Archivio articoli per la categoria ‘Rock'n'Pop’

NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS – Still Shakin’

di Paolo Baiotti

13 settembre 2025

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NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS
STILL SHAKIN’
New West 2025

Nel presentare il nuovo album Luther Dickinson ha dichiarato: “Still Shakin’ è una celebrazione del nostro primo album che ci ha cambiato la vita, Shake Hands with Shorty, pubblicato 25 anni fa e una lettera d’amore e di apprezzamento a coloro che ci hanno supportato e ci hanno permesso di continuare a suonare in tutti questi anni. Portare in tour questo ciclo di album fino al 2026 segnerà trent’anni da quando abbiamo fondato i North Mississippi Allstars e non abbiamo resistito a commemorare entrambi gli anniversari. Invece di concentrarci sul vecchio materiale abbiamo deciso di registrare nuova musica nello spirito del nostro debutto”.
Formati nel ’96 dai fratelli Luther e Cody come un collettivo di musicisti della zona nord del Mississippi, ispirati dal padre Jim Dickinson (musicista e produttore) e dagli storici bluesman dell’Hill Country Blues (RL Burnside, Junior Kimbrough e Fred McDowell), hanno supportato nel loro primo tour americano RL Burnside, evolvendo gradualmente il loro suono che, partendo dal blues locale, ha inserito elementi meno tradizionali e il gusto per l’improvvisazione psichedelica con influenze punk e stoner. Gli Allstars hanno avuto numerosi musicisti nella loro line-up, da Cedric Burnside a Chris Chew, da Oteil Burbridge e Garry Burnside e hanno collaborato a numerosi dischi di altri, specialmente Luther che ha anche suonato per un certo periodo con i Black Crowes e Phil & Friends.
L’esordio è stato registrato nello studio di famiglia, lo Zebra Ranch di Independence come molti dischi successivi e gran parte di Still Shakin’. L’attuale line-up della band comprende Rayfield Holloman (pedal steel, basso e basso synth) e Joey Williams (voce, chitarra e basso), due musicisti presentati a Luther da Robert Randolph, ma partecipano all’album altri amici e colleghi.
A tre anni dal valido Set Sail, Still’Shakin’ definito da Luther un disco di Modern Mississippi Music mischia il suono delle origini con influenze più recenti risultando ancora una volta interessante e convincente. La versione accelerata e funkeggiante di Preachin’ Blues è un esempio di questo mix di tradizione e modernità, a differenza di Stay All Night (Junior Kimbrough) che vira verso la tradizione con l’intervento della chitarra e voce di Robert Kimbrough, figlio di Junior e dell’Hammond di JoJo Hermann (Widespread Panic). Le voci di Sharisse e Shontelle Norman accompagnano Luther nel mid-tempo My Mind Is Ramblin’ (Junior Kimbrough), seguito da Pray For Peace, brano che intitolava l’album del 2017, ripreso in una versione venata di gospel con le voci di Cody e Joey e da K.C. Jones (Furry Lewis) in cui il basso è affidato a Graheme Lesh, figlio del bassista dei Grateful Dead al quale è dedicato il disco.
Se l’ondeggiante Still Shakin’ ha un groove ballabile con dei suoni più moderni, anche Poor Boy (R.L. Burnside) viene rivista con Rayfield al synth bass e Duwayne Burnside alla chitarra solista dove si alterna con la slide di Luther nella jam strumentale, mentre il tradizionale Don’t Let The Devil Ride, con Joey Williams voce solista, ha un delizioso andamento insinuante e brillanti break strumentali. Nel finale non poteva mancare un brano dedicato al padre Jim, il melodico (e atipico) strumentale Monomyth con Luther al piano e Kashiah Hunter alla steel guitar.

Paolo Baiotti

CHARLIE MUSSELWHITE – Look Out Highway

di Paolo Baiotti

10 settembre 2025

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CHARLIE MUSSELWHITE
LOOK OUT HIGHWAY
Forty Below 2025

Charlie è uno dei “grandi vecchi” del blues tuttora in attività sia in studio che dal vivo. E non sbaglia un colpo! Nato in Mississippi, cresciuto a Memphis, ha vissuto per molti anni a Chicago e poi a San Francisco, ma più recentemente è tornato a casa trasferendosi a Clarksdale. Dopo il disco con Ben Harper (No Mercy In This Land, Anti 2018), quello con Elvin Bishop (100 Years Of Blues, Alligator 2020) e l’eccellente Mississippi Son (Alligator 2022), ha firmato per la Forty Below che recentemente ha pubblicato Look Out Highway registrato ai Greaseland Studios del chitarrista norvegese Kid Andersen (Rick Estrin & The Nightcats, Elvin Bishop) che ha prodotto il disco con Gary Vincent e Henrietta, moglie di Charlie. Vincitore di numerosi Grammys e Blues Awards con quasi 60 anni di carriera iniziata nel ’66 con l’album Stand Back! per la Vanguard il grande armonicista, chitarrista e cantante ha ancora voglia di dimostrare la sua autenticità, la voce graffiante e robusta e l’indubbia capacità di armonicista con un timbro riconoscibile che gli hanno consentito di collaborare con artisti di ogni epoca, da Tom Waits a Cindy Lauper, da Bonnie Raitt ai Blind Boys Of Alabama.
In questo disco in cui i brani sono in qualche modo legati dal tema del viaggio e della strada, Charlie è accompagnato dalla sua band formata da Matt Stubbs alla chitarra, Randy Bermudes al basso e June Core alla batteria con Andersen, che più volte ha suonato con lui, alla chitarra e tastiere. La title track posta in apertura ha un suono più duro del solito e un’armonica abrasiva, mentre la successiva Sad Eyes è più lenta e melodica anche negli interventi dell’armonica, mettendo in mostra le doti del chitarrista Matt Stubbs. Dal Chicago blues di Storm Warning all’incisivo shuffle di Baby Won’t You Please Help Me, dalla saltellante Hip Shakin’ Mama al blues mid-tempo Highway 61 con le tastiere in primo piano il disco scorre veloce senza momenti di stanca. Charlie dimostra di avere voglia di sorprendere in Ghosts In Memphis dove duetta con il rapper Al Kapone e nel rock-blues Ready For Times To Get Better (incisa nel ’76 da Crystal Gayle) dove interviene la cantante Edna Lockett, tornando sul suo terreno preferito nel magistrale slow strumentale Blue Lounge in cui suona la slide, chiudendo con il flessuoso blues di Open Road un altro album pienamente riuscito.

Paolo Baiotti

BONNY JACK – Somewhere, Nowhere

di Donata Ricci

9 settembre 2025

BONNY-JACK-Somewhere-Nowhere

BONNY JACK
Somewhere, Nowhere
Autoprodotto / AZ Press – 2025

Chi mastica di fotografia conosce la differenza tra il formato raw (ossia grezzo) ed il lezioso jpg, risultato di elaborazioni in fase di post-produzione. Ebbene, la terza prova discografica di Bonny Jack, dall’interessante titolo Somewhere, Nowhere, è assimilabile a un fotogramma sonoro in formato raw, che sappiamo essere il migliore in quanto privo di edulcorazioni. Le undici tracce del disco arrivano all’ascoltatore dirette, nude, scevre di artifizi che possano alterarne l’immediatezza. Ed è esattamente ciò che serve per conservare ogni granello di polvere depositatasi sui camperos e per disegnare quelle atmosfere dark-western che Bonny Jack riesce a miscelare con un blues primitivo e con l’irruenza del combat folk più genuino. Il ricorso alla lingua inglese risulta dunque appropriato, perché altrimenti come lo racconti il deserto geografico e interiore che ti brucia dentro? Congrui anche gli arrangiamenti, affidati all’incisiva fisarmonica di Angelica Foschi, all’armonica di Ren Vas Terul, al violino segnante di Brian D., alla slide nonché chitarre elettriche e armonica di Guido Jandelli, alle percussioni di Andrea Vettor e infine alla voce di Alia; oltre naturalmente al banjo e all’imprescindibile chitarra di Bonny Jack, il quale qui lascia a casa l’elettrica optando per un’acustica arrembante, perché resta inteso che il suo formato preferito è quello one man band, supportato da kazoo, tamburi a pedale e sonagli a cavigliera. Eppure non disdegna una coralità quasi tribale, come quella che si apprezza nel canto corale di Wake up. Classe 1984, al secolo Matteo Senese, Bonny viene attratto precocemente dalla chitarra, milita in svariate band nostrane e poi si trasferisce a Seattle, dove respira grunge a pieni polmoni prima di rientrare in Italia con un bagaglio musicale ormai maturo. La pubblicazione di Somewhere, Nowhere è preceduta dal singolo Carnival valley, per chi scrive il brano migliore della raccolta: il giro armonico mi rimanda immediatamente a Good shepherd e il suono sembra proprio quello dell’aeroplano Jefferson periodo Volunteers. Un’influenza inattesa e decisamente gradevole. Poi si vira con naturalezza e senza stridore alcuno alle sonorità mariachi di Mexican standoff, dove la tromba di Tyler R. regala l’attesa dose di Messico. Degna di menzione anche l’affascinante Post apocalypse song, una sorta di native song da cantare sommessamente e con cuore ispirato davanti ad un tepee evocando l’Erdgeist, lo spirito della Terra. Ulteriore conferma che questo disco è in definitiva il racconto di un viaggio spirituale in bilico tra giorno e notte, tra arsura e sorgente, tra morte e vita. In altre parole tra opposti, come sembra avvalorare il disegno interno alla confezione di cartoncino grezzo (anch’esso decisamente raw) che mostra un volto tagliato in diagonale, per metà teschio e per metà truccato a festa.

Donata Ricci

JIM PATTON & SHERRY BROKUS – Big Red Gibson/Harbortowne

di Paolo Baiotti

28 agosto 2025

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JIM PATTON & SHERRY BROKUS
BIG RED GIBSON (Berkalin 2023)
HARBORTOWNE (Berkalin 2024)

Abbiamo scritto più volte in passato dei coniugi Jim Patton e Sherry Brokus, coppia nella vita e nel lavoro, l’ultima volta nel 2022 in occasione della pubblicazione di Going The Distance. Questi sono i due dischi successivi, che rappresentano due versioni un po’ diverse della loro collaborazione che dura da più di 40 anni, dapprima con il gruppo folk/rock Edge City di Baltimora poi, in seguito allo spostamento in Texas a Austin, con una serie di dischi in coppia, sempre prodotti dall’amico chitarrista e tastierista Ron Flynt.
Big Red Gibson, settimo album pubblicato dalla coppia, è un ritorno a un suono rock, seppur sempre con un mix di elettrico e e acustico. Jim canta le principali parti soliste con Sherry ai cori, l’aiuto di Bettysoo (James McMurtry) alla voce, la chitarra elettrica di Cordy Lavery, la batteria di Steve McCarthy, il basso e le tastiere di Ron Flynt che ha sovrainteso alle registrazioni ai Jumping Dog Studios di Austin. La title track, la melodica Dead End Town, il folk-rock A Road That I Never Go Down, il pop-rock Janey Has A Locket, la ritmata Wild, Dumb & Unsatisfied rinvigorita da una chitarra psichedelica e la ballata I Still Believe In You posta in chiusura hanno attirato la nostra attenzione. Peccato per la partecipazione limitata di Sherry e per un paio di brani decisamente minori.
Harbortowne dal canto suo rappresenta il lato più folk del duo con una serie di canzoni legate ad una città immaginaria, con testi che esplorano temi rilevanti come la solitudine, i sogni andati a male, i piani abbandonati e quanto sia difficile per due persone andare d’accordo anche quando si amano e hanno a cuore il bene reciproco.
A partire dal folk della title track si respira un’atmosfera leggera dominata dalle chitarre acustiche di Jim, Rod, Rick Brotherton (Robert Earl Keen) e Bettysoo. Il disco si muove con eleganza tra il folk morbido di Never Going Back, una canzone iniziata nel ’69 e ripresa l’anno scorso in cui si inserisce il violino di Warren Hood (Lyle Lovett), When You Win The Lottery, altro brano fermo da alcuni anni sul fatto che sia necessario vincere alla lotteria per vivere decentemente in America, la sofferta ballata Missing You con gli archi, la briosa A Woman Like You, il country-folk Sally Brown, la pregevole ballata Until The Fire Is Gone e la conclusiva delicata Start Again in cui Sherry Brokus ha il suo primo ruolo solista dal 2019.
Harbortowne sembra più riuscito sia dal punto di vista compositivo che degli arrangiamenti; forse è più adatto all’attuale modo di scrivere e suonare del duo.
Cantautore semplice, poco pretenzioso e genuino, dotato di una voce discreta, Patton ha costruito una carriera solida senza picchi, ma anche senza cadute fragorose.

Paolo Baiotti

NOAH ZACHARIN – Points Of Light

di Paolo Baiotti

4 agosto 2025

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NOAH ZACHARIN
POINTS OF LIGHT
Sonic Peach 2024

Considerato uno dei cantautori canadesi più promettenti dell’ultimo decennio, Noah ha iniziato ad esibirsi a 14 anni, diventando musicista professionista alla fine del 2015. Nato a Montreal, si è trasferito da anni in una zona forestale nell’Ontario rurale vicino a Madoc, spostandosi ogni tanto in una baita isolata nella zona est del paese, chiamata Canadian Shield. Molto apprezzato come chitarrista per il suo fingerstyle, come autore e interprete dotato di una voce calda ed espressiva, nonché per i testi poetici, ha pubblicato il suo nono album Points Of Light nel 2024 prodotto da Danny Greenspoon, un mix di brani suonati da solo o con una band che comprende Russ Boswell al basso e Cary Craig alla batteria e percussioni, con alcuni ospiti, tra i quali Marc Ribot all’ukulele, Denis Keldie alle tastiere e Burke Carroll alla pedal steel.
Se i primi brani tra i quali Ten Tons Of Road, Bed Of Nails e la pregevole ballata So Much Work To Be Done sono influenzati dalla tradizione folk di artisti come Eric Andersen, James Taylor e David Wilcox, il disco vira verso il blues con What Have I Got To Show For It, traccia sciolta in cui si inserisce l’armonica di Roly Platt e il jazz con la swingata Lester Brown attraversata dalla tromba di Kevin Turcotte, tornando alla ballata folk con la dolente Tom Morrow. Nel finale la bluesata e pianistica Done Gone Gone è seguita dal pregevole strumentale acustico Something Like A River e dalla lunga e complessa Been A Long Day arrangiata con gli archi che chiude un disco meritevole di attenzione.

Paolo Baiotti

KATE MCDONNELL – Trapeze

di Paolo Baiotti

21 luglio 2025

KateMcDonnell

KATE MCDONNELL
TRAPEZE
Dog Eared Discs 2024

Nata a Baltimora nel ’63 in una famiglia di musicisti professionisti (i nonni) o dilettanti (i genitori), Kate ha alle spalle una carriera non molto prolifica, ma significativa. Introdotta alla musica folk dai dischi di Joan Baez, ha imparato a suonare la chitarra appassionandosi a musicisti come Leo Kottke e Steve Howe. Dotata di una voce da soprano, ha formato un duo con la sorella gemella suonando nell’area di Baltimora durante il periodo del college. Dopo una pausa si è unita al chitarrista Freddie Tane (ex Bill Haley) con il quale ha inciso due dischi, aprendo per Bob Dylan, Willie Nelson e Judy Collins. Nei primi anni novanta ha iniziato a scrivere e a suonare da sola nei festival folk più conosciuti (Kerrville, Falcon Ridge) esordendo nel ’92 con Broken Bones, accolto positivamente dalla critica. Tour americani ed europei si sono susseguiti dal ’98 quando ha inciso Next, seguito tre anni dopo da Don’t Get Me Started presentato anche al Festival di Newport. Nel 2005 è uscito Where The Mongoes Are (Appleseed Recordings), ma l’anno dopo Kate ha deciso di dedicarsi agli studi per diventare terapeuta infantile, ottenendo il diploma e lavorando per dieci anni in questo settore pur non tralasciando la musica. Ha continuato a scrivere con la partner Anne Lindley finchè nel 2020, durante la pandemia, è tornata in studio vicino a Woodstock per incidere Ballad Of A Bad Girl con musicisti di qualità (Jerry Marotta, Tony Levin). Tre anni dopo è la volta di Trapeze che comprende 14 tracce scritte tra il 2021 e il 2024 con l’eccezione di una traccia del 2012, la metà in coppia con la Lindley. Assistita alla produzione da Jimi Woodul che ha registrato il disco nel suo studio suonando vari strumenti (chitarra, tastiere, synth, percussioni), alla batteria dal vecchio collaboratore Sam Zucchini e al basso da James Gascoyne, Kate mantiene le sue caratteristiche di cantatutrice folk con venature rock e pop, più accentuate in questa occasione. Si alternano tempi lenti e più ritmati sempre con una forte vena melodica, cori accattivanti e un accompagnamento discreto in cui la chitarra ha un ruolo primario. Forse la sforbiciatura di un paio di brani avrebbe giovato all’ascolto, tuttavia la title track, ballata intima interpretata con intensità, la ritmata A Hard Heart, Come Over Here influenzata dalla scrittura e dal modo di cantare di Joan Baez, la trascinante Nowhere To Go, l’animata Fight For Your Life, Step Right Up con un testo contro il rischio della vendita indiscriminata delle armi e la sofferta Madeleine dimostrano le doti di autrice e di interprete di Kate.
La confezione in digipack del cd è molto curata e comprende i testi delle canzoni.

Paolo Baiotti

BIRDFEEDER – Woodstock

di Paolo Baiotti

9 luglio 2025

Birdfeeder_Woodstock_Cover

BIRDFEEDER
WOODSTOCK
Soul Selects 2024

Chris Harford, solista e membro fondamentale della indie-band 3 Colors, nei primi anni novanta si ritrova con l’amico Mark Mulcahy, batterista e cantante solista nonché anima dei Miracle Legion e poi dei Polaris. Entrambi dell’area di Boston, registrano dei demos che restano per un paio di decenni in cantina, finchè Chris li fa ascoltare a Kevin Salem, chitarrista e cantante, autore di Soma City nel ’94 seguito da altri due album da solista, dopo avere fatto parte dei Dumptruck e per un breve periodo dei Yo La Tengo. A causa di problemi di salute Kevin aveva messo da parte la carriera solista dedicandosi alla produzione e alla scrittura di colonne sonore, trasferendosi a Woodstock. Harford e Salem decidono di registrare alcuni di questi demos, aggiungendo un paio di brani nello studio del chitarrista che produce il disco o, meglio, il mini-album formato da otto brani per meno di mezzora, che ha come copertina una foto dello studio. Il nome Birdfeeder viene suggerito da Mark, voce solista in tutte le canzoni. Siamo in ambito indie-rock con venature pop, canzoni semplici arrangiate in modo essenziale e minimale, che hanno un loro fascino e una ragione d’essere, trattandosi di tre musicisti di valore.
Se l’apertura di Big Chairs And Candy ricorda i Wilco più rilassati anche nella voce, She Stood Up At The PTA ha una melodia azzeccata, come la beatlesiana My Cousin. Più vicine al rock il primo singolo So Triangular, pur essendo molto asciutto con qualche somiglianza con i fratelli Dickinson e la ritmata So It’s a Bomb, mentre il suono si ammorbidisce nuovamente in Born This Way (da apprezzare gli intrecci vocali tra Mark e Chris) e nell’acustica A Fairy Tale cantata parzialmente in falsetto. In chiusura l’unico demo invariato rispetto al nastro originale, la distorta e sperimentale Super Diamondaire, che non si amalgama con il resto del materiale.

Paolo Baiotti

ROSALBA GUASTELLA – Dharma

di Paolo Baiotti

3 luglio 2025

cover

ROSALBA GUASTELLA
DHARMA
Rubber Soul 2025

Terzo album solista per la cantautrice torinese Rosalba Guastella, in passato vocalist dell’ultima formazione dei No Strange. Dopo il folk-blues dai morbidi sapori psichedelici di matrice britannica dell’esordio My Little Songs, il successivo Grace si rivolgeva maggiormente verso la west coast di fine anni sessanta, l’epoca hippy del flower power con influenze orientali. Dharma si può leggere come una sintesi dei due dischi precedenti, con la voce dolce a tratti sussurrata di Rosalba avvolta da una maggiore incidenza strumentale della chitarra di Dario Lombardo e della tromba di Stefano Chiappo, con qualche altro intervento di rilievo.
Come sempre è da apprezzare la passione con la quale è curata la grafica del disco, pubblicato dalla Rubber Soul (emanazione dell’omonimo negozio torinese) per ora in un’edizione di cento copie numerate in vinile colorato (splatter arancio o blu) comprendente un inserto con i testi.
L’iniziale At Fillmore è una sintesi di influenze indiane e californiane con la voce che assume tonalità alla Grace Slick, strumenti indiani e mirati inserimenti della chitarra di Dario, seguita dal folk orientaleggiante di The Green Valley in cui spiccano le tastiere di Ludovico Ellena e il flauto di Guido Rossetti e dal folk gitano-californiano (se così si può dire) di Gipsy che richiama la vocalità di Patti Smith. Dopo Water, caratterizzata da un tappeto di tastiere e da giochi vocali di Rosalba, The Real Me chiude il primo lato mettendo in luce, dopo un breve momento vocale, una tromba evocativa che duetta con la chitarra. Si riparte con la minimale e spettrale Shape Of Waterfall che sfuma nella ritmata Over The Rain, prima traccia non scritta da Rosalba, ma da Marco Milanesio. Don’t Stay Away, composta da Claudio Belletti (musica) e Rosalba (testo) è lenta e rilassata, un esempio di psichedelia rarefatta, in cui si inseriscono i vocalizzi della cantante e la chitarra robusta di Stefano Danusso. La romantica ballata pianistica Julia opera di Rosario, padre di Rosalba che ne ha scritto il testo, sembra un po’ fuori contesto e precede la chiusura morbida e sussurrata di Radio, forse un po’ fragile.
Nel compesso Dharma è un album pregevole che necessita di essere assorbito con la giusta lentezza, con qualche carenza nella parte finale.
Il disco si può ascoltare e acquistare qui: https://rosalbaguastella.bandcamp.com/album/dharma

Paolo Baiotti

MICHAEL MENAGER – Line In The Water

di Paolo Baiotti

30 giugno 2025

menager

MICHAEL MENAGER
LINE IN THE WATER
Autoprodotto 2023

Californiano nativo dell’area est di Los Angeles, ha studiato nella Bay Area durante gli anni sessanta laureandosi in letteratura, appassionato sia di autori storici che degli scrittori della Beat Generation. Nello stesso periodo si è avvicinato alla musica folk e blues partendo da Mississippi John Hart e Gary Davis per arrivare a Dylan, Waits e Townes Van Zandt. Dopo avere vissuto in Algeria e a Parigi è tornato in California e quindi in Oregon dove ha lavorato in diversi settori, suonando nel tempo libero. Nell’87, dopo una delusione personale, si è trasferito in Australia adattandosi a diversi lavori, ma dedicandosi con maggiore attenzione alla musica. L’amico cantautore Heath Cullen lo ha convinto ad esordire in età matura nel 2014 con Clean Exit seguito due anni dopo da Not The Express, entrambi prodotti da Cullen, abbracciando uno stile country-blues con influenze folk e bluegrass, un pizzico di jazz e rock and roll, in sostanza quello che viene definito “Americana”. Dopo una lunga pausa torna con Line In The Water in cui si è affidato nuovamente all’australiano, autore nel 2020 del pregevole Springtime In The Heart per il quale si era spostato a Los Angeles dove era stato prodotto da Joe Henry. Registrato nel New South Wales durante la pandemia, il disco conferma la solida scrittura folk di Menager, arricchito nel suono dai tipici tocchi essenziali e minimali del produttore che ha suonato batteria, banjo, violino e mandolino (il nome della band di accompagnamento The Devil’s Creek Rounders è fittizio, sono tutti alter ego di Heath).
Menager ha una voce folk espressiva e avvolgente, anche quando narra invece di cantare come nella bluesata title track. Line In The Water comprende nove tracce autografe e una cover, partendo con il folk What Is It Really That i Need? caratterizzato da interventi mirati del violino e di chitarra acustica, seguito da High Water Ahead che richiama il suono minimale e cadenzato di Tom Waits e dal blues Baby, I Can Change.
Tutti i brani fanno la loro figura; dovendo scegliere citerei ancora la melodica Autumn Flood On Devil’s Creek in cui spicca un’elettrica incisiva e l’acustica e drammatica Just This. Il disco è chiuso dall’unica cover, Home di Heath Cullen, una ballata arrangiata con un violino di matrice irlandese.
Sulla pagina Bandcamp dell’artista sono reperibili i suoi tre album.

Paolo Baiotti

ASHLEY E. NORTON – Call Of The Void

di Paolo Baiotti

18 giugno 2025

Ashley-E-Norton

ASHLEY E NORTON
CALL OF THE VOID
Autoprodotto 2024

Ashley E Norton è nata a Boston, ma è californiana d’adozione, essendosi trasferita a Ramona nell’area di San Diego dopo un periodo passato in Arizona. Abbiamo scritto di lei alcuni anni fa quando, superata la pandemia, dopo avere fatto parte del duo indie/folk Whitheward, ha iniziato ad esibirsi in un altro duo con Stephanie Groot con il nome Lady Psychiatrist’s Booth pubblicando un ep e un album. Ora Ashley, che ha fatto parte di altri gruppi in passato (Delcoa, Ash & The Mondays, Dolly’s Revenge), si presenta da solista con un album registrato a Nashville prodotto da Johnny Garcia, chitarrista di Garth Brooks e Trisha Yearwood, accolto favorevolmente negli ambienti roots europei. Non è un disco country, bensì di Americana con venature country e pop che si adattano alla voce duttile e solida della cantante che ha scritto tutti i brani, alcuni con Garcia e Jimmy Mattingly, ad eccezione di una cover. Garcia ha suonato ogni strumento ad eccezione di violino e violoncello, lasciati a Mattingly (anche lui proveniente dalla band di Brooks).
L’apertura di America In Me lascia intendere le influenze tra roots e country di Ashley, mettendo in mostra la sua voce melodica un po’ alla Sheryl Crow e un accompagnamento essenziale in cui spicca la chitarra solista di Garcia. Le canzoni hanno una loro intensità, pur non tralasciando una certa leggerezza. Every Woman I Know è più dura e cadenzata, interpretata con tonalità più basse, mentre Baby Blue Jean ha un ritmo spezzato, venature country e una chitarra twangy. La cover di Going To California dei Led Zeppelin, che segue la ritmata title track, fa la sua figura anche se è diversa dal resto del repertorio, con gli archi piazzati al momento giusto. Proseguendo nell’ascolto emergono il roots-pop scorrevole di The Fortune Teller, in cui si apprezza l’apporto strumentale di Garcia, la bluesata I Only Think About You, il western-roots It Doesn’t Matter e la ballata Songbirds In The Stars posta in chiusura con un violino espressivo.
Pur denotando qualche incertezza nella scrittura, Call Of The Void è un esordio solista promettente.

Paolo Baiotti

WEST OF EDEN – Whitechapel

di Paolo Baiotti

9 giugno 2025

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WEST OF EDEN
WHITECHAPEL
West of Music 2024

In attività da quasi trent’anni con tredici album all’attivo, gli svedesi West Of Eden di Goteborg hanno quasi sempre cantato in inglese, fedeli ad una matrice folk celtica. Nel 2021 hanno pubblicato in svedese Taube, interpretando brani del cantautore locale Evert Taube, molto conosciuto in Svezia; l’anno dopo sono tornati all’inglese con Next Stop Christmas, secondo album natalizio del loro percorso dopo Another Celtic Christmas del 2016, seguito da lunghi tour nei paesi nordici, ripetuti ogni anno sotto le festività.
Punti di forza del gruppo sono la voce chiara e limpida della leader Jenny Shaub che suona anche il flauto e la fisarmonica e che ha una tonalità perfetta per il folk britannico che richiama Fairport Convention e Steeleye Span, coadiuvata dal fratello Martin Shaub alla voce, chitarra acustica, mandolino e tastiere; gli altri componenti sono Lars Broman al violino, Henning Serhede alla chitarra, lap steel e banjo, Martin Holmlund al basso e Ola Karlevo alla batteria, percussioni e bodhran.
Nei loro dischi hanno sempre curato le armonie vocali e il suono, nonché la grafica. Anche il nuovo album è un digipack in cd con un booklet che contiene i testi; inoltre ha la particolarità di essere un concept album in cui le canzoni hanno come soggetto le storie delle donne vittime di Jack lo squartatore, criminale che ha agito nell’Ottocento nel quartiere londinese di Whitechapel. Siamo quindi in pieno ambito di “murder ballads”, sviluppate con un’alternanza di suoni elettrici e acustici combinati con sapienza.
Tra i brani di un disco che scorre veloce senza momenti di stanca spiccano Whitechapel Blues che descrive il quartiere fungendo da introduzione, seguito dal folk-rock The Ten Bells (riferimento a un pub della zona associato a due vittime del killer) in cui Jenny canta e suona la fisarmonica, la notevole ballata Nothing profumata d’Irlanda e interpretata alla perfezione da Jenny, la robusta e trascinante Harry The Hawker cantata da Martin che richiama il suono dei migliori Waterboys con l’intervento del banjo di Ron Block (Union Station), la scorrevole Mudlarking, lo strumentale irish Dark Annie e la delicata We Will Never Be Afraid Again che chiude l’album con un testo di speranza per un futuro più sereno.

Paolo Baiotti

BOBBO BYRNES – Bobbo Byrnes

di Paolo Baiotti

3 giugno 2025

bobbo

BOBBO BYRNES
BOBBO BYRNES
Highway Five Records 2024

Abbiamo seguito con attenzione l’attività di questo artista negli ultimi anni, a partire da The Red Wheelbarrow, registrato a Nashville con l’aiuto di Ken Coomer (Uncle Tupelo, Wilco), proseguendo con il quarto album SeaGreenNumber5 più intimo e melodico e con October, inciso in solitudine durante un tour europeo nell’autunno del 2022 in due studi storici a Berlino (Hansa Studios) e Dublino (Windmill Lane Studios) con chitarra acustica, mandolino, e-bow e voce.
Con l’omonimo album dell’anno scorso Bobbo torna a una dimensione elettrica registrando con il suo trio The Fallen Stars, fondato quando si è trasferito da Boston nel sud della California, del quale fanno parte la moglie Tracy al basso e voce e il batterista Matt Froehlich, nei Wandering Sun Studios di Anaheim coadiuvato dal produttore David Nielsen. Questo è un disco rock nel cuore e nell’anima, ritmato e dinamico con chitarre taglienti e incisive che si esprimono maggiormente nell’opener Around Here, nella successiva I Cannot Say e nella graffiante Bad Decisions, pur non essendo trascurata la cura delle melodie nelle ballate Too Many Miles, Long Way Down e Chance dal sapore country, in cui Bobbo suona anche la pedal steel. Non mancano influenze pop nella scorrevole Never Learned To Fly, in Some Salvation cantata in coppia con la moglie e in Long Way Down, arrangiate con gusto e attenzione. I testi sono legati ad emozioni intime e personali, in particolare soffermandosi sul potere della musica come guarigione e redenzione.
L’unica cover è una deliziosa ripresa di Glad & Sorry di Ronnie Lane, incisa originariamente dai Faces su Ooh La La nel 1973, mentre la breve e sognante Not Lost chiude sobriamente un disco solido che conferma le qualità del suo autore.

Paolo Baiotti

TODD PARTRIDEGE – Desert Fox Blues

di Paolo Baiotti

23 maggio 2025

Todd-Partridge

TODD PARTRIDEGE
DESERT FOX BLUES
Autoprodotto 2024

Artista folk attualmente residente a Auburn nello Iowa e cresciuto in un ambiente rurale, Todd ha iniziato a suonare seriamente la chitarra a 18 anni. La famiglia si è spostata tra California, Oklahoma e Milwaukee, per tornare infine in Iowa. La sua prima band è stata The Black Light Syndrome, seguita da Salamagundi e da King Of The Tramps. Con questa formazione ha pubblicato 5 album in studio, il più recente Wild Water del 2018, che hanno ottenuto un discreto riscontro soprattutto nel Midwest. Negli ultimi anni si è dedicato principalmente all’attività solista dal vivo come “one man band”, alternando materiale del gruppo con cover e brani solisti che sono confluiti nell’album Autumn Never Knows del 2023. Più recentemente si è esibito con la nuova band The Whiskey Gospel. La sua musica è un mix di folk, blues e roots rock con qualche venatura country e gospel. Il padre suonava la tromba in un’orchestra ed era appassionato di jazz, ma lui si è formato sui dischi della madre, appassionata di rock. Dapprima si è dedicato all’hard rock, poi alla black music, tornano al blues e all’americana in tempi più recenti. È anche proprietario di uno studio di registrazione (Old School Studios) ad Auburn dove ha inciso i suoi dischi e ospitato artisti indipendenti.
Desert Fox Blues è un progetto che si distacca dal passato, trattandosi di un disco di blues inciso su un registratore a nastro d’epoca in due sessioni a Tucson in Arizona nello studio Dust And Stone, con Gabriel Sullivan alla produzione e l’uso della voce filtrata. Desert Fox Blues comprende dieci tracce autografe in cui Partridge è accompagnato da alcuni musicisti esperti scelti da Sullivan: Winston Watson (Bob Dylan, Alice Cooper, Giant Sand) alla batteria, Nick Agustine (Rainer and Das Combo) al basso e Tom Albanese di Chicago (Bo Ramsey, Willie Hayes Band) all’armonica. In seguito, è stato aggiunto Kent Burnside (nipote di R.L. Burnside) alla chitarra, registrato nello studio di Todd. Il disco mischia influenze desertiche, del Delta del Mississippi, Hill Country Blues, New Orleans e Chicago cercando un suono sporco e polveroso con poche sovraincisioni, per catturare lo spirito grezzo e irrequito del passato. Todd ha dichiarato: “Ci siamo trovati bene l’uno di fronte all’altro. Questo ha dato alla musica un’intimità, un’immediatezza. Abbiamo lasciato che fosse l’intuizione a prendere il sopravvento, non l’improvvisazione. I brani erano abbozzati, alcuni li abbiamo modificati, altri li abbiamo lasciati andare come venivano.”
Partendo con l’energica Depression guidata da un’espressiva armonica e finendo con il morbido country-blues After The Work Is Done in cui emerge la slide di Joe Novelli, Todd traccia un percorso che non ha punti deboli e mette in rilievo un “groove” trascinante come in Gotta Do e Interstellar Planetary. Se il rock-blues Keep On Keeping On è debitore dei Canned Heat, in Lost Your Shoe Blues spicca una chitarra abrasiva, mentre in Goin’ Home si nota un’armonica che si inserisce senza timori.

Paolo Baiotti

MICHAEL JOHNATHON – My Covers Volume One

di Paolo Baiotti

23 maggio 2025

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MICHAEL JOHNATHON
MY COVERS VOLUME ONE
PoetMan Records 2024

Artista eclettico ed estremamente prolifico, il newyorkese di nascita Michael Johnathon, che da tempo si è stabilito sulle colline alla base dei Monti Appalachi, dichiara di avere scritto più di 300 canzoni e di avere pubblicato 21 album. Ma non si limita a scrivere e cantare canzoni! Michael è drammaturgo, scrittore (è autore della serie Woodsongs di cinque libri e di una serie per bambini), compositore di opere teatrali, fondatore dell’associazione SongFarmers che si occupa di diritti degli artisti, animatore di un programma radiofonico per adulti (The Woodsongs Old-Time Radio Hour) e di uno per bambini (Woodsongs Kids). Dopo l’album Garden Of Silence del 2023, morbido e melodico, composto da dieci tracce originali e una cover di Pete Seeger, questa volta Johnathon ha scelto nove canzoni di artisti che ammira e che lo hanno influenzato, i suoi “compagni, nemici e amici” come li definisce nelle note di copertina. Trattandosi in parte di brani iconici, Michael ha scelto la strada rischiosa di arrangiarli in modo personale, come se li avesse scritti lui. Il tocco personale si sente e non guasta nella maggior parte dei casi, rendendo più interessante il disco rispetto a versioni copia/incolla.
Così il classico degli anni trenta Blue Moon è ripreso con una dolce chitarra acustica e tocchi di armonica di Ronn Crowder, Like a Rolling Stone è arricchita da archi e flauto mantenendone la linea melodica, Satisfaction assume una sorprendente veste elettroacustica (senza convincere), mentre Cats In The Cradle è caratterizzata da un’influenza folk britannica. Nel centro del disco vengono piazzate due canzoni di autori molto amati da Michael: If You Could Read My Mind di Gordon Lightfoot, essenziale nella sua veste acustica e Seeger Mashup, un rispettoso mix di Were Have All The Flowers Gone e Sailing Down My Golden River di Pete Seeger con il quale ha collaborato in passato, seguite da una Love Hurts ammorbidita rispetto alla famosa versione rock dei Nazareth. La ballata Make You Feel My Love di Dylan viene addolcita e sembra funzionare meglio di Like A Rolling Stone, mentre Vincent di Don McLean è vicina all’originale. Per terminare Michael inserisce una versione remixata del suo brano Legacy, un tributo agli artisti e ai dischi che lo hanno formato che comprende segmenti di canzoni altrui, title track di un album pubblicato nel 2020.

Paolo Baiotti

AL ROSE – Again The Beginner

di Paolo Baiotti

16 maggio 2025

al

AL ROSE
AGAIN THE BEGINNER
Monkey Holding Peach 2022

Non è certo un novellino Al Rose, che con Again The Beginner ha pubblicato il suo ottavo progetto solista avendo alle spalle buone recensioni e una discreta programmazione sulle radio di Americana. Se dal vivo alterna concerti da solo ad altri con The Transcendos, la sua band, in studio provilegia la dimensione elettrica. Ha studiato il flauto durante il periodo scolastico, poi si è dedicato alla chitarra, ma avendo come principale interesse quello della composizione e del canto. Così durante il periodo del college ha suonato nei caffè da solista e come leader dei Buffalo Trout nell’area di Chicago; in seguito ha formato The Transcendos. Alla sua maturazione ha giovato la collaborazione con l’esperto ingegnere del suono e produttore Blaise Barton (Liz Phair, Magic Slim & The Teardrops, John Primer), proprietario dei JoyRide Studios a Chicago; ha esordito da solista con Information Overload nel ’94, seguito da Naked In A Trailer e da Pigeon’s Throat nel 2000, proseguendo con altri quattro dischi fino a Spin Spin Dizzy del 2017.
Dopo una lunga pausa Again The Beginner è stato inciso sempre a Chicago con Blaise Barton in cabina di regia insieme a The Transcendos, che comprendono il bassista Steven Hashimoto, il chitarrista Steve Doyle, il batterista Lance Helgeson e il chitarrista Maury Smith, insieme da più di dieci anni,.
Tredici brani scritti da Al confermano il suo gusto per la melodia in chiave rock-pop, con venature country e folk. L’apertura di Don’t Know Why ha un riff rock trascinante che ricorda The Who circondato da un basso mosso abilmente, ma la title track è più vicina al folk melodico, mentre la successiva Any Fool Will Tell You cerca di mixare queste due tendenze. La voce di Al non è un punto di forza: non che sia brutta o priva di melodia anzi, però è carente di profondità e di originalità. Quanto alle canzoni sono discrete con dei testi di un certo interesse sociale e politico. Qualche punto in più lo meritano l’energica Shooting Straight, Smile Of Sorrow avvolta dagli archi, la cavalcata trascinante di Said & Done, la jazzata Tokyo Gypsy e le ballate d’impronta country All Of This Is Yours e Dignity & Grace poste in chiusura dell’album.

Paolo Baiotti

SURRENDER HILL – River Of Tears

di Paolo Baiotti

16 maggio 2025

surrender

SURRENDER HILL
RIVER OF TEARS
Blue Betty 2024

Robin Dean Salmon (voce, chitarra, B3 e dobro) e Afton Seekins (voce e percussioni) sono la coppia che ha formato il duo Surrender Hill dopo una serie di esperienze soliste. Robin Dean è cresciuto in Sud Africa ed è tornato in Texas nel ‘77 quando la famiglia, in contrasto con la politica di apartheid del paese, si è trasferita acquistando un ranch. Quindi ha assorbito la tradizione country locale mischiata con il punk di fine anni Settanta. Dopo un’esperienza rock con la Sony è tornato alle radici country; successivamente ha conosciuto Afton cresciuta tra l’Alaska e l’Arizona, passata attraverso un’esperienza di successo come coreografa, con la quale si è sposato. I due hanno esordito nel 2015 con l’omonimo album seguito da altri cinque dischi, il più recente Just Another Honky Tonk del 2022 che ha riaffermato la passione per il country classico con influenze pop e rock. Le due voci si compensano: entrambe melodiche e morbide al punto giusto, con venature soul. A differenza del passato le canzoni sono state scritte individualmente e hanno riferimenti personali legati alla famiglia e alla perdita di persone care.
Registrato nel Blue Betty Studio della coppia situato nella città di Ellijay in Georgia dove vivono, con Jonathan Callicutt e Mike Waldron alla chitarra, la sezione ritmica che li affianca anche dal vivo formata da Matt Crouse alla batteria e Drew Lawson al basso, il prezioso aiuto di Mike Daly alla pedal steel e al dobro nonché di Eric Fritsch, Kris Crunk e Kevin Thomas che si sono alternati alle tastiere, River Of Tears non si distacca dal precedente se non per qualche dose di rock in più in tracce come Palomino di stampo roots texano, Pining Over You in cui la voce di Robin ricorda Joe Ely e Rent Is Due. Nel complesso vengono sempre privilegiati i tempi lenti di ballate country, tra le quali spiccano River Of Tears con un testo relativo al loro rapporto personale, Get Out Of Your Way, la delicata In Our Time, il sofferto mid-tempo Cry Baby, la riflessiva End Of The Line indurita da una chitarra incisiva e Great Divide.
River Of Tears scorre piacevolmente ma, come già notato ascoltando un paio di loro dischi, una sforbiciata a tre o quattro tracce che si assomigliano troppo avrebbe giovato alla compattezza dell’album.

Paolo Baiotti

SON OF THE VELVET RAT – Ghost Ranch

di Paolo Baiotti

12 maggio 2025

SonofVelvet

SON OF THE VELVET RAT
GHOST RANCH
Fluff & Gravy 2024

Son of The Velvet Rat è l’alias scelto per l’avventura solista della coppia formata da Georg Altziebler e dalla moglie Heike Binder. La loro avventura musicale inizia nel 2003 con l’Ep Spare Some Sugar, seguito dall’album By My Side. Dopo un altro paio di dischi ai quali hanno collaborato Ken Coomer (Wilco) e Lucinda Williams, hanno deciso di spostarsi da Graz al deserto del Mojave in California nel 2013, dove si sono uniti alla comunità musicale di Joshua Tree e hanno inciso l’ottavo album in studio Dorado, prodotto da Joe Henry, seguito da un live e da Solitary Company che abbiamo recensito nel 2021, un disco in cui si mischiavano la tradizione cantautorale europea con quella nordamericana e con influenze desertiche, tra folk noir, rock, garage e Americana. Una sorta di ponte tra Europa e America, guidato dalla voce sussurrata e insinuante di Georg, che a tratti incrocia Leonard Cohen e Howe Gelb dei Giant Sand.
Queste sensazioni sono confermate da Ghost Ranch, registrato nuovamente negli studi Red Barn di Morongo Valley in California con la produzione dell’ingegnere del suono e chitarrista Gar Robertson. Si ripetono gli arrangiamenti eleganti e minimali dei precedenti, i curati controcanti di Heike con una strumentazione essenziale e atmosfere di stampo cinematografico e desertico mischiate con melodie mitteleuropee. In più questa volta c’è l’accompagnamento di una band di lusso che comprende nella maggior parte dei brani Jay Bellerose (batteria), Jennifer Condos (basso) e Marc Ribot (chitarra), oltre alla collaborazione della cantautrice folk Jolie Holland (ex The Be Good Tanias) alla voce e violino e di Tony Patler all’Hammond B3.
Ghost Ranch è un disco per chi ama i tempi lenti o al massimo quelli medi e le atmosfere raffinate e rarefatte, espresse in ballate come la struggente e melodica Are The Angels Pretty? in cui non manca un fondo di asprezza o The Waterlily And The Dragonfly (già incisa in passato in veste acustica) tra spruzzate di armonica, strofe sussurrate e una ritmica essenziale, nell’iniziale Bewildering Black & White Moments Captured On Trail Cams, mid-tempo introdotto da un’armonica languida, con una batteria secca e un incrocio di atmosfere europee e immagini cinematografiche, in Beautiful Day venata di psichedelia nel finale chitarristico dissonante, nell’avvolgente melodia di Southbound Plane o nel folk desertico di Rosary con il violino inquietante della Holland e la chitarra western di Ribot. Non mancano un paio di tracce ancora più intime registrate in solitudine da Georg e Heike in un disco affascinante ammantato di mistero, che si apprezza concedendogli la giusta attenzione.

Paolo Baiotti

LITTLE FEAT – Sam’s Place

di Paolo Baiotti

17 aprile 2025

sams

LITTLE FEAT
SAM’S PLACE
Hot Tomato 2024

I Little Feat hanno avuto due vite: la prima negli anni settanta fino allo scioglimento del ’79 che ha preceduto di poco la morte del leader Lowell George il 29 giugno, la seconda a partire dal 1987 quando Paul Barrere, Sam Clayton, Kenny Gradney, Richie Hayward e Bill Payne hanno deciso di riformare la band aggiungendo il cantante e chitarrista Craig Fuller e prosegue ancora oggi dopo qualche rimescolamento. Della line-up storica sono rimasti Clayton (voce, percussioni), Payne (tastiere e voce) e Gradney (basso e voce), affiancati da Fred Tackett (chitarra, mandolino e voce dall’87), Scott Sharrard (già con Gregg Allman, chitarra dal 2019) e Tony Leone (già con Chris Robinson, Phil Lesh e Levon Helm, batteria dal 2020).
Se è indubbio che la band californiana sarà ricordata soprattutto per la creatività del primo periodo con dischi come Dixie Chicken, Feats Don’t Fail Me Now e il monumentale doppio live Waiting For Columbus, anche nel secondo periodo ci sono stati dischi di buon livello come Let It Roll e Join The Band, ma il gruppo si è soprattutto dedicato ai tour suonando con continuità e pubblicando parecchi album dal vivo sull’etichetta di famiglia Hot Tomato nata nel 2002.
L’inserimento di Sharrard e Leone ha ridato nuova linfa alla formazione, che è tornata in studio a Memphis dopo 12 anni per incidere il primo disco interamente dedicato al blues con la particolarità di avere come vocalist principale Sam Clayton (da qui il titolo) dotato di una voce profonda, sporca e bluesata. Il risultato è decisamente positivo in quanto Sam’s Place è un disco spumeggiante, rilassato e suonato con gran classe, senza volere dimostrare chissà cosa, manifestando serietà e conoscenza della materia (non ne dubitavamo).
L’unica composizione autografa apre il disco: Milkman, scritta da Clayton, Tackett e Sharrard e dedicata al nipote del percussionista di professione lattaio è un mid-tempo scandito dai fiati di Marc Franklin e Art Edmaiston, con inserimenti del piano e delle due chitarre che si lasciano andare nel finale. Si prosegue con una trascinante You’ll Be Mine (Willie Dixon) e con una pregevole Long Distance Call del maestro Waters in cui si distinguono la slide di Scott e la voce languida di Bonnie Raitt che duetta con Clayton. L’up-tempo Don’t Go Further, il classico Can’t Be Satisfied in cui Sam gigioneggia alla voce mentre Scott infila un calibrato assolo di slide e lo slow Last Night di Walter Jacobs (Little Walter) in cui si aggiunge l’armonica di Michael LoBue caratterizzano la parte centrale del disco, prima di una virata verso New Orleans con Why People Like That di Bobby Charles irrorata dai fiati e dall’armonica. Si torna a Willie Dixon con una fluida e contagiosa Mellow Down Easy in cui scorrazzano le chitarre, per chiudere in modo un po’ prevedibile con Got My Mojo Working registrata dal vivo. Giudicato positivamente da critica e appassionati, il disco ha ottenuto la candidatura a un Grammy nella categoria “Best Traditional Blues Album”.
Tra pochi giorni i Little Feat dovrebbero pubblicare un nuovo album in studio, Strike Up The Band, il primo di materiale inedito dopo 13 anni! Il 5 maggio partiranno dal Vermont per un lungo tour che, con qualche pausa, terminerà in New Jersey a fine ottobre.

Paolo Baiotti

STEFANO DYLAN – The Rare Auld Times

di Paolo Baiotti

24 marzo 2025

stefano

STEFANO DYLAN
THE RARE AULD TIMES
EGN Label 2024

Torinese di nascita, ma irlandese d’adozione essendosi trasferito da parecchi anni nella zona di Limerick per motivi di lavoro e di famiglia, Stefano Dylan prosegue con sicurezza il suo percorso di cantautore in bilico tra folk e tradizione di matrice britannica. La musica è importante nella verde Irlanda, c’è ancora spazio per i musicisti folk e rock. Stefano è stato accolto con calore nella comunità musicale locale dove è possibile suonare nei pub o ristoranti anche se non si eseguono solo cover; questo gli ha consentito di crescere progressivamente, diventando un interprete sensibile come cantante e affinandosi come strumentista, specialmente con la chitarra acustica.
Dopo Ouroboros e Ballads From Home, pubblicato nel 2022, è il momento di The Rare Auld Times che, a differenza del precedente, alterna brani autografi a cover e brani tradizionali prevalentemente acustici. I riferimenti sono sempre gli stessi, cantautori storici e tradizionali di matrice anglosassone, con poche eccezioni.
Partendo dai brani autografi, spiccano There Ain’t No Heroes suonata con gli abituali collaboratori Alan Hogan al basso e Warren McStay alla batteria e al synth, scritta in memoria del fotografo irlandese Pierre Zakrzewski morto durante la guerra in Ucraina, con intrecci di chitarra acustica ed elettrica, la ballata folk Burst Of Love e l’assorta The Calmness Of Silence.
Venendo ai brani tradizionali segnalo la delicata Fair Flowers In The Valley in cui emergono la seconda voce di Karla Segade e il violino di River McGann, The Rare Auld Times scritta nel ’70 da Pete St. John per i Dublin City Ramblers e ripresa anche dai Dubliners in cui viene ricordata con nostalgia la Dublino del passato e The Fields Of Athenry dello stesso autore, un brano sulla tragica carestia irlandese dell’Ottocento diventato un anthem anche in campo sportivo in cui si apprezza il fingerpicking del musicista.
Bruce Cockburn è da sempre un riferimento per Stefano che riprende la dolente The Whole Night Sky da The Charity Of Night dell’86 intrecciando chitarra acustica ed elettrica, così come Allan Taylor del quale viene interpretata l’accorata ballata Come Home Safely To Me. Meritano una citazione anche lo scorrevole contry-folk Tumbleweed (Peter Rowan) e Blues Run The Game di Jackson C. Frank, già interpretata, tra gli altri, da artisti del calibro di Sandy Denny, Nick Drake, Mark Lanegan e Laura Marling.

Paolo Baiotti

THE DICTATORS – The Dictators

di Paolo Baiotti

25 febbraio 2025

dictators

THE DICTATORS
THE DICTATORS
Deko 2024

Storica band della scena underground di New York, considerati anticipatori del punk (o proto-punk come Stooges, MC5 e New York Dolls per citarne altri), si sono formati nel ’72 per iniziativa di Andy Shernoff (voce e basso) e Ross “The Boss” Friedman (chitarra solista), ai quali si è unito Scott “Top Ten” Kempner (chitarra ritmica). Questo trio è sempre stato l’anima della band, completata da Stu Boy King alla batteria poi sostituito da Richie Teeter. Nel ’75 si è aggiunto l’ex roadie Handsome Dick Manitoba alla voce, considerato “the secret weapon”, un personaggio della scena musicale della grande mela. Tre album incisi negli anni Settanta di livello notevole, prodotti da Sandy Pearlman e Murray Krugman (il team dei Blue Oyster Cult) sono stati promossi pigramente e ignorati o quasi dal pubblico, ma hanno avuto una notevole influenza su parecchi musicisti. La band si è sciolta alla fine degli anni Settanta riformandosi saltuariamente in alcune occasioni. Nel 2001 esce il quarto album D.F.F.D. seguito nel 2005 dal live Viva Dictators! con J.P. Patterson alla batteria in aggiunta a Manitoba e ai tre fondatori. Dissidi tra il cantante e Shernoff hanno portato a una separazione e alla nascita di The Dictators NYC con Manitoba, Ross e Patterson, un’esperienza durata tre anni con parecchie pause. Infine, nel 2020 Shernoff ha annunciato il ritorno della band con Kempner, Ross The Boss e Albert Bouchard, ex Blue Oyster Cult, alla batteria e voce. Questa formazione ha iniziato a preparare un disco, ma nell’aprile del 2021 Scott ha dovuto lasciare per gravi motivi di salute (purtroppo è mancato nel 2023). Con l’inserimento di Keith Roth (David Johansen, Earl Slick, Cherrie Currie) alla voce e chitarra ritmica si è quindi ripreso il lavoro che ha visto la pubblicazione qualche mese fa del nuovo album The Dictators.
Con Shernoff principale compositore e Roth voce solista in sette brani su dieci (Andy canta due brani, Albert uno), il quartetto sembra rivitalizzato, carico e pieno di energia. Nessun brano sopra i 4’, nessuna ballata, un disco sparato che scorre veloce nei suoi 32’ senza annoiare, confermando la caratura della formazione. L’ironica Let’s Get The Band Back Together è la traccia dalla quale è partita dal reunion, scritta e incisa in demo da Andy e registrata nel 2020 da Shernoff (voce solista), Ross, Scott e Albert, un rock pieno di adrenalina come la trascinante God Damn New York, l’altra canzone registrata da questo quartetto prima del ritiro di Kempner. La cover di Trasmaniacon MC dei Blue Oyster Cult è più dura dell’originale e regge adeguatamente il confronto, mentre tra le altre tracce si distinguono la robusta Secret Cow in cui Roth dimostra le sue doti vocali che richiamano le realtà underground della città, ribadite nella cadenzata All About You, nella dinamica Thank You And Have A Nice Day che dal vivo sarà sicuramente un’occasione di coinvolgere il pubblico e nella chiusura di Sweet Joey, dedicata all’amico Joey Ramone, presenza fissa ai concerti dei Dictators al club Coventry del Queens, come ha ricordato Andy.
Mick Jagger continua a cantare “It’s only rock and roll, but I like it”; i Dictators lo ribadiscono e noi siamo d’accordo con loro.

Paolo Baiotti