, il disco conferma la solida scrittura folk di Menager, arricchito nel suono dai tipici tocchi essenziali e minimali del produttore che ha suonato batteria, banjo, violino e mandolino (il nome della band di accompagnamento The Devil’s Creek Rounders è fittizio, sono tutti alter ego di Heath).
Menager ha una voce folk espressiva e avvolgente, anche quando narra invece di cantare come nella bluesata title track. Line In The Water comprende nove tracce autografe e una cover, partendo con il folk What Is It Really That i Need? caratterizzato da interventi mirati del violino e di chitarra acustica, seguito da High Water Ahead che richiama il suono minimale e cadenzato di Tom Waits e dal blues Baby, I Can Change.
Tutti i brani fanno la loro figura; dovendo scegliere citerei ancora la melodica Autumn Flood On Devil’s Creek in cui spicca un’elettrica incisiva e l’acustica e drammatica Just This. Il disco è chiuso dall’unica cover, Home di Heath Cullen, una ballata arrangiata con un violino di matrice irlandese.
Sulla pagina Bandcamp dell’artista sono reperibili i suoi tre album.

Paolo Baiotti

ASHLEY E. NORTON – Call Of The Void

di Paolo Baiotti

18 giugno 2025

Ashley-E-Norton

ASHLEY E NORTON
CALL OF THE VOID
Autoprodotto 2024

Ashley E Norton è nata a Boston, ma è californiana d’adozione, essendosi trasferita a Ramona nell’area di San Diego dopo un periodo passato in Arizona. Abbiamo scritto di lei alcuni anni fa quando, superata la pandemia, dopo avere fatto parte del duo indie/folk Whitheward, ha iniziato ad esibirsi in un altro duo con Stephanie Groot con il nome Lady Psychiatrist’s Booth pubblicando un ep e un album. Ora Ashley, che ha fatto parte di altri gruppi in passato (Delcoa, Ash & The Mondays, Dolly’s Revenge), si presenta da solista con un album registrato a Nashville prodotto da Johnny Garcia, chitarrista di Garth Brooks e Trisha Yearwood, accolto favorevolmente negli ambienti roots europei. Non è un disco country, bensì di Americana con venature country e pop che si adattano alla voce duttile e solida della cantante che ha scritto tutti i brani, alcuni con Garcia e Jimmy Mattingly, ad eccezione di una cover. Garcia ha suonato ogni strumento ad eccezione di violino e violoncello, lasciati a Mattingly (anche lui proveniente dalla band di Brooks).
L’apertura di America In Me lascia intendere le influenze tra roots e country di Ashley, mettendo in mostra la sua voce melodica un po’ alla Sheryl Crow e un accompagnamento essenziale in cui spicca la chitarra solista di Garcia. Le canzoni hanno una loro intensità, pur non tralasciando una certa leggerezza. Every Woman I Know è più dura e cadenzata, interpretata con tonalità più basse, mentre Baby Blue Jean ha un ritmo spezzato, venature country e una chitarra twangy. La cover di Going To California dei Led Zeppelin, che segue la ritmata title track, fa la sua figura anche se è diversa dal resto del repertorio, con gli archi piazzati al momento giusto. Proseguendo nell’ascolto emergono il roots-pop scorrevole di The Fortune Teller, in cui si apprezza l’apporto strumentale di Garcia, la bluesata I Only Think About You, il western-roots It Doesn’t Matter e la ballata Songbirds In The Stars posta in chiusura con un violino espressivo.
Pur denotando qualche incertezza nella scrittura, Call Of The Void è un esordio solista promettente.

Paolo Baiotti

WEST OF EDEN – Whitechapel

di Paolo Baiotti

9 giugno 2025

west of

WEST OF EDEN
WHITECHAPEL
West of Music 2024

In attività da quasi trent’anni con tredici album all’attivo, gli svedesi West Of Eden di Goteborg hanno quasi sempre cantato in inglese, fedeli ad una matrice folk celtica. Nel 2021 hanno pubblicato in svedese Taube, interpretando brani del cantautore locale Evert Taube, molto conosciuto in Svezia; l’anno dopo sono tornati all’inglese con Next Stop Christmas, secondo album natalizio del loro percorso dopo Another Celtic Christmas del 2016, seguito da lunghi tour nei paesi nordici, ripetuti ogni anno sotto le festività.
Punti di forza del gruppo sono la voce chiara e limpida della leader Jenny Shaub che suona anche il flauto e la fisarmonica e che ha una tonalità perfetta per il folk britannico che richiama Fairport Convention e Steeleye Span, coadiuvata dal fratello Martin Shaub alla voce, chitarra acustica, mandolino e tastiere; gli altri componenti sono Lars Broman al violino, Henning Serhede alla chitarra, lap steel e banjo, Martin Holmlund al basso e Ola Karlevo alla batteria, percussioni e bodhran.
Nei loro dischi hanno sempre curato le armonie vocali e il suono, nonché la grafica. Anche il nuovo album è un digipack in cd con un booklet che contiene i testi; inoltre ha la particolarità di essere un concept album in cui le canzoni hanno come soggetto le storie delle donne vittime di Jack lo squartatore, criminale che ha agito nell’Ottocento nel quartiere londinese di Whitechapel. Siamo quindi in pieno ambito di “murder ballads”, sviluppate con un’alternanza di suoni elettrici e acustici combinati con sapienza.
Tra i brani di un disco che scorre veloce senza momenti di stanca spiccano Whitechapel Blues che descrive il quartiere fungendo da introduzione, seguito dal folk-rock The Ten Bells (riferimento a un pub della zona associato a due vittime del killer) in cui Jenny canta e suona la fisarmonica, la notevole ballata Nothing profumata d’Irlanda e interpretata alla perfezione da Jenny, la robusta e trascinante Harry The Hawker cantata da Martin che richiama il suono dei migliori Waterboys con l’intervento del banjo di Ron Block (Union Station), la scorrevole Mudlarking, lo strumentale irish Dark Annie e la delicata We Will Never Be Afraid Again che chiude l’album con un testo di speranza per un futuro più sereno.

Paolo Baiotti

BOBBO BYRNES – Bobbo Byrnes

di Paolo Baiotti

3 giugno 2025

bobbo

BOBBO BYRNES
BOBBO BYRNES
Highway Five Records 2024

Abbiamo seguito con attenzione l’attività di questo artista negli ultimi anni, a partire da The Red Wheelbarrow, registrato a Nashville con l’aiuto di Ken Coomer (Uncle Tupelo, Wilco), proseguendo con il quarto album SeaGreenNumber5 più intimo e melodico e con October, inciso in solitudine durante un tour europeo nell’autunno del 2022 in due studi storici a Berlino (Hansa Studios) e Dublino (Windmill Lane Studios) con chitarra acustica, mandolino, e-bow e voce.
Con l’omonimo album dell’anno scorso Bobbo torna a una dimensione elettrica registrando con il suo trio The Fallen Stars, fondato quando si è trasferito da Boston nel sud della California, del quale fanno parte la moglie Tracy al basso e voce e il batterista Matt Froehlich, nei Wandering Sun Studios di Anaheim coadiuvato dal produttore David Nielsen. Questo è un disco rock nel cuore e nell’anima, ritmato e dinamico con chitarre taglienti e incisive che si esprimono maggiormente nell’opener Around Here, nella successiva I Cannot Say e nella graffiante Bad Decisions, pur non essendo trascurata la cura delle melodie nelle ballate Too Many Miles, Long Way Down e Chance dal sapore country, in cui Bobbo suona anche la pedal steel. Non mancano influenze pop nella scorrevole Never Learned To Fly, in Some Salvation cantata in coppia con la moglie e in Long Way Down, arrangiate con gusto e attenzione. I testi sono legati ad emozioni intime e personali, in particolare soffermandosi sul potere della musica come guarigione e redenzione.
L’unica cover è una deliziosa ripresa di Glad & Sorry di Ronnie Lane, incisa originariamente dai Faces su Ooh La La nel 1973, mentre la breve e sognante Not Lost chiude sobriamente un disco solido che conferma le qualità del suo autore.

Paolo Baiotti

TODD PARTRIDEGE – Desert Fox Blues

di Paolo Baiotti

23 maggio 2025

Todd-Partridge

TODD PARTRIDEGE
DESERT FOX BLUES
Autoprodotto 2024

Artista folk attualmente residente a Auburn nello Iowa e cresciuto in un ambiente rurale, Todd ha iniziato a suonare seriamente la chitarra a 18 anni. La famiglia si è spostata tra California, Oklahoma e Milwaukee, per tornare infine in Iowa. La sua prima band è stata The Black Light Syndrome, seguita da Salamagundi e da King Of The Tramps. Con questa formazione ha pubblicato 5 album in studio, il più recente Wild Water del 2018, che hanno ottenuto un discreto riscontro soprattutto nel Midwest. Negli ultimi anni si è dedicato principalmente all’attività solista dal vivo come “one man band”, alternando materiale del gruppo con cover e brani solisti che sono confluiti nell’album Autumn Never Knows del 2023. Più recentemente si è esibito con la nuova band The Whiskey Gospel. La sua musica è un mix di folk, blues e roots rock con qualche venatura country e gospel. Il padre suonava la tromba in un’orchestra ed era appassionato di jazz, ma lui si è formato sui dischi della madre, appassionata di rock. Dapprima si è dedicato all’hard rock, poi alla black music, tornano al blues e all’americana in tempi più recenti. È anche proprietario di uno studio di registrazione (Old School Studios) ad Auburn dove ha inciso i suoi dischi e ospitato artisti indipendenti.
Desert Fox Blues è un progetto che si distacca dal passato, trattandosi di un disco di blues inciso su un registratore a nastro d’epoca in due sessioni a Tucson in Arizona nello studio Dust And Stone, con Gabriel Sullivan alla produzione e l’uso della voce filtrata. Desert Fox Blues comprende dieci tracce autografe in cui Partridge è accompagnato da alcuni musicisti esperti scelti da Sullivan: Winston Watson (Bob Dylan, Alice Cooper, Giant Sand) alla batteria, Nick Agustine (Rainer and Das Combo) al basso e Tom Albanese di Chicago (Bo Ramsey, Willie Hayes Band) all’armonica. In seguito, è stato aggiunto Kent Burnside (nipote di R.L. Burnside) alla chitarra, registrato nello studio di Todd. Il disco mischia influenze desertiche, del Delta del Mississippi, Hill Country Blues, New Orleans e Chicago cercando un suono sporco e polveroso con poche sovraincisioni, per catturare lo spirito grezzo e irrequito del passato. Todd ha dichiarato: “Ci siamo trovati bene l’uno di fronte all’altro. Questo ha dato alla musica un’intimità, un’immediatezza. Abbiamo lasciato che fosse l’intuizione a prendere il sopravvento, non l’improvvisazione. I brani erano abbozzati, alcuni li abbiamo modificati, altri li abbiamo lasciati andare come venivano.”
Partendo con l’energica Depression guidata da un’espressiva armonica e finendo con il morbido country-blues After The Work Is Done in cui emerge la slide di Joe Novelli, Todd traccia un percorso che non ha punti deboli e mette in rilievo un “groove” trascinante come in Gotta Do e Interstellar Planetary. Se il rock-blues Keep On Keeping On è debitore dei Canned Heat, in Lost Your Shoe Blues spicca una chitarra abrasiva, mentre in Goin’ Home si nota un’armonica che si inserisce senza timori.

Paolo Baiotti

MICHAEL JOHNATHON – My Covers Volume One

di Paolo Baiotti

23 maggio 2025

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MICHAEL JOHNATHON
MY COVERS VOLUME ONE
PoetMan Records 2024

Artista eclettico ed estremamente prolifico, il newyorkese di nascita Michael Johnathon, che da tempo si è stabilito sulle colline alla base dei Monti Appalachi, dichiara di avere scritto più di 300 canzoni e di avere pubblicato 21 album. Ma non si limita a scrivere e cantare canzoni! Michael è drammaturgo, scrittore (è autore della serie Woodsongs di cinque libri e di una serie per bambini), compositore di opere teatrali, fondatore dell’associazione SongFarmers che si occupa di diritti degli artisti, animatore di un programma radiofonico per adulti (The Woodsongs Old-Time Radio Hour) e di uno per bambini (Woodsongs Kids). Dopo l’album Garden Of Silence del 2023, morbido e melodico, composto da dieci tracce originali e una cover di Pete Seeger, questa volta Johnathon ha scelto nove canzoni di artisti che ammira e che lo hanno influenzato, i suoi “compagni, nemici e amici” come li definisce nelle note di copertina. Trattandosi in parte di brani iconici, Michael ha scelto la strada rischiosa di arrangiarli in modo personale, come se li avesse scritti lui. Il tocco personale si sente e non guasta nella maggior parte dei casi, rendendo più interessante il disco rispetto a versioni copia/incolla.
Così il classico degli anni trenta Blue Moon è ripreso con una dolce chitarra acustica e tocchi di armonica di Ronn Crowder, Like a Rolling Stone è arricchita da archi e flauto mantenendone la linea melodica, Satisfaction assume una sorprendente veste elettroacustica (senza convincere), mentre Cats In The Cradle è caratterizzata da un’influenza folk britannica. Nel centro del disco vengono piazzate due canzoni di autori molto amati da Michael: If You Could Read My Mind di Gordon Lightfoot, essenziale nella sua veste acustica e Seeger Mashup, un rispettoso mix di Were Have All The Flowers Gone e Sailing Down My Golden River di Pete Seeger con il quale ha collaborato in passato, seguite da una Love Hurts ammorbidita rispetto alla famosa versione rock dei Nazareth. La ballata Make You Feel My Love di Dylan viene addolcita e sembra funzionare meglio di Like A Rolling Stone, mentre Vincent di Don McLean è vicina all’originale. Per terminare Michael inserisce una versione remixata del suo brano Legacy, un tributo agli artisti e ai dischi che lo hanno formato che comprende segmenti di canzoni altrui, title track di un album pubblicato nel 2020.

Paolo Baiotti

AL ROSE – Again The Beginner

di Paolo Baiotti

16 maggio 2025

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AL ROSE
AGAIN THE BEGINNER
Monkey Holding Peach 2022

Non è certo un novellino Al Rose, che con Again The Beginner ha pubblicato il suo ottavo progetto solista avendo alle spalle buone recensioni e una discreta programmazione sulle radio di Americana. Se dal vivo alterna concerti da solo ad altri con The Transcendos, la sua band, in studio provilegia la dimensione elettrica. Ha studiato il flauto durante il periodo scolastico, poi si è dedicato alla chitarra, ma avendo come principale interesse quello della composizione e del canto. Così durante il periodo del college ha suonato nei caffè da solista e come leader dei Buffalo Trout nell’area di Chicago; in seguito ha formato The Transcendos. Alla sua maturazione ha giovato la collaborazione con l’esperto ingegnere del suono e produttore Blaise Barton (Liz Phair, Magic Slim & The Teardrops, John Primer), proprietario dei JoyRide Studios a Chicago; ha esordito da solista con Information Overload nel ’94, seguito da Naked In A Trailer e da Pigeon’s Throat nel 2000, proseguendo con altri quattro dischi fino a Spin Spin Dizzy del 2017.
Dopo una lunga pausa Again The Beginner è stato inciso sempre a Chicago con Blaise Barton in cabina di regia insieme a The Transcendos, che comprendono il bassista Steven Hashimoto, il chitarrista Steve Doyle, il batterista Lance Helgeson e il chitarrista Maury Smith, insieme da più di dieci anni,.
Tredici brani scritti da Al confermano il suo gusto per la melodia in chiave rock-pop, con venature country e folk. L’apertura di Don’t Know Why ha un riff rock trascinante che ricorda The Who circondato da un basso mosso abilmente, ma la title track è più vicina al folk melodico, mentre la successiva Any Fool Will Tell You cerca di mixare queste due tendenze. La voce di Al non è un punto di forza: non che sia brutta o priva di melodia anzi, però è carente di profondità e di originalità. Quanto alle canzoni sono discrete con dei testi di un certo interesse sociale e politico. Qualche punto in più lo meritano l’energica Shooting Straight, Smile Of Sorrow avvolta dagli archi, la cavalcata trascinante di Said & Done, la jazzata Tokyo Gypsy e le ballate d’impronta country All Of This Is Yours e Dignity & Grace poste in chiusura dell’album.

Paolo Baiotti

SURRENDER HILL – River Of Tears

di Paolo Baiotti

16 maggio 2025

surrender

SURRENDER HILL
RIVER OF TEARS
Blue Betty 2024

Robin Dean Salmon (voce, chitarra, B3 e dobro) e Afton Seekins (voce e percussioni) sono la coppia che ha formato il duo Surrender Hill dopo una serie di esperienze soliste. Robin Dean è cresciuto in Sud Africa ed è tornato in Texas nel ‘77 quando la famiglia, in contrasto con la politica di apartheid del paese, si è trasferita acquistando un ranch. Quindi ha assorbito la tradizione country locale mischiata con il punk di fine anni Settanta. Dopo un’esperienza rock con la Sony è tornato alle radici country; successivamente ha conosciuto Afton cresciuta tra l’Alaska e l’Arizona, passata attraverso un’esperienza di successo come coreografa, con la quale si è sposato. I due hanno esordito nel 2015 con l’omonimo album seguito da altri cinque dischi, il più recente Just Another Honky Tonk del 2022 che ha riaffermato la passione per il country classico con influenze pop e rock. Le due voci si compensano: entrambe melodiche e morbide al punto giusto, con venature soul. A differenza del passato le canzoni sono state scritte individualmente e hanno riferimenti personali legati alla famiglia e alla perdita di persone care.
Registrato nel Blue Betty Studio della coppia situato nella città di Ellijay in Georgia dove vivono, con Jonathan Callicutt e Mike Waldron alla chitarra, la sezione ritmica che li affianca anche dal vivo formata da Matt Crouse alla batteria e Drew Lawson al basso, il prezioso aiuto di Mike Daly alla pedal steel e al dobro nonché di Eric Fritsch, Kris Crunk e Kevin Thomas che si sono alternati alle tastiere, River Of Tears non si distacca dal precedente se non per qualche dose di rock in più in tracce come Palomino di stampo roots texano, Pining Over You in cui la voce di Robin ricorda Joe Ely e Rent Is Due. Nel complesso vengono sempre privilegiati i tempi lenti di ballate country, tra le quali spiccano River Of Tears con un testo relativo al loro rapporto personale, Get Out Of Your Way, la delicata In Our Time, il sofferto mid-tempo Cry Baby, la riflessiva End Of The Line indurita da una chitarra incisiva e Great Divide.
River Of Tears scorre piacevolmente ma, come già notato ascoltando un paio di loro dischi, una sforbiciata a tre o quattro tracce che si assomigliano troppo avrebbe giovato alla compattezza dell’album.

Paolo Baiotti

SON OF THE VELVET RAT – Ghost Ranch

di Paolo Baiotti

12 maggio 2025

SonofVelvet

SON OF THE VELVET RAT
GHOST RANCH
Fluff & Gravy 2024

Son of The Velvet Rat è l’alias scelto per l’avventura solista della coppia formata da Georg Altziebler e dalla moglie Heike Binder. La loro avventura musicale inizia nel 2003 con l’Ep Spare Some Sugar, seguito dall’album By My Side. Dopo un altro paio di dischi ai quali hanno collaborato Ken Coomer (Wilco) e Lucinda Williams, hanno deciso di spostarsi da Graz al deserto del Mojave in California nel 2013, dove si sono uniti alla comunità musicale di Joshua Tree e hanno inciso l’ottavo album in studio Dorado, prodotto da Joe Henry, seguito da un live e da Solitary Company che abbiamo recensito nel 2021, un disco in cui si mischiavano la tradizione cantautorale europea con quella nordamericana e con influenze desertiche, tra folk noir, rock, garage e Americana. Una sorta di ponte tra Europa e America, guidato dalla voce sussurrata e insinuante di Georg, che a tratti incrocia Leonard Cohen e Howe Gelb dei Giant Sand.
Queste sensazioni sono confermate da Ghost Ranch, registrato nuovamente negli studi Red Barn di Morongo Valley in California con la produzione dell’ingegnere del suono e chitarrista Gar Robertson. Si ripetono gli arrangiamenti eleganti e minimali dei precedenti, i curati controcanti di Heike con una strumentazione essenziale e atmosfere di stampo cinematografico e desertico mischiate con melodie mitteleuropee. In più questa volta c’è l’accompagnamento di una band di lusso che comprende nella maggior parte dei brani Jay Bellerose (batteria), Jennifer Condos (basso) e Marc Ribot (chitarra), oltre alla collaborazione della cantautrice folk Jolie Holland (ex The Be Good Tanias) alla voce e violino e di Tony Patler all’Hammond B3.
Ghost Ranch è un disco per chi ama i tempi lenti o al massimo quelli medi e le atmosfere raffinate e rarefatte, espresse in ballate come la struggente e melodica Are The Angels Pretty? in cui non manca un fondo di asprezza o The Waterlily And The Dragonfly (già incisa in passato in veste acustica) tra spruzzate di armonica, strofe sussurrate e una ritmica essenziale, nell’iniziale Bewildering Black & White Moments Captured On Trail Cams, mid-tempo introdotto da un’armonica languida, con una batteria secca e un incrocio di atmosfere europee e immagini cinematografiche, in Beautiful Day venata di psichedelia nel finale chitarristico dissonante, nell’avvolgente melodia di Southbound Plane o nel folk desertico di Rosary con il violino inquietante della Holland e la chitarra western di Ribot. Non mancano un paio di tracce ancora più intime registrate in solitudine da Georg e Heike in un disco affascinante ammantato di mistero, che si apprezza concedendogli la giusta attenzione.

Paolo Baiotti

LITTLE FEAT – Sam’s Place

di Paolo Baiotti

17 aprile 2025

sams

LITTLE FEAT
SAM’S PLACE
Hot Tomato 2024

I Little Feat hanno avuto due vite: la prima negli anni settanta fino allo scioglimento del ’79 che ha preceduto di poco la morte del leader Lowell George il 29 giugno, la seconda a partire dal 1987 quando Paul Barrere, Sam Clayton, Kenny Gradney, Richie Hayward e Bill Payne hanno deciso di riformare la band aggiungendo il cantante e chitarrista Craig Fuller e prosegue ancora oggi dopo qualche rimescolamento. Della line-up storica sono rimasti Clayton (voce, percussioni), Payne (tastiere e voce) e Gradney (basso e voce), affiancati da Fred Tackett (chitarra, mandolino e voce dall’87), Scott Sharrard (già con Gregg Allman, chitarra dal 2019) e Tony Leone (già con Chris Robinson, Phil Lesh e Levon Helm, batteria dal 2020).
Se è indubbio che la band californiana sarà ricordata soprattutto per la creatività del primo periodo con dischi come Dixie Chicken, Feats Don’t Fail Me Now e il monumentale doppio live Waiting For Columbus, anche nel secondo periodo ci sono stati dischi di buon livello come Let It Roll e Join The Band, ma il gruppo si è soprattutto dedicato ai tour suonando con continuità e pubblicando parecchi album dal vivo sull’etichetta di famiglia Hot Tomato nata nel 2002.
L’inserimento di Sharrard e Leone ha ridato nuova linfa alla formazione, che è tornata in studio a Memphis dopo 12 anni per incidere il primo disco interamente dedicato al blues con la particolarità di avere come vocalist principale Sam Clayton (da qui il titolo) dotato di una voce profonda, sporca e bluesata. Il risultato è decisamente positivo in quanto Sam’s Place è un disco spumeggiante, rilassato e suonato con gran classe, senza volere dimostrare chissà cosa, manifestando serietà e conoscenza della materia (non ne dubitavamo).
L’unica composizione autografa apre il disco: Milkman, scritta da Clayton, Tackett e Sharrard e dedicata al nipote del percussionista di professione lattaio è un mid-tempo scandito dai fiati di Marc Franklin e Art Edmaiston, con inserimenti del piano e delle due chitarre che si lasciano andare nel finale. Si prosegue con una trascinante You’ll Be Mine (Willie Dixon) e con una pregevole Long Distance Call del maestro Waters in cui si distinguono la slide di Scott e la voce languida di Bonnie Raitt che duetta con Clayton. L’up-tempo Don’t Go Further, il classico Can’t Be Satisfied in cui Sam gigioneggia alla voce mentre Scott infila un calibrato assolo di slide e lo slow Last Night di Walter Jacobs (Little Walter) in cui si aggiunge l’armonica di Michael LoBue caratterizzano la parte centrale del disco, prima di una virata verso New Orleans con Why People Like That di Bobby Charles irrorata dai fiati e dall’armonica. Si torna a Willie Dixon con una fluida e contagiosa Mellow Down Easy in cui scorrazzano le chitarre, per chiudere in modo un po’ prevedibile con Got My Mojo Working registrata dal vivo. Giudicato positivamente da critica e appassionati, il disco ha ottenuto la candidatura a un Grammy nella categoria “Best Traditional Blues Album”.
Tra pochi giorni i Little Feat dovrebbero pubblicare un nuovo album in studio, Strike Up The Band, il primo di materiale inedito dopo 13 anni! Il 5 maggio partiranno dal Vermont per un lungo tour che, con qualche pausa, terminerà in New Jersey a fine ottobre.

Paolo Baiotti

STEFANO DYLAN – The Rare Auld Times

di Paolo Baiotti

24 marzo 2025

stefano

STEFANO DYLAN
THE RARE AULD TIMES
EGN Label 2024

Torinese di nascita, ma irlandese d’adozione essendosi trasferito da parecchi anni nella zona di Limerick per motivi di lavoro e di famiglia, Stefano Dylan prosegue con sicurezza il suo percorso di cantautore in bilico tra folk e tradizione di matrice britannica. La musica è importante nella verde Irlanda, c’è ancora spazio per i musicisti folk e rock. Stefano è stato accolto con calore nella comunità musicale locale dove è possibile suonare nei pub o ristoranti anche se non si eseguono solo cover; questo gli ha consentito di crescere progressivamente, diventando un interprete sensibile come cantante e affinandosi come strumentista, specialmente con la chitarra acustica.
Dopo Ouroboros e Ballads From Home, pubblicato nel 2022, è il momento di The Rare Auld Times che, a differenza del precedente, alterna brani autografi a cover e brani tradizionali prevalentemente acustici. I riferimenti sono sempre gli stessi, cantautori storici e tradizionali di matrice anglosassone, con poche eccezioni.
Partendo dai brani autografi, spiccano There Ain’t No Heroes suonata con gli abituali collaboratori Alan Hogan al basso e Warren McStay alla batteria e al synth, scritta in memoria del fotografo irlandese Pierre Zakrzewski morto durante la guerra in Ucraina, con intrecci di chitarra acustica ed elettrica, la ballata folk Burst Of Love e l’assorta The Calmness Of Silence.
Venendo ai brani tradizionali segnalo la delicata Fair Flowers In The Valley in cui emergono la seconda voce di Karla Segade e il violino di River McGann, The Rare Auld Times scritta nel ’70 da Pete St. John per i Dublin City Ramblers e ripresa anche dai Dubliners in cui viene ricordata con nostalgia la Dublino del passato e The Fields Of Athenry dello stesso autore, un brano sulla tragica carestia irlandese dell’Ottocento diventato un anthem anche in campo sportivo in cui si apprezza il fingerpicking del musicista.
Bruce Cockburn è da sempre un riferimento per Stefano che riprende la dolente The Whole Night Sky da The Charity Of Night dell’86 intrecciando chitarra acustica ed elettrica, così come Allan Taylor del quale viene interpretata l’accorata ballata Come Home Safely To Me. Meritano una citazione anche lo scorrevole contry-folk Tumbleweed (Peter Rowan) e Blues Run The Game di Jackson C. Frank, già interpretata, tra gli altri, da artisti del calibro di Sandy Denny, Nick Drake, Mark Lanegan e Laura Marling.

Paolo Baiotti

THE DICTATORS – The Dictators

di Paolo Baiotti

25 febbraio 2025

dictators

THE DICTATORS
THE DICTATORS
Deko 2024

Storica band della scena underground di New York, considerati anticipatori del punk (o proto-punk come Stooges, MC5 e New York Dolls per citarne altri), si sono formati nel ’72 per iniziativa di Andy Shernoff (voce e basso) e Ross “The Boss” Friedman (chitarra solista), ai quali si è unito Scott “Top Ten” Kempner (chitarra ritmica). Questo trio è sempre stato l’anima della band, completata da Stu Boy King alla batteria poi sostituito da Richie Teeter. Nel ’75 si è aggiunto l’ex roadie Handsome Dick Manitoba alla voce, considerato “the secret weapon”, un personaggio della scena musicale della grande mela. Tre album incisi negli anni Settanta di livello notevole, prodotti da Sandy Pearlman e Murray Krugman (il team dei Blue Oyster Cult) sono stati promossi pigramente e ignorati o quasi dal pubblico, ma hanno avuto una notevole influenza su parecchi musicisti. La band si è sciolta alla fine degli anni Settanta riformandosi saltuariamente in alcune occasioni. Nel 2001 esce il quarto album D.F.F.D. seguito nel 2005 dal live Viva Dictators! con J.P. Patterson alla batteria in aggiunta a Manitoba e ai tre fondatori. Dissidi tra il cantante e Shernoff hanno portato a una separazione e alla nascita di The Dictators NYC con Manitoba, Ross e Patterson, un’esperienza durata tre anni con parecchie pause. Infine, nel 2020 Shernoff ha annunciato il ritorno della band con Kempner, Ross The Boss e Albert Bouchard, ex Blue Oyster Cult, alla batteria e voce. Questa formazione ha iniziato a preparare un disco, ma nell’aprile del 2021 Scott ha dovuto lasciare per gravi motivi di salute (purtroppo è mancato nel 2023). Con l’inserimento di Keith Roth (David Johansen, Earl Slick, Cherrie Currie) alla voce e chitarra ritmica si è quindi ripreso il lavoro che ha visto la pubblicazione qualche mese fa del nuovo album The Dictators.
Con Shernoff principale compositore e Roth voce solista in sette brani su dieci (Andy canta due brani, Albert uno), il quartetto sembra rivitalizzato, carico e pieno di energia. Nessun brano sopra i 4’, nessuna ballata, un disco sparato che scorre veloce nei suoi 32’ senza annoiare, confermando la caratura della formazione. L’ironica Let’s Get The Band Back Together è la traccia dalla quale è partita dal reunion, scritta e incisa in demo da Andy e registrata nel 2020 da Shernoff (voce solista), Ross, Scott e Albert, un rock pieno di adrenalina come la trascinante God Damn New York, l’altra canzone registrata da questo quartetto prima del ritiro di Kempner. La cover di Trasmaniacon MC dei Blue Oyster Cult è più dura dell’originale e regge adeguatamente il confronto, mentre tra le altre tracce si distinguono la robusta Secret Cow in cui Roth dimostra le sue doti vocali che richiamano le realtà underground della città, ribadite nella cadenzata All About You, nella dinamica Thank You And Have A Nice Day che dal vivo sarà sicuramente un’occasione di coinvolgere il pubblico e nella chiusura di Sweet Joey, dedicata all’amico Joey Ramone, presenza fissa ai concerti dei Dictators al club Coventry del Queens, come ha ricordato Andy.
Mick Jagger continua a cantare “It’s only rock and roll, but I like it”; i Dictators lo ribadiscono e noi siamo d’accordo con loro.

Paolo Baiotti

MICHAEL SCHENKER – My Years With UFO

di Paolo Baiotti

22 febbraio 2025

michaelschenkermyyearsbetter

MICHAEL SCHENKER
MY YEARS WITH UFO
Edel/Ear Music 2024

È indiscutibile che il periodo trascorso dal chitarrista tedesco Michael Schenker con gli UFO durante gli anni ’70 sia stato uno dei più celebrati almeno in ambito hard rock. Michael aveva solo 18 anni quando nel ’73 fu assunto dalla band britannica che lo aveva ascoltato come chitarrista degli Scorpions dove militava dall’età di 15 anni (!) con il fratello maggiore Rudolf. Un talento esploso in giovane età che non conosceva l’inglese e che ha avuto sempre difficoltà a inserirsi “socialmente” con i colleghi della nuova band, ma che ha dato un contributo indispensabile agli anni migliori degli UFO in cui sono stati registrati dischi in studio come Phenomenon, Force It, No Heavy Petting, Lights Out e Obsession, nonché il seminale doppio live Strangers In The Night, pubblicato quando il lunatico chitarrista aveva già lasciato la band per dedicarsi a una carriera solista che, iniziata bene, è stata caratterizzata da alti e bassi dovuti al carattere e ai limiti del musicista sempre alla ricerca del cantante ideale. Michael torna con gli Ufo nel ’95, registra altri tre album in studio con loro, poi se ne va definitivamente.
Questo nuovo album con il quale intende celebrare i 50 anni della sua collaborazione con la band britannica riprendendo i principali brani del periodo con un bel gruppo di ospiti, può sembrare la classica nostalgica raschiatura del barile ed in effetti lo è. Ma non si può negare che il barile sia bello lucido e luminoso, anche se le nuove registrazioni non possono aggiungere nulla di essenziale a quanto già fatto negli anni giovanili e più creativi, con un cantante di gran classe come Phil Mogg. Se non altro Schenker si circonda di colleghi di alto livello, soprattutto di cantanti che rendono il giusto merito a un repertorio indiscutibilmente valido. Mi sarei aspettato un po’ di fantasia in più negli arrangiamenti che ricalcano sostanzialmente gli originali con qualche variazione nelle parti strumentali. La band di appoggio è formata dagli esperti Derek Sherinian alle tastiere (Dream Theater poi solista), Brian Tichy alla batteria (Pride & Glory, Whitesnake, Billy Idol, Dead Deasies) e Barry Sparks al basso (MSG, Dokken), ai quali si aggiungono gli ospiti. La produzione è curata dallo stesso chitarrista con Michael Voss che ha supervisionato le registrazioni.
Tra gli 11 brani scelti per l’occasione spiccano Natural Thing, che sembra scritta per Dee Snider (Twisted Sister), in cui Michael duetta con Joel Hoekstra (Whitesnake, Cher), una scorrevole Only You Can Rock Me con Roger Glover al basso e Joey Tempest (Europe) alla voce, il classico Doctor Doctor affidato alla voce di Joe Lynn Turner (Deep Purple, Rainbow) e alla potente batteria di Carmine Appice (Vanilla Fudge, Rod Stewart), una sontuosa Mother Mary con la potente voce di Erik Gronwall (Heat, Skid Row) e un intenso dialogo con la chitarra di Slash, This Kids affidata all’esperto Byff Byford (Saxon) con le tastiere di Sherinian in primo piano, la maestosa ballata Love To Love che vede impegnato l’inconfondibile Axl Rose dopo l’intro in crescendo di tastiere e chitarra e l’energica Lights Out assegnata al ruvido Jeff Scott Soto (Malmsteen, Axel Rudi Pell) con John Norum (Europe) alla seconda chitarra. Una citazione a parte la merita l’immancabile Rock Bottom, un vero tour de force per Michael impegnato in una cavalcata chitarristica nel break centrale dove ha sempre dato il meglio, sin dall’insuperabile versione di Strangers In The Night, mentre alla voce si disimpegna con qualche difficoltà il connazionale Kai Hansen (Helloween).
Probabilmente My Years With Ufo è un’aggiunta superflua alla corposa discografia del chitarrista di Sarstedt, se non per gli appassionati più fedeli, ma può servire anche come primo approccio per chi non sia familiare con gli UFO dei seventies.

Paolo Baiotti

AA.VV. – PETTY COUNTRY – A Country Music Celebration of Tom Petty

di Paolo Baiotti

14 febbraio 2025

petty

AUTORI VARI
PETTY COUNTRY – A COUNTRY MUSIC CELEBRATION OF TOM PETTY
Big Machine 2024

Sulla carta l’idea di un tributo di musicisti country alla musica di Tom Petty sembrava una buona idea. In fondo sullo sfondo del rock del musicista di Gainsville c’è sempre stata un’influenza country, specialmente se guardiamo agli anni della maturità, sia da solista che con i Mudcrutch, per non parlare della memorabile collaborazione con Johnny Cash negli American Recordings. Se aggiungiamo che il disco è stato autorizzato e supportato dalla famiglia e dagli Heartbreakers (Tench e Campbell hanno collaborato), nonché prodotto da George Drakoulias e Randall Poster che hanno lavorato con Petty, le premesse erano ottime. Ma il problema di questi tributi, specialmente se pubblicati da etichette di una certa dimensione, è la scelta degli artisti che si orienta, almeno in parte, su nomi conosciuti e seguiti da un pubblico generalista.
Così abbiamo interpretazioni che non aggiungono nulla a brani come Wildflowers (Thomas Rhett), Running Down A Dream (Luke Combs), American Girl (Dierks Bentley), You Wreck Me (George Strait), Free Fallin’ (The Cadillac Three) o Learning To Fly (Ely Young Band), anzi annullano quella sensazione di leggerezza e fragilità che è una delle caratteristiche di Tom Petty e delle sue splendide canzoni.
Tra le 20 esecuzioni non mancano momenti riusciti come l’energica I Should Have Known It di Chris Stapleton, la sommessa I Forgive It All di Jamey Johnson, una spedita Refugee di Wynonna Judd con Lainey Wilson, Angel Dream (No. 2) dell’impeccabile Willie Nelson con il figlio Lukas e Ways To Be Wicked, che Tom affidò ai Lone Justice, in cui Margo Price è affiancata da Mike Campbell. Anche i Midland con una potente e chitarristica Mary Jane’s Last Dance, Steve Earle con Yer So Bad e Marty Stuart con I Need To Know fanno la loro figura, mentre l’interpretazione più coraggiosa è sicuramente Don’t Come Around Here No More di Rhiannon Giddens affiancata dalla Silkroad Ensemble e da Benmont Tench.
In conclusione, Petty Country, pubblicato in cd e in doppio vinile anche colorato, è un disco alterno per i motivi sopra indicati e lascia l’impressione di un’occasione sfruttata solo in parte di interpretare non solo la musica, ma anche lo spirito di Tom e dei suoi Heartbreakers.

Paolo Baiotti

KEVIN KASTNING – Partitas, Book 1/Triple Helix (with Carl Clements & Soheil Peyghambari)

di Paolo Crazy Carnevale

13 febbraio 2025

Partitas, Book 1  - album cover

Kevin Kastning & Carl Clements – Partitas, Book 1 (Greydisc 2024)

Kevin Kastning, Carl Clements, Soheil Peyghambari – Triple Helix (Greydisc 2024)

Prolifico come pochi, Kevin Kastning è un chitarrista rispettato nel circuito jazz/fusion, laddove la fusione avviene con ogni genere di musica, ma in particolare con attenzione agli stilemi della musica classica, da camera in particolare visto che Kastning, diplomato alla Berklee School of Music e allievo di Pat Metheny, concentra la sua produzione – che ormai ha superato i cinquanta album – in progetti come solista come sparring partner in formazioni a due o tre elementi.
In questo caso, a condividere il disco con lui c’è Carl Clements, sassofonista, flautista e compositore del Massachusetts dalla multiforme carriera.
Non è la prima volta che i due s’incontrano in studio, si tratta del settimo disco insieme visto che la collaborazione è cominciata nel 2012 avevano prodotto il disco Dreaming As I Knew. Accolto con recensioni positive: “Insieme, – DPRP Magazine – scriveva la rivista olandese Kevin e Carl creano dolci escursioni di bellezza intrecciata che, come indicato in precedenza, pur avendo una qualità profondamente onirica in linea con il titolo dell’album, sono anche molto intricate nella costruzione.”
Senza contare i dischi in trio in cui i due collaborano col chitarrista magiaro Sandor Szabo.
Il nuovo disco mette sul piatto una serie di sette composizioni, tutte indicate col nome Partita, intesa come partitura, proprio come nella musica classica, con conseguente numerazione a seconda degli strumenti usati.
Kestning fa uso delle sue chitarre a più corde imbracciate verticalmente, talvolta di sua invenzione e con addirittura due manici, siano esse diciassette, diciotto, ventiquattro o addirittura trenta, con conseguenti effetti sonori; Clements vi ricama sopra con i suoi sax, soprano, tenore e contralto.
A pochi mesi di distanza è stato pubblicato, sempre da Greydisc un nuovo tassello delle visioni musicali di Kastning e Clements, stavolta in versione trio con l’aggiunta di Soheil Peyghambari, sassofonista e clarinettista iraniano, componente del Quartet Diminished, di cui ci siamo occupati recentemente.
L’inserimento di un altro artista e di un altro strumento ammorbidiscono il suono finale del connubio, Clements e Peyghambari scaldano l’atmosfera e l’ultimo tinteggia di oriente il tutto con atmosfere da mille e una notte.

Paolo Crazy Carnevale

Triple Helix - album cover

CHARLIE OVERBEY – In Good Company

di Paolo Baiotti

22 gennaio 2025

CHARLIE

CHARLIE OVERBEY
IN GOOD COMPANY
Autoprodotto 2024

Le buone compagnie servono sempre, specialmente se sei un musicista ed hai avuto la fortuna e la bravura di supportare artisti più conosciuti che ti hanno preso in simpatia. Charlie Overbey, californiano di Los Angeles da tempo residente in New Mexico, è legato alla tradizione musicale del sud trasmessa dai genitori appassionati di country più o meno classico. Come succede a molti adolescenti, ha rifiutato queste influenze appassionandosi al punk; poi è gradatamente tornato alle radici nel corso della sua carriera iniziata con la band cowpunk Custom Made Scare che ha firmato alla fine degli anni Novanta per la Side One Dummy, sciogliendosi prima di registrare un disco. Dopo esperienze di vario genere (compreso un anno in carcere) ha pubblicato l’Ep The California Kid nel 2015 e l’album Broken Arrow nel 2018, supportando artisti di diverso genere, tra i quali Blackberry Smoke, ZZ Top, Foo Fighters, Motorhead e David Allan Coe. Artista a 360° ha creato anche una linea di cappelli fatti a mano (Lone Hawk Hats) molto in voga tra i musicisti, a prezzi non alla portata di tutti che è la sua principale fonte di guadagno.
In Good Company è il terzo album da solista che, fedele al titolo, lo vede in compagnia di ospiti prestigiosi che lo affiancano senza peraltro togliergli la centralità nel progetto al quale apporta chitarra acustica, batteria e una voce solida che nei brani più vicini al country ricorda Waylon Jennings. Gli altri musicisti della band coinvolti nelle registrazioni sono Corey McCormick al basso e Kyle Tormey al piano. Il disco presenta una scaletta di dieci brani autografi scritti in periodi diversi e ha un tiro più vicino al roots-rock che al country, con un suono vigoroso.
Nell’opener Punk Rock Spy, un rock and roll stonesiano che si avvale di un’armonica abrasiva e della chitarra di Stuart Mathis, l’artista si descrive “The punk rock spy in the house of the honky tonk heaven” e dichiara “I got a punk rock heart but the punk and the honky go together”, una descrizione del suo modo di essere. Champagne, Cocaine, Cadillacs & Cash è un country-rock in cui collaborano Marcus King (tastiere e chitarra) e Jaimee Wyatt alla voce. Il mid-tempo rock Struck In This Town ricorda il New Jersey sound con una voce alla Southside Johnny e la chitarra di Chris Masterson (Son Volt, Steve Earle), mentre The Innocence evoca influenze springsteeniane non solo per la presenza di Nils Lofren (voce e chitarra), al quale si aggiunge Rami Jaffee (Wallflowers, Foo Fighters) alle tastiere. Non mancano un paio di ballate come Dear Captain venata di gospel con la slide di Johnny Stachella e il country Miss Me in cui spicca la pedal steel di Jon Graboff. Tra gli altri brani segnalerei l’accattivante roots-rock If We Ever Get Out con Charlie Starr (Blackberry Smoke) e l’intensa Life Of Rock & Roll, secondo singolo d’impronta southern con la chitarra di Duane Betts e la voce ai cori di Eddie Spaghetti, mentre la chiusura è affidata alla breve Two Minute Marvin, la traccia più country del disco.

Paolo Baiotti

LUCA & THE TAUTOLOGISTS – Poetry In The Mean-Time/Suddenly Last Summer

di Paolo Baiotti

19 gennaio 2025

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Non teme di esagerare Luca Andrea Crippa, cantautore e chitarrista lombardo che a un anno o poco più di distanza da Paris Airport ’77 (ne abbiamo scritto qui http://www.lateforthesky.org/2023/11/ ) si ripropone con un album e un ep pubblicati a breve distanza l’uno dall’altro, frutto di un periodo di evidente ispirazione in direzioni diverse. Infatti, i due dischi rappresentano aspetti distinti della scrittura di Luca: l’ep registrato a luglio al Niton Lab Studio di Varese privilegia tracce oscure, notturne e sognanti, canzoni d’amore curate nella produzione con qualche elemento di elettronica, mentre l’album inciso ad agosto al Trai Studio di Inzago è fresco, poetico e diretto con qualche oasi acustica e un suono roots. In entrambi i dischi, che si distaccano come già Paris Airport ’77 dal rock-blues di precedenti registrazioni dell’artista con Ruben Minuto, dal southern-rock dei Saturday Night Special e dall’alternative country dei No Rolling Back, Luca (voce, chitarre e lap steel) è accompagnato dalla brillante sezione ritmica di Deneb Bucella (batteria) e Paolo Roscio (basso).
Partendo da Poetry In The Mean-Time, la copertina (un pregevole disegno di Stefano Bonora) e l’album sono ispirati da una foto vintage di un incidente accaduto durante le riprese del film horror di culto “The Creature Of The Black Lagoon” con Julie Adams al quale è direttamente collegata la canzone Julie Hit Her Head, caratterizzata da un’intro strumentale funkeggiante, una voce sussurrata, un lavoro notevole di basso e batteria e numerosi cambi di ritmo. Tra gli altri brani emergono l’apertura melodica di Tall Building Shapes, l’accattivante Breakwaters Ballroom con una chitarra knopfleriana, My Friend’s Old Blues Still Rocks tra JJ Cale e Steely Dan, il nervoso strumentale Modern Galleries spruzzato di jazz-rock e la raffinata Our Magic Wand. La voce di Luca a tratti sembra mancare di un pizzico di energia, a differenza delle parti strumentali.

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Quanto a Suddently Last Summer, quattro brani nella versione digitale, sei in quella fisica su cd, apre la notturna e sommessa At The Movies che sfocia in un riuscito assolo di chitarra, seguita dalla lenta Mystery…The Greatest, traccia sognante spruzzata di elettronica. Tra prog e fusion si prosegue con Different Paths e Night Green, per giungere all’orientaleggiante Indian Summer che precede la chiusura mossa di They’re Landin’ In Hawaii, venata di prog nel fulgido finale chitarristico.

Paolo Baiotti