Archivio articoli per la categoria ‘Rock'n'Pop’

JIM STANARD – Magical

di Paolo Baiotti

8 dicembre 2025

cd_magical

JIM STANARD
MAGICAL
Manatee Records 2025

Jim Stanard ha una storia particolare: ha iniziato a suonare negli anni Sessanta, proseguendo nei primi anni Settanta da solo nelle caffetterie dei college, senza incidere nulla. Poi ha smesso di esibirsi pur mantenendo la passione per la musica, limitandosi all’ascolto mentre, d’altra parte, si impegnava in una carriera di successo nel mondo della finanza. Solo nel 2018 ha inciso il suo esordio da solista Bucket List, aiutato e spronato da Kip Winger, ex bassista di Alice Cooper e dei Winger, ora solista e produttore, supportato anche da Peter Yarrow, nome di notevole prestigio in ambito folk essendo uno dei fondatori del trio Peter, Paul & Mary. Quindi si è creato una seconda vita che è proseguita con Color Outside The Line del 2020 e con l’Ep digitale The Soultrain Sessions con cinque covers. Dopo una pausa coincidente con la pandemia è il momento di Magical, in cui si avvale nuovamente della collaborazione di Kip Winger alla produzione e al basso, della chitarra dell’esperto Jon Skibic (The Afghan Whigs), della batteria di Aaron Sterling, del violino, dobro e mandolino di Wanda Vick. Il disco comprende dieci tracce autografe che si muovono in ambito cantautorale con influenze rock e country. Gli arrangiamenti sono puliti come la voce di Jim che però, rispetto al passato, in un paio di brani sporca un pochino il suono dando un pizzico di mordente che mancava.
A proposito della sua tardiva carriera Jim ha dichiarato: “nel mondo degli affari ho imparato il valore di avere i giusti insegnanti, i giusti mentori. Così, quando ho iniziato a scrivere canzoni, ho cercato le persone giuste per farmi guidare e ho ascoltato quello che avevano da dire, pur essendo disposto a correre qualche rischio”.
La qualità delle composizioni è discreta, nulla di clamoroso come la voce, solida e rilassata, che si dimostra particolarmente adatta a brani country-folk come The Minotaur, alla ballata Hard To Keep in cui ricorda Johnny Cash, al western swing di You Turned Red arrangiata in modo corale e alla dolente ballata country Kansas, storia di un rapinatore di banche. C’è anche un brano avvolto dagli archi, Waking Up Dead, un esperimento che sembra un po’ fuori contesto. In chiusura spicca la malinconica ballata When The West Was Won in cui Jim descrive la sofferenza delle persone sfollate senza un posto in cui scappare quando l’ovest fu conquistato, affiancando al testo le giuste venature country & western.

Paolo Baiotti

MARK SEBASTIAN – A Trick Of The Light

di Paolo Baiotti

8 dicembre 2025

Mark-Sebastian

MARK SEBASTIAN
A TRICK OF THE LIGHT
Blck Sheep 2025

Cresciuto nel Greenwich Village circondato da un mix di influenze musicali dal blues al bluegrass, dalla bossa nova ai ritmi latini, da adolescente Mark ha scritto insieme al fratello maggiore John una canzone sulla vita cittadina in agosto, Summer In The City, diventata una hit dei Lovin’ Spoonful, la band in cui militava il fratello e premiata anni fa da Billboard come la migliore canzone estiva di tutti i tempi. Dopo questo successo Mark ha proseguito in ambito musicale sia con alcune band sia da solista, aprendo per Dave Van Ronk, Tim Hardin e altri grandi del folk e del blues. In seguito, ha viaggiato in Inghilterra e Italia dedicandosi alla musica elettronica. Al rientro negli Stati Uniti si è spostato a ovest dove ha collaborato con Brian Wilson e Van Dyke Parks, registrando dei demos. Si è anche dedicato alla recitazione d’avanguardia, ma la sua principale attività è rimasta quella di compositore per la casa editrice degli Earth Wind & Fire; tuttavia, ha continuato a suonare nei locali aprendo per Parks, Beach Boys e Laura Nyro, tra gli altri.
In sostanza è rimasto dietro le quinte, acquisendo amicizie e collaborazioni importanti finchè nel 2001 ha esordito da solista con Bleeker Street, un amalgama di blues e suono californiano. Nel 2008 ha pubblicato The Real Story, infine dopo una lunga pausa è uscito A Trick Of The Light, registrato sulla costa occidentale con musicisti molto conosciuti tra i quali il batterista James Gadson (Herp Albert, Freddie King, Beck, Ray Charles), il bassista Bob Glaub (Dave Mason, Journey, Steve Miller Band, John Fogerty, Bob Dylan, Bruce Springsteen, Neil Diamond) e il chitarrista Wah Wah Watson (Funk Brothers), con Van Dyke Parks che ha arrangiato gli archi della title track, mentre i fiati sono stati affidati a Joe Sublett e Mark Pender. Sull’errebi jazzato You Made A Monkey Outta Me il piano è suonato da Bill Payne (Little Feat). Due brani sono stati prodotti da Mark con Joe Wissert (Boz Scaggs, Lovin’ Spoonful, Gordon Lightfoot). 
Riguardo alle nove canzoni dell’album, ci sono tutte le influenze del cantautore e chitarrista, dall’urban jazz al pop, dal rhythm and blues al folk-rock, interpretate con garbo e tonalità vocali soffuse, considerando che Mark non ha una grande estensione vocale. Roll With Me e Beneath The Sheets hanno un tocco sixties che ricorda i Lovin’ Spoonful, mentre Riverrun può richiamare le armonie vocali dei Beach Boys. Peccato che il funky-disco di Get Up And Move con synth e vocoder non sembri appropriato per chiudere un disco che si muove in altre direzioni.

Paolo Baiotti

RACHEL GOODRICH – Once Before

di Paolo Baiotti

27 novembre 2025

Untitled Artwork

RACHEL GOODRICH
ONCE BEFORE
Soul Selects 2025

Nativa di Miami ma da tempo residente a Los Angeles, acclamata polistrumentista, Rachel ha costruito una carriera ridefinendo i confini musicali con un approccio giocoso ed eclettico dopo la partenza indie-rock di Tinker Toys del 2008. Sono seguiti un paio di Ep e di album (notevole Baby, Now We’re Even del 2014), finchè si è fatta notare per il guitar-pop di Broken Record del 2023 pubblicato solo in vinile.
Il recente Once Before conferma le sue qualità vocali spostandosi un po’ a sorpresa in ambito jazzistico, anche se in passato la sua musica è stata definita un mix di indie pop, swing jazz e country folk. Nel nuvo disco ci sono otto canzoni per circa 20’, un mini-album sofisticato, ricercato, molto melodico e notturno in cui è accompagnata da Joe Russo alla batteria e Jon Shaw al basso, una sezione ritmica pulita e morbida al punto giusto, con il piano di Rose Droll che si inserisce con ammirevole puntualità. L’apertura è affidata al sentimentale singolo Why Do We Fall In Love? elegante e affascinante, con un pizzico di nostalgia per le atmosfere del jazz di altri tempi che si riaffacciano anche nelle altre tracce, come la swingata You Don’t Own Your Swing interpretata con grazia e vulnerabilità, in cui interviene la tromba di Joe Gullace, la mossa Art Deco Town e la ballata notturna The Moon, proseguendo con le stesse modalità fino alla raffinata e sofisticata chiusura di Dreamland.

Paolo Baiotti

JIM PATTON & SHERRY BROKUS – Two True Loves

di Paolo Baiotti

27 novembre 2025

true two

JIM PATTON & SHERRY BROKUS
TWO TRUE LOVES
Berkalin Records 2025

Il duo formato dai coniugi Jim Patton & Shelly Brokus è ospite fisso del nostro sito. Nel 2018 ci siamo occupati di The Hard Part Of Flying, il quarto disco inciso in compagnia di Ron Flynt, polistrumentista già con i 20/20 e The Bluehearts che ha prodotto e registrato nei suoi studi di Austin, nel gennaio 2020 della raccolta The Collection 2008-2018, nel 2022 di Going The Distance, qualche mese fa dei due album successivi, Big Red Gibson e Harbortowne. La loro collaborazione dura da più di 40 anni, dapprima con il gruppo folk/rock Edge City di Baltimora, poi dopo lo spostamento in Texas ad Austin con una serie di dischi in coppia, tra i quali quelli sopra citati.
In Big Red Gibson i due sono tornati ad un suono più rock, sempre elettroacustico, mentre Harbortowne ne ha rappresentato il lato più folk e cantautorale. In Two True Loves viene ricalcata l’atmosfera di Big Red Gibson, un rock leggero con venature country e folk in cui la voce solista di Patton è affiancata da Sherry ai cori. Flynt si occupa di basso, tastiere, chitarra acustica e produzione, l’amica Bettysoo dei cori, mentre la batteria è affidata a John Chipman e la chitarra solista a Jud Newcomb. Come spesso succede nei loro dischi il livello medio è discreto, ma non ci sono delle punte (e neppure delle cadute), anche perché la voce di Jim è piuttosto uniforme. Il titolo vuole significare che in alcuni momenti è necessario scegliere tra qualcosa che ami e la persona che ami. Ci sono anche altri temi che attraversano l’album: la solitudine e la paura della solitudine, così come le conseguenze che derivano dalla pura avidità. Two True Loves, concepito come un seguito di Big Red Gibson, è una combinazione di alcune vecchie canzoni degli anni ‘80 registrate in una nuova veste e di altre scritte più recentemente.
Tra i brani si fanno preferire la partenza energica di I Want It All (”I want a job that I care about/A club nearby where we can twist and shout/And a few good songs on the radio/And someone to hold me when I feel alone.”), True Two Loves profumata di anni sessanta con un suono byrdsiano, la mossa Leave Me Alone, il morbido country Why Did You Leave me For Him?, la ballata Local Yokels e She Doesn’t Want To See You Anymore scritta da Jim con Mookie Siegel (David Nelson Band, New Riders of Purple Sage).

Paolo Baiotti

SU ANDERSSON – Postcards

di Paolo Baiotti

27 novembre 2025

Cover-Postcards

SU ANDERSSON
POSTCARDS
Firma Su 2025

È un personaggio particolare Su Andersson: nata a Goteborg, ha esordito tardivamente dopo 35 anni da architetto di successo e amministratore delegato di una società. In età matura, avendone anche le possibilità, Su riscopre la passione per la musica soffocata per anni e si dedica a questa nuova avventura, confortata da una voce di un certo spessore, facendosi aiutare da un gruppo di validi collaboratori guidati dal produttore Henning Sernhede che la segue dall’inizio anche strumentamente suonando basso, chitarra e armonica. Se l’esordio Train Stories era basato sulle sensazioni derivanti da un viaggio in treno coast to coast negli Usa, con un’atmosfera tra folk, pop-rock e country, il successivo Brave è stato influenzato dalla pandemia che ha costretto all’isolamento facendo riflettere la Andersson su questa situazione e sulla necessità di interagire con le persone.
Il recente Postcards torna sul tema del viaggio, in quanto Su, come spiega nelle note di copertina, ha voluto mandare i suoi saluti con delle simboliche cartoline da dieci località visitate durante un viaggio affrontato da sola che, nell’autunno del 2021, l’ha portata in alcuni paesi europei tra Germania, Francia e Spagna, celebrando il ritorno della speranza e della comunicazione superato il periodo peggiore della pandemia. Ogni canzone intende catturare sensazioni e sentimenti provati in una delle città del viaggio. Oltre a Henning e alla Andersson (voce, armonica, piano elettrico e chitarre) hanno partecipato alle registrazioni Malin Almgren alle percussioni e Axel Olsson alle tastiere e ai cori. Al roots-rock grintoso di Voices From The Future seguono l’atmosfera mitteleuropea di Vertigo, l’intenso mid-tempo Transit in cui si nota il sax di Axel Cronè, la ballata pianistica Pink Shelter e l’intima Reunion con tocchi di armonica e piano. Nella seconda parte dell’album spiccano la bluesata Based On A True Story con una chitarra espressiva, il folk sognante di Sunset Unlimited, l’eterea e intensa allo stesso tempo Oh La La ambientata a Parigi e la chiusura elegante di Voices From The Past che ci riporta ad Amburgo dove è iniziato il viaggio.
Da segnalare la cura posta nella grafica del cd, confezionato in digipack rigido con i testi e un disegno per ogni canzone della disegnatrice spagnola Xema Fuertes.

Paolo Baiotti

MIKE FARRIS – The Sound Of Muscle Shoals

di Paolo Baiotti

20 novembre 2025

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MIKE FARRIS
THE SOUND OF MUSCLE SHOALS
FAME/MALACO 2025

La voce di Mike Farris è una delle migliori su piazza, che si tratti di esibirla tra hard rock e blues come negli Screamin’ Cheetah Wheelies, band nella quale ha militato nei turbolenti anni novanta, sia che si districhi abilmente tra soul, gospel e rhythm and blues come è avvenuto nella successiva carriera solista che ha avuto uno sviluppo molto positivo dopo che l’artista si è liberato dalla dipendenza di alcool e droga abbracciando la fede con la pubblicazione di Salvation In Lughts nel 2007, un disco eccellente tra rock, soul e gospel. Questo momento fondamentale è proseguito con la formazione della Roseland Rhythm Revue, l’uscita dell’esuberante live Shout! e del brioso e spumeggiante Shine For All The People (Compass 2014), rinascita dopo una ricaduta nelle dipendenze che gli ha fruttato un Grammy come miglior album gospel-roots. Successivamente il cantante di Winchester, Tennessee, ha pubblicato Silver & Stone nel 2018, un disco appena più raffinato, sempre imbevuto di soul tra brani autografi e riletture di classe. Superato lo tsunami della pandemia si è riunito con i vecchi compagni degli SCW per una serie di date americane; quindi, ha deciso di fare quello che per una voce come la sua era inevitabile, un pellegrinaggio ai Fame Studios di Muscle Shoals in Alabama dove ha collaborato con membri della leggendaria sezione ritmica degli studi e con altri session men di lusso tra i quali Clayton Ivey (tastiere), Will McFarlane, Kelvin Holly e Wes Sheffield (chitarra), Jimbo Hart (basso) e Justin Holder (batteria). Con loro ha registrato un disco che si può considerare la vetta della sua produzione solista, coadiuvato dall’attenta supervisione di Rodney Hall, figlio del produttore Rick Hall, mettendo in luce quella che una rivista ha definito “una voce sovradimensionata piena dell’elettricità del sabato sera e della grazia divina della domenica mattina”.
The Sound Of Muscle Shoals comprende undici brani senza un riempitivo: la partenza travolgente con l’errebi di Ease On in cui Mike racconta la sua giovinezza in Franklin County, doppiata da Heavy On The Humble che parte acustica e si sviluppa maestosa tra soul e rock (che bel suono hanno le chitarre in questo disco!), la notevole ripresa dello slow Swingin’ di Tom Petty (era su Echo) venato di gospel nei cori e lo swamp-rock di Bird In The Rain ne caratterizzano la prima parte. La seconda non è da meno con il gospel Slow Train dal repertorio degli Staple Singers, le venature country della scorrevole Bright Lights, l’intensa ballata soul Before There Was You & I che non può non ricordare Otis Redding, per finire degnamente con Sunset Road, un rhythm and blues in cui si apprezza ancora una volta l’apporto delle coriste.
The Sound Of Muscle Shoals è la celebrazione di una delle voci migliori dell’ultimo trentennio, sicuramente meno conosciuta e acclamata di quanto meriterebbe.

Paolo Baiotti

ANGELO DE NEGRI & ALDO PEDRON – Live Aid

di Raffaele Galli

11 novembre 2025

LIBRO LIVE AID- copertina

ANGELO DE NEGRI & ALDO PEDRON

Live Aid

Arcana, pp. 550 € 25

Chi non ricorda il Live Aid, il più grande spettacolo televisivo benefico mai realizzato? Senza essere dei particolari appassionati di musica la memoria corre subito a quell’evento, tenutosi ormai più di quarant’anni fa, il 13 luglio 1985, che ha coinvolto molte rock stars su due palchi diversi, al di qua e al di là dell’Atlantico, a Filadelfia da una parte e a Londra dall’altra, in una maratona televisiva di diciassette ore tenutasi per raccogliere fondi per combattere la fame in Africa, vista da oltre un miliardo e mezzo di spettatori in tutto il mondo. Ebbene è uscito oggi un libro totalmente dedicato all’avvenimento a cura di Angelo De Negri, cofondatore dell’associazione MusicArTeam nonchè autore di diversi libri di carattere musicale e Aldo Pedron, nostra vecchia e ormai abituale conoscenza che scrive di musica ormai a tutto campo. Si tratta di un’opera omnia che descrive l’evento nei suoi minimi dettagli, minuto per minuto, presentando la scaletta di tutti i brani eseguiti dagli artisti coinvolti, che dà anche un giudizio su ciascuna performance eseguita, senza risparmiare critiche, se del caso. Superfluo sarebbe elencare tutti i presenti perchè sottrarrebbe spazio alla descrizione del volume e del suo contenuto. È importante sottolineare che l’evento viene presentato nel contesto storico e musicale del tempo, una sorta di seguito dopo le esperienze dei grandi dischi solidali dell’epoca, da Do They Know It’s Christmas ? del Band Aid a We Are The World degli USA for Africa. Minuzioso il racconto dei retroscena relativi all’organizzazione, un lavoro immane che ha richiesto sforzi notevolissimi, della ‘tattica’ usata da Bob Geldof, il cantante e attivista irlandese deus ex machina dell’organizzazione, usata per convincere gli artisti a farsi coinvolgere. Interessante il saggio di Giovanni Fabbi sui cambiamenti culturali, politici ed economici che hanno riguardato Gran Bretagna e Stati Uniti, le nazioni ospitanti il Live Aid, che si sono sviluppati tra il 1980 e il 1985 che hanno contribuito a creare i presupposti per un avvenimento di portata epocale. E’ intrigante leggere come due colossi concorrenti dell’alimentazione quali Coca Cola e Pepsi Cola si siano prestati a dare il loro contributo all’iniziativa senza pestarsi i piedi e di come siano stati i figli a convincere Paul Mc Carthy ad essere della partita. Sono saliti sul palco i Led Zeppelin ? Sì, anche se non con il loro nome ma come Plant, Page e Jones, con Phil Collins ospite alla batteria, perchè dopo la morte di John Bonham i tre rimasti del gruppo avevano deciso di non usare più il loro nome divenuto leggendario. La loro apparizione non è stata delle migliori, ma quel che conta è che abbiano deciso di esserci per la causa e per la gioia dei loro moltissimo fans. Niente Stones ma sì Mick Jagger, accompagnato dalla Hall & Oates Band e dall’esuberante Tina Turner, mentre Bob Dylan ha avuto come ospiti alla chitarra sia Keith Richards che Ron Wood. Tanta gloria per gli U2 di Bono, autori di una travolgente e straordinaria prestazione che ha dato la svolta definitiva alla loro carriera artistica. Insieme ai Queen sono stati ritenuti trionfatori dell’evento. Un tomo che sarebbe un peccato non leggere perchè ha qualcosa da raccontare a ciascuno di noi.

Raffaele Galli

ALICE HOWE & FREEBO – Live

di Paolo Baiotti

11 novembre 2025

alice live 2

ALICE HOWE & FREEBO
LIVE
Know Howe 2025

Cresciuta in Massachusetts, Alice si appassiona alla musica folk, blues e rock ascoltando i dischi dei genitori. Si trasferisce a Seattle per il college, lavora in un negozio di dischi e suona nei club. Esordisce con un Ep seguito dall’album Visions inciso in California, confermando le influenze folk e blues. La collaborazione con Freebo (Daniel Freedberg), bassista e autore di Los Angeles del ‘44, inizia in questo periodo. Già con Bonnie Raitt negli anni Settanta, poi con Maria Muldaur, Jackson Browne, Ringo Starr e John Mayall, è un musicista esperto che ha anche pubblicato alcuni album da solista. Il secondo disco Circumstance viene inciso nei leggendari Fame Studios di Muscle Shoals in Alabama, denotando notevoli progressi sia nell’uso della voce soul profonda e matura, sia nella scrittura in parte solitaria in parte con Freebo, produttore fin dall’esordio. Ed ora Alice pubblica un album dal vivo registrato a Port Townsend nel giugno del 2024 in coppia con Freebo, con una formazione in trio che aggiunge il prezioso chitarrista Jeff Fielder (Mark Lanegan, Amy Ray) già presente in studio, creando un suono elettroacustico efficace e scorrevole che si adatta alla voce melodica della cantante e a quella più ruvida del bassista. Cinque tracce sono estratte da Circumstance, cinque da If Not Now When, l’album più recente di Freebo; l’iniziale ballata cantautorale Twilight proviene dall’esordio di Alice, gli altri tre brani sono cover.
Tra i brani della Howe, dotata di una voce veramente notevole, calda ed emozionante, spiccano la fluida Somebody’s New Lover Now, la morbida You’ve Been Away So Long e l’intima Something Calls To Me in cui si inserisce la slide con tocchi raffinati. Le tracce del bassista, tra le quali la ritmata Sometimes It’s For Nothin’ con un assolo brillante di Fielder e la ballata Standing Ovation, sono arricchite dai controcanti di Alice, oscillando tra influenze blues e cantautorali, ma colpiscono meno rispetto ai brani della Howe.
Quanto alle cover, i sapori sudisti di Sailing Shoes (Little Feat) sono accentuati dalla slide di Fielder, con la voce soul di Alice che accompagna quella di Freebo, una delicata A Case Of You denota l’influenza della sua autrice Joni Mitchell sulla ragazza, mentre la ballata Angel From Montgomery (John Prine) cantata a strofe alterne è la degna chiusura di una serata riuscita.

Paolo Baiotti

THE BURRITO BROTHERS – The Magic Time Machine Of Love

di Paolo Crazy Carnevale

17 ottobre 2025

Cover

THE BURRITO BROTHERS – The Magic Time Machine Of Love (2025)

La perseveranza con cui Chris P. James sta continuando a far musica sfruttando la fama di un gruppo con cui non c’entra nulla e il cui nome dovrebbe essere stato riposto in naftalina a fine anni settanta, sta rasentando l’indecenza. I Flying Burrito Brothers non andrebbero toccati per rispetto. Certo il Flying non c’è più nella denominazione, e ci mancherebbe, qui infatti non vola proprio nessuno, e considerato il fatto che l’unico membro fondatore ancora in vita, Chris Hillman, non vuole saperne, la sua volontà andrebbe rispettata.

Ma Chris James continua a marciarci. Ed è un peccato, perché è un buon musicista, e l’ostinazione con cui continua ad accampare diritti su un nome che suo non è mai stato rimane un mistero. Soprattutto considerando il fatto che i FBB successo non ne hanno mai avuto troppo e quindi seguitare a rispolverarne le gesta e le poche glorie, non porta certo tante più vendite di quelle legate a quei nostalgici irriducibili come i galli di Asterix, che gridano al miracolo e si entusiasmano ogni volta che il nome del gruppo viene rispolverato anche se in maniera tronca.

Questo è il quinto disco di studio che James registra sotto questa sigla, ma ci sono quelli usciti come Burrito Deluxe (che sono ben peggio di quelli dei Burrito Brothers)! Ed è un peccato ulteriore perché il secondo del lotto, Notorious Burrito Brothers che avevamo recensito con entusiasmo su queste colonne, meritava decisamente.

Ma in questo nuovo disco, si tocca il fondo. Peccato per i suoni azzeccati della pedal steel di Tony Paoletta e dell’ospite Al Perkins (un ex FBB ma non fondatore), ma la copertina che inserisce a tradimento i titoli di un paio di brani dei FBB primordiali e gli estratti parlati con la voce di gram Parsons sono un trucco accalappiavendite di bassa lega.

Il repertorio? Boh! Che dire qualche colpo di coda c’è, tipo More And More (il brano con Perkins, guarda caso), ma c’è troppa roba che non c’entra nulla, dalla citazione di Give Peace A Chance, l’iniziale A Whiter Shade Of Pale dei Procol Harum e la Pride of Man che fu cavallo di battaglia dei Quicksilver. Tutta roba lontanissima dal sound country rock. Time Machine sarebbe anche unbel brano, arioso, elaborato con bei suoni, ma è un altro genere! Whiskey Woman è invece ciofeca a tutto tondo, suoni FM o AOR che speravamo fossero caduti nel dimenticatoio e che invece tornano impenitenti e legati – ahinoi! – a un nome che abbiamo amato e che vorremmo non venisse sfruttato così biecamente.

Paolo Crazy Carnevale

SIMONE GALASSI – Simone Galassi

di Paolo Baiotti

17 ottobre 2025

Simone-Galassi_Cover-album

SIMONE GALASSI
SIMONE GALASSI
Autoprodotto 2025

Se avete voglia di fare un tuffo nel passato, tra gli anni Sessanta e Settanta in cui il rock-blues forgiato dalle chitarre di Jimi Hendrix, Rory Gallagher o Jimmy Page sveva un ruolo primario nel mondo del rock, potete rivolgervi con fiducia all’esordio del chitarrista e cantante modenese Simone Galassi, un disco registrato e prodotto in collaborazione con Carlo Poddighe, che ha dato un contributo essenziale suonando batteria, basso, pianoforte, organo Hammond, piano Wurtlizer e Clavinet. Simone è un uomo e un musicista di altri tempi che sembra catapultato per caso nell’attuale secolo; non a caso l’album è stato registrato con strumentazione analogica e vintage, così come la copertina si ricollega all’epoca psichedelica.
Si tratta di un esordio studiato a lungo, in coda ad un percorso iniziato negli anni Novanta che lo ha portato nel corso di un trentennio a suonare in Italia e all’estero, soprattutto in Germania, Gran Bretagna e Olanda, con una particolare attenzione alle esibizioni con la band Irish Fire in onore di Rory Gallagher, il grande chitarrista del quale ha studiato con passione musica e testi, fino alla richiesta di partecipare ai festival di Ballyshannon e Striegistal nati per celebrare il musicista irlandese. Simone ha vari progetti e suona anche nella band della cantautrice Ellen River, oltre a concentrarsi sulla promozione del progetto solista.
Venendo al contenuto del disco, pubblicato in vinile colorato, cd e cassetta, si tratta di dieci tracce autografe che vedono al centro la chitarra e la voce ruvida di Galassi, tra rock, blues e funky con un tocco di psichedelia, mentre i testi parlano della vita di ogni giorno, con riferimenti personali. Dall’intenso e potente rock-blues di These Chains con un suono debitore di Stevie Ray Vaughan al mid-tempo aspro e incisivo di I Have To Tell You, dall’incalzante zeppeliniana I’ll Never dove la voce ricorda anche il canadese Frank Marino al funky di 95 l’album si sviluppa senza momenti di stanca, seppur con qualche calo di creatività (In Your Eyes) compensato dal calore delle esecuzioni. La sulfurea ballata hendrixiana Since You’re Gone è una delle tracce più convincenti, con l’Hammond e il Wurtlizer che affiancano una chitarra sofferente, insieme all’altra ballata Shooting Stars e alla pesante e distorta Hazy Nights, la traccia più lunga e “moderna” del disco, con evidenti richiami al grunge mischiato con Hendrix.
Questo è un album che sembra paracadutato dal periodo d’oro del rock-blues, con un suono e una grafica adeguati.

Paolo Baiotti

LOLLY LEE – Lolly Lee

di Paolo Baiotti

10 ottobre 2025

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LOLLY LEE
LOLLY LEE
Admiral Bean 2024

Lolly Lee non è solo una cantante, ma una polistrumentista di Birmingham, Alabama, che ha alle spalle un lungo cammino in ambito musicale. All’età di 63 anni ha pubblicato il suo primo album solista dopo una serie di esperienze, concerti, bambini, matrimonio, cadute e risalite, alti e bassi. Negli anni ottanta ha fatto parte della rock band The Mortals come cantante solista, prendendo qualcosa dalle sue artiste preferite: Stevie Nicks, Lucinda Williams e Joni Mitchell. In seguito, è diventata chitarrista ritmica e cantante degli Split The Dark, attivi nel sud est, lasciando per diventare madre. Dopo una lunga pausa nella quale ha lavorato dietro le quinte come compositrice vivendo nell’Alabama rurale, nel 2022 ha perso il marito per malattia, il padre e il cane, riversando il suo dolore in nuove canzoni e preparando finalmente l’esordio da solista, convinta anche dall’appoggio dei quattro figli. In questa attività è stata coadiuvata dal vecchio amico Anthony Crawford, non proprio l’ultimo arrivato, collaboratore di Neil Young negli anni Ottanta in Everybody’s Rockin’, Old Ways e A Treasure (era membro degli Shocking Pinks e degli International Harvesters) e più recentemente in Prairie Wind e Fork On The Road, nonché di altri artisti tra i quali Vince Gill, Steve Winwood e Dwight Yoakam, oltre che compositore, artista solista e in coppia con la moglie Savana Lee nel duo Sugarcane Jane. Nel disco in esame Anthony, oltre a produrre insieme a Lolly Lee nello studio di proprietà Admiral Bean, ha suonato basso, batteria, chitarra, mandolino, lap steel e tastiere, mentre ai cori è stato affiancato dalla moglie, lasciando a Lolly la chitarra e la voce solista.
Mischiando elementi di rock, country e americana l’artista dimostra di avere l’energia di una giovane esordiente, una voce caratteristica, testi intelligenti e una discreta capacità di scrittura. Il rock solido di Satellite con un coro che resta in testa, il singolo Great Crusade in cui la tonalità vocale ricorda Marianne Faithfull, potente e toccante nel catturare l’essenza dell’amore, della perdita e delle difficoltà della vita quotidiana nell’Alabama rurale, l’oscura e inquietante melodia di Shot At The Devil, il country morbido di Free State Of Winston, l’animata e nostalgica Sweet Alabama Home e la rilassata I Used To Live Here emergono in un album ben costruito e prodotto con cura.

Paolo Baiotti

THE BOBBY TENDERLOIN UNIVERSE – Satan Is A Woman

di Paolo Baiotti

8 ottobre 2025

bobby

THE BOBBY TENDERLOIN UNIVERSE
SATAN IS A WOMAN
CMR 2024

Quando ho ascoltato per la prima volta la title track che apre il nuovo album di questa formazione canadese di Edmonton, ho pensato che il fantasma di Johnny Cash fosse tornato tra noi. Bobby ha una voce profonda che ricorda l’inimitabile Cash e anche la musica del brano, che nel testo propone l’ipotesi di una protagonista diabolica che entra nel mondo di Tenderloin travestita come una moderna femme fatale, il tipo di persona che cattura all’istante il cuore di un uomo, ma allo stesso tempo minaccia di distruggerlo nel processo, richiama il country classico. Un’impressione ribadita da What Do I Do che rivisita il “boom chicka boom” dei Tennesse Three, con l’aggiunta della pedal steel di Nathan Grey che interviene in tutto il disco e, in questo caso, della voce di Cayley Thomas, giovane cantante di Edmonton.
Quando tocca le tonalità più profonde come in Bad Boys Of Redemption Ranch, Bobby aggiunge un tocco oscuro pur nell’ambito di melodie country/pop di presa immediata debitrici di Lee Hazelwood. Prodotto con cura da Paul Arnusch che suona basso, percussioni e chitarra elettrica, il disco profuma di pop anni sessanta nella pianistica ballata Marigold in cui hanno un ruolo di primo piano i cori di Rhonda Chinchilla, Emma Frazier e Kayla Enns e il violino di Nathanial Wong, mentre la chiusura del primo lato è affidata ad un’altra ballata, la melanconica I Will Onfollow You supportata dagli archi.
Il gruppo, che ha supportato dal vivo artisti del calibro di Charley Crockett e Orville Peck, ha esordito nel 2019 su lunga durata, aspettando cinque anni per incidere il secondo album. Quest’anno ha pubblicato uno strano Ep, A Fistful Of Metal, in cui riarrangia in chiave country & western brani di gruppi metal come Iron Maiden (Fear Of The Dark) e Judas Priest (Breaking The Law).
Tornando a Satan Is A Woman, il secondo lato del vinile (è uscito anche il cd) è aperto da un altro duetto, Take Me As I Am con Emma Frazier, a dire il vero un po’ banale, proseguendo con altri brani fedeli alla tradizione come When The Bullet Hits The Bull o la pianistica Rollin’ Back To You, trasmettendo alla fine l’impressione di un ascolto piacevole che resta in superficie senza lasciare un segno profondo.

Paolo Baiotti

PARALLELS – Exodus

di Paolo Baiotti

24 settembre 2025

parallels

PARALLELS
EXODUS
Autoprodotto 2024

“In un classico formato concept album, Exodus racconta la storia di una giovane coppia che affronta la guerra: ‘Se non ti sottometti, ti offrono la spada’. Decidono che lui lascerà il paese per primo, dato che lei aspetta il loro primogenito da un giorno all’altro. È un viaggio pericoloso, tra fuoco incrociato, cecchini e potenziali tradimenti. Lui deve attraversare il mare. Ma lo farà? E lei? Si riuniranno?”.
Così viene presentato nelle note di copertina Exodus, l’ambizioso debutto del trio svedese dei Parallels formato da Ulrik Arfurén (voce solista e basso), Torbiorn Carlsson (tastiere) e Anders Boriesson (chitarra e voce), che si possono considerare una formazione di neo-prog con venature metal. Il tema principale riguarda il flagello della guerra, che purtroppo i tempi recenti hanno mostrato sempre presente nella mente di troppe nazioni e di troppe persone. Ognuno può applicarlo all’area di conflitto che ritiene più vicina, anche se questo progetto è dedicata alla lotta ucraina, come si evince dal dialogo iniziale in quella lingua.
Dal punto di vista musicale i Parallels dimostrano di avere una notevole competenza strumentale e anche la scrittura e gli arrangiamenti, quasi interamente nelle mani di Carlsson, sono di buon livello pur avendo inevitabili riferimenti sia al prog degli anni Settanta (Camel, Genesis, Pink Floyd) che a quello degli anni ottanta (IQ, Twelfth Night). Prevalgono le parti melodiche con le tastiere e i synth in primo piano, oltre alla voce consistente e solida di Arfuren che in un paio di tracce è affiancato dalla cantante Maria Kirilov.
L’apertura di The Beginning è drammatica ed emozionante, con un testo commovente che accompagna una musica che a tratti ricorda i Camel e i Pink Floyd con una chitarra espressiva nell’assolo centrale seguita da una parte cantata più sforzata e sofferta dove le tastiere il comando. Segue The Escape che ha una prima parte che dà la sensazione di fuga con il synth e una chitarra heavy, una sezione più quieta cantata, un break strumentale con le tastiere avvolgenti e un finale accelerato che confluisce nella bluesata You’ve Got To Run, duetto vocale tra Arfuren e la Kirilov accompagnati dal piano, da una chitarra gilmouriana e dagli archi. Il crescendo di One More Road è seguito dalla potente e trascinante Fields Of Despair in cui una chitarra ruvida duetta con le tastiere in un contrasto che caratterizza il brano, esemplare per i continui cambi di ritmo e atmosfera, confluendo nella sofferta How Can This Even Be?, l’altro duetto con la Kirilov.
La seconda parte è aperta e chiusa da Not Alone Part 1-2: la prima è la traccia più lunga del disco in cui piano e tastiere avvolgono l’ascoltatore e che, dopo il cantato, accelera con il synth e la chitarra in dialogo serrato rallentando nuovamente con il ritorno della voce solista. Il prog-metal di Forgotten, la sofferta Darkness e la cadenzata Sea Of Death sottolineano i momenti più difficili della fuga, mentre in Say Hello (Solid Ground) viene tentata una via d’uscita oltre la linea del fronte alla ricerca della tanto agognata liberazione che sembra possibile nella chiusura di Not Alone part 2, portatrice di un messaggio di speranza sottolineato dalla solennità della musica.
Exodus è un disco che merita un ascolto accurato, specialmente da parte degli appassionati di prog classico.

Paolo Baiotti

GRAZIANO ROMANI – Looking Ahead

di Paolo Crazy Carnevale

22 settembre 2025

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GRAZIANO ROMANI – Looking Ahead (Route 61 Recordsvc 2025)

Non solo Springsteen. È la prima cosa che viene in mente ascoltando questo nuovo lavoro del rocker emiliano Graziano Romani. Non che avessimo bisogno di questo disco per scoprire che la musica di Romani va ben oltre. Ma è una cosa che è bene e giusto ribadire. Romani è stato l’anima e la voce dei Rockin’ Chairs, formazione di Reggio Emilia devota alla musica del boss: ricordo di averli sentiti nominare la prima volta alla fine del 1984 grazie ad una loro versione di Jungleland registrata proditoriamente dal vivo nella mia città (ma io stavo facendo il soldato altrove, allora) e finita in una compilation casalinga su nastro. Un paio d’anni dopo sono tornati a suonare dalle mie parti e il concerto non me lo sono perso. Poco dopo è arrivato il famoso primo LP su Ala Bianca/EMI. Da quei tempi eroici – per una band rock di quel genere in Italia non era certo facile avere l’opportunità di fare dischi – di acqua sotto i ponti ne è passata molta, allo sfaldamento del gruppo, Romani ha fatto seguire una carriera solista di riguardo, varia, ha persino preso parte a tributi a Springsteen, ha fatto dischi in omaggio agli eroi dei fumetti cari a lui e alla sua generazione, di cui ricordo con piacere quello a Tex Willer.

Nella musica, lui non ha mai smesso di crederci. E Looking Ahead ne è la riprova. Ascolto dopo ascolto il disco cresce, matura, conquista. Se non sapessimo chi è Graziano Romani e se non sapessimo che la Route 61 è una label italiana, potrebbe essere un disco d’Oltreoceano, il disco di un artista che la musica americana la conosce a menadito, sa scrivere brani come se fosse nato lì, anche meglio forse, e oltretutto lo fa riuscendo pure a dire qualcosa coi suoi testi. Ogni brano è come una cartolina e nel booklet è accompagnato dal relativo francobollo. Il disco trasuda suoni ben costruiti, la fisarmonica quasi zydeco dell’energica Middlejune che apre il disco parla chiaro, tra l’altro la suona Franco Borghi, qui anche ad uno strepitoso pianoforte, che stava con Graziano già ai tempi dei Rockin’Chair. Così come il mitico Max Marmiroli, che qui si occupa della sezione fiati e che come Borghi negli ultimi quindici anni è sempre rimasto a fianco del titolare. Singing About Nothing gira dalle parti di Southside Johnny, ottima la chitarra di Fellon Brown e ottimo il refrain di facile assimilazione; Lay Down These Arms, oltre a confermare il buono stato della vena del Graziano autore, sta ancora nel New Jersey di fine anni settanta, con Marmiroli che suona come se fosse da solo gli Asbury Jukes, è quindi la volta della soul ballad This Kind of Sparks, con solo del sax e gran sostegno della sezione ritmica formata da Lele Cavalli e Nik Bertolani. L’arrangiamento festoso di Bright Side Of The River ci riporta al soul celtico di Kevin Rowland e soci, Unafraid ricorda un po’ Ligabue, che è uno che viene dalla stessa scuola di Romani, con un testo in stile hobo che cita inevitabilmente Woody Guthrie, Borghi ci mette un bel solo di fisarmonica. Con Universal Law il suono si fa più impetuoso e robusto, l’organo tira cannonate e l’autore invita a tornare a fare l’amore – in contrapposizione con la guerra che sembra si stia facendo ovunque di questi tempi. Altro attacco in chiave Southside Johnny per In A Just World, con Marmiroli e Borghi che sono i protagonisti della struttura sonora, magnificamente sorretta da basso e batteria. Lo status elevato del disco prosegue con From This Moment On, Black Alley Beauty (bel giro di chitarra), Looking Ahead, forse la canzone che ricorda maggiormente l’ispiratore primordiale di Romani insieme alla conclusiva Last Juke Box On Earth, brano evocativo costruito sull’onda di ricordi davvero lontani.

Paolo Crazy Carnevale

MICHAEL WARD – Brighter Days

di Paolo Baiotti

21 settembre 2025

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MICHAEL WARD With Dogs And Fishes
BRIGHTER DAYS
Autoprodotto 2024

Nell’agosto del 2024, Michael Ward con la sua band Dogs & Fishes ha pubblicato il quinto album Brighter Days, con otto canzoni registrate agli Hyde Street Studios di Rancho Rivera in California di cui Michael è proprietario. L’album, che ha un significato politico espresso con forza nei testi, è influenzato dal blues, dal rock classico, dal soul di Memphis e soprattutto, dal suono della west coast. Il disco è stato masterizzato dall’esperto Howie Weinberg (Herbie Hancock, Beastie Boys, Jethro Tull, U2).
La band Dogs And Fishes, oltre a Michael (voce e chitarra), è formata da sei elementi che suonano insieme da un ventennio, vale a dire Prairie Prince (The Tubes, Tom Waits, John Fogerty) alla batteria, Chris Von Sneidern (Chuck Prophet) alla chitarra, Richard Howell (Etta James, Taj Mahal) al sax, Drew Zingg (Steely Dan) alla chitarra, Jeff Cleland (Hot Sauce) al basso e il boliviano Fernando De Sanjines (Samba Do Coracao) alla batteria e percussioni.
Tra i brani spicca il singolo Big Bite, un funky-rock chitarristico in cui è curiosamente campionato un frammento della dichiarazione di guerra di Mussolini assimilato al modello trumpiano di visione politica. Come ha dichiarato Ward “L’attuale modello trumpiano è schietto e audace nel porre le sue intenzioni fasciste come centrali nella sua attuale piattaforma, così com’è. Questa melodia affronta i meccanismi di attrazione di questo pericoloso stato d’animo.” Da notare anche una cover accelerata di Highway 61 in cui la voce mi ha ricordato Ian Gillan dei Deep Purple, con un notevole apporto di tastiere, chitarre e fiati unita alla polemica TV Preacher, atto d’accusa contro i predicatori, la mossa Dress Up Day in cui emerge il sax di Howell nella jam finale e la fluida A Walk In The Park registrata dal vivo, attraversata da un sax nuovamente in primo piano.

Paolo Baiotti

BROCK DAVIS – Everyday Miracle

di Paolo Baiotti

21 settembre 2025

Brock-Davis-Med-Res-Cover

BROCK DAVIS
EVERYDAY MIRACLE
Raintown Records 2024

Cresciuto in una cittadina vicina a Vancouver, ma da tempo residente a Santa Cruz in California, Brock è un cantautore che ama mischiare un fingerstyle acustico con il suono elettrico della Telecaster byrdsiana e l’organo B3, tra rock, country e folk.
È un veterano dei palchi avendo lavorato in bar e club e inciso un paio di album, A Song Waiting To Be Sung e il più recente Everyday Miracle, che raccoglie la prima parte delle canzoni registrate da Zach Allen (Keb’ Mo’) nel Backstage Studio di Nashville con alcuni session-men di lusso quali sono giustamente considerati Rob McNelly (Buddy Guy, Lady Antebellum, Kenny Chesney) e Justin Ostrander (Luke Bryan, Cody Johnson) alla chitarra, Russ Pahl (Robert Plant, Vince Gill, Carrie Underwood) alla pedal steel, Michael Rojas (Black Keys, Dolly Parton, Stevie Nicks) alle tastiere, Duncan Mullins (Crystal Gayle, Richard Marx) al basso e Marcus Finnie (Keb’ Mo’, Taj Mahal, Lady Antebellum) alla batteria.
Everyday Miracle è un disco melodico, riflessivo, elegante, a tratti emozionale pur essendo musicalmente piuttosto uniforme, con uno studiato utilizzo dei cori d’ispirazione gospel in tracce come Rain Falling On The Water, la riflessiva Give Forgiveness ed Everyday Miracle. Tra gli episodi country-rock più ritmati che vivacizzano l’ascolto citerei You’d Think I Know By Now e il singolo Keep On che ha ricevuto notevoli attenzioni. La voce di Brock risalta nella ballata pop I’ll Always Be Your Dad un po’ zuccherosa, nell’elegante The Warrior, nella love song Angela (Please Say Yes) e nella dolente September Rain, mentre la chiusura di My Promise To You richiama nel testo le promesse di nozze di Brock alla moglie.
Il musicista, confermando il suo romanticismo, ha commentato così questo brano: “mia moglie ama i grandi gesti romantici; quindi, sapevo che volevo chiederle di sposarmi con una canzone. Ma non sono riuscito a superare la prima riga che ho iniziato a piangere e poi anche lei si è messa a piangere. Ma ha detto di sì”.

Paolo Baiotti

LEAF RAPIDS – Velvet Paintings

di Paolo Baiotti

17 settembre 2025

LEAF RAPIDS
VELVET PAINTINGS
Forty Below 2025
Mile33 2024

I coniugi Keri e Devin Latimer sono il fulcro dei Leaf Rapids, formazione che prende il nome dalla cittadina situata nel nord-ovest del Manitoba in Canada dove risiedono, una zona isolata in un territorio un tempo abitato da tribù indiane. Dopo avere militato nei primi anni del nuovo millennio nel quartetto di alternative-country Nathan che ha inciso tre album, hanno proseguito da soli esordendo nel 2015 con Lucky Stars, seguito nel 2019 da Citizen Alien, un disco particolare che traeva ispirazione da vicende famigliari della coppia (Keri è di origine giapponese).
Dopo una pausa coincisa con il periodo della pandemia è il momento di Velvet Paintings, un album che vuole avere un suono roots-country e una visione più ampia sul mondo e sugli interpreti del momento attuale. Keri (autrice e cantante) e Devin (basso) sono accompagnati da Joanna Miller (batteria e voce) e Chris Dunn (chitarra), con l’aggiunta del contributo di Bill Western (pedal steel), Geoff Hilhorst (tastiere), Natanielle Felicitas (violoncello) e John Paul Peters (violino) che ha mixato e coprodotto il disco con Keri nello stuudio Private Ear di Winnipeg.
La title track si offre all’ascolto in modo quieto e melodico con la voce sottile della cantante in primo piano; Starling To a Starling accelera il ritmo senza scossoni, con un’influenza country data dalla pedal steel, che continua in Fast Romantic, aperta da arpeggi non dissimili da Jackson dei coniugi Cash. Si prosegue con la romantica ballata Silver Fillings e con il delicato folk-pop Night Shift in cui Keri lascia il ruolo di voce solista alla batterista Joanna Miller, autrice della canzone. L’eterea Paramjit’s Sonnet ammorbidita dagli archi conferma la preferenza per le melodie avvolgenti, ribadita dalla carezzevole In The Woods, mentre il ritmo si rialza un pochino nel country chitarristico di Trepidatious Celebrations in cui gli strumenti si intrecciano con sapienza, portandoci alla chiusura di Insomniac Show.
Prodotto con il prezioso aiuto finanziario della “Manitoba Film & Music”, Velvet Paintings è l’ennesima riprova della vitalità della scena roots canadese.

Paolo Baiotti

NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS – Still Shakin’

di Paolo Baiotti

13 settembre 2025

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NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS
STILL SHAKIN’
New West 2025

Nel presentare il nuovo album Luther Dickinson ha dichiarato: “Still Shakin’ è una celebrazione del nostro primo album che ci ha cambiato la vita, Shake Hands with Shorty, pubblicato 25 anni fa e una lettera d’amore e di apprezzamento a coloro che ci hanno supportato e ci hanno permesso di continuare a suonare in tutti questi anni. Portare in tour questo ciclo di album fino al 2026 segnerà trent’anni da quando abbiamo fondato i North Mississippi Allstars e non abbiamo resistito a commemorare entrambi gli anniversari. Invece di concentrarci sul vecchio materiale abbiamo deciso di registrare nuova musica nello spirito del nostro debutto”.
Formati nel ’96 dai fratelli Luther e Cody come un collettivo di musicisti della zona nord del Mississippi, ispirati dal padre Jim Dickinson (musicista e produttore) e dagli storici bluesman dell’Hill Country Blues (RL Burnside, Junior Kimbrough e Fred McDowell), hanno supportato nel loro primo tour americano RL Burnside, evolvendo gradualmente il loro suono che, partendo dal blues locale, ha inserito elementi meno tradizionali e il gusto per l’improvvisazione psichedelica con influenze punk e stoner. Gli Allstars hanno avuto numerosi musicisti nella loro line-up, da Cedric Burnside a Chris Chew, da Oteil Burbridge e Garry Burnside e hanno collaborato a numerosi dischi di altri, specialmente Luther che ha anche suonato per un certo periodo con i Black Crowes e Phil & Friends.
L’esordio è stato registrato nello studio di famiglia, lo Zebra Ranch di Independence come molti dischi successivi e gran parte di Still Shakin’. L’attuale line-up della band comprende Rayfield Holloman (pedal steel, basso e basso synth) e Joey Williams (voce, chitarra e basso), due musicisti presentati a Luther da Robert Randolph, ma partecipano all’album altri amici e colleghi.
A tre anni dal valido Set Sail, Still’Shakin’ definito da Luther un disco di Modern Mississippi Music mischia il suono delle origini con influenze più recenti risultando ancora una volta interessante e convincente. La versione accelerata e funkeggiante di Preachin’ Blues è un esempio di questo mix di tradizione e modernità, a differenza di Stay All Night (Junior Kimbrough) che vira verso la tradizione con l’intervento della chitarra e voce di Robert Kimbrough, figlio di Junior e dell’Hammond di JoJo Hermann (Widespread Panic). Le voci di Sharisse e Shontelle Norman accompagnano Luther nel mid-tempo My Mind Is Ramblin’ (Junior Kimbrough), seguito da Pray For Peace, brano che intitolava l’album del 2017, ripreso in una versione venata di gospel con le voci di Cody e Joey e da K.C. Jones (Furry Lewis) in cui il basso è affidato a Graheme Lesh, figlio del bassista dei Grateful Dead al quale è dedicato il disco.
Se l’ondeggiante Still Shakin’ ha un groove ballabile con dei suoni più moderni, anche Poor Boy (R.L. Burnside) viene rivista con Rayfield al synth bass e Duwayne Burnside alla chitarra solista dove si alterna con la slide di Luther nella jam strumentale, mentre il tradizionale Don’t Let The Devil Ride, con Joey Williams voce solista, ha un delizioso andamento insinuante e brillanti break strumentali. Nel finale non poteva mancare un brano dedicato al padre Jim, il melodico (e atipico) strumentale Monomyth con Luther al piano e Kashiah Hunter alla steel guitar.

Paolo Baiotti

CHARLIE MUSSELWHITE – Look Out Highway

di Paolo Baiotti

10 settembre 2025

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CHARLIE MUSSELWHITE
LOOK OUT HIGHWAY
Forty Below 2025

Charlie è uno dei “grandi vecchi” del blues tuttora in attività sia in studio che dal vivo. E non sbaglia un colpo! Nato in Mississippi, cresciuto a Memphis, ha vissuto per molti anni a Chicago e poi a San Francisco, ma più recentemente è tornato a casa trasferendosi a Clarksdale. Dopo il disco con Ben Harper (No Mercy In This Land, Anti 2018), quello con Elvin Bishop (100 Years Of Blues, Alligator 2020) e l’eccellente Mississippi Son (Alligator 2022), ha firmato per la Forty Below che recentemente ha pubblicato Look Out Highway registrato ai Greaseland Studios del chitarrista norvegese Kid Andersen (Rick Estrin & The Nightcats, Elvin Bishop) che ha prodotto il disco con Gary Vincent e Henrietta, moglie di Charlie. Vincitore di numerosi Grammys e Blues Awards con quasi 60 anni di carriera iniziata nel ’66 con l’album Stand Back! per la Vanguard il grande armonicista, chitarrista e cantante ha ancora voglia di dimostrare la sua autenticità, la voce graffiante e robusta e l’indubbia capacità di armonicista con un timbro riconoscibile che gli hanno consentito di collaborare con artisti di ogni epoca, da Tom Waits a Cindy Lauper, da Bonnie Raitt ai Blind Boys Of Alabama.
In questo disco in cui i brani sono in qualche modo legati dal tema del viaggio e della strada, Charlie è accompagnato dalla sua band formata da Matt Stubbs alla chitarra, Randy Bermudes al basso e June Core alla batteria con Andersen, che più volte ha suonato con lui, alla chitarra e tastiere. La title track posta in apertura ha un suono più duro del solito e un’armonica abrasiva, mentre la successiva Sad Eyes è più lenta e melodica anche negli interventi dell’armonica, mettendo in mostra le doti del chitarrista Matt Stubbs. Dal Chicago blues di Storm Warning all’incisivo shuffle di Baby Won’t You Please Help Me, dalla saltellante Hip Shakin’ Mama al blues mid-tempo Highway 61 con le tastiere in primo piano il disco scorre veloce senza momenti di stanca. Charlie dimostra di avere voglia di sorprendere in Ghosts In Memphis dove duetta con il rapper Al Kapone e nel rock-blues Ready For Times To Get Better (incisa nel ’76 da Crystal Gayle) dove interviene la cantante Edna Lockett, tornando sul suo terreno preferito nel magistrale slow strumentale Blue Lounge in cui suona la slide, chiudendo con il flessuoso blues di Open Road un altro album pienamente riuscito.

Paolo Baiotti

BONNY JACK – Somewhere, Nowhere

di Donata Ricci

9 settembre 2025

BONNY-JACK-Somewhere-Nowhere

BONNY JACK
Somewhere, Nowhere
Autoprodotto / AZ Press – 2025

Chi mastica di fotografia conosce la differenza tra il formato raw (ossia grezzo) ed il lezioso jpg, risultato di elaborazioni in fase di post-produzione. Ebbene, la terza prova discografica di Bonny Jack, dall’interessante titolo Somewhere, Nowhere, è assimilabile a un fotogramma sonoro in formato raw, che sappiamo essere il migliore in quanto privo di edulcorazioni. Le undici tracce del disco arrivano all’ascoltatore dirette, nude, scevre di artifizi che possano alterarne l’immediatezza. Ed è esattamente ciò che serve per conservare ogni granello di polvere depositatasi sui camperos e per disegnare quelle atmosfere dark-western che Bonny Jack riesce a miscelare con un blues primitivo e con l’irruenza del combat folk più genuino. Il ricorso alla lingua inglese risulta dunque appropriato, perché altrimenti come lo racconti il deserto geografico e interiore che ti brucia dentro? Congrui anche gli arrangiamenti, affidati all’incisiva fisarmonica di Angelica Foschi, all’armonica di Ren Vas Terul, al violino segnante di Brian D., alla slide nonché chitarre elettriche e armonica di Guido Jandelli, alle percussioni di Andrea Vettor e infine alla voce di Alia; oltre naturalmente al banjo e all’imprescindibile chitarra di Bonny Jack, il quale qui lascia a casa l’elettrica optando per un’acustica arrembante, perché resta inteso che il suo formato preferito è quello one man band, supportato da kazoo, tamburi a pedale e sonagli a cavigliera. Eppure non disdegna una coralità quasi tribale, come quella che si apprezza nel canto corale di Wake up. Classe 1984, al secolo Matteo Senese, Bonny viene attratto precocemente dalla chitarra, milita in svariate band nostrane e poi si trasferisce a Seattle, dove respira grunge a pieni polmoni prima di rientrare in Italia con un bagaglio musicale ormai maturo. La pubblicazione di Somewhere, Nowhere è preceduta dal singolo Carnival valley, per chi scrive il brano migliore della raccolta: il giro armonico mi rimanda immediatamente a Good shepherd e il suono sembra proprio quello dell’aeroplano Jefferson periodo Volunteers. Un’influenza inattesa e decisamente gradevole. Poi si vira con naturalezza e senza stridore alcuno alle sonorità mariachi di Mexican standoff, dove la tromba di Tyler R. regala l’attesa dose di Messico. Degna di menzione anche l’affascinante Post apocalypse song, una sorta di native song da cantare sommessamente e con cuore ispirato davanti ad un tepee evocando l’Erdgeist, lo spirito della Terra. Ulteriore conferma che questo disco è in definitiva il racconto di un viaggio spirituale in bilico tra giorno e notte, tra arsura e sorgente, tra morte e vita. In altre parole tra opposti, come sembra avvalorare il disegno interno alla confezione di cartoncino grezzo (anch’esso decisamente raw) che mostra un volto tagliato in diagonale, per metà teschio e per metà truccato a festa.

Donata Ricci