Archivio articoli per la categoria ‘Rock'n'Pop’

LITTLE FEAT – Sam’s Place

di Paolo Baiotti

17 aprile 2025

sams

LITTLE FEAT
SAM’S PLACE
Hot Tomato 2024

I Little Feat hanno avuto due vite: la prima negli anni settanta fino allo scioglimento del ’79 che ha preceduto di poco la morte del leader Lowell George il 29 giugno, la seconda a partire dal 1987 quando Paul Barrere, Sam Clayton, Kenny Gradney, Richie Hayward e Bill Payne hanno deciso di riformare la band aggiungendo il cantante e chitarrista Craig Fuller e prosegue ancora oggi dopo qualche rimescolamento. Della line-up storica sono rimasti Clayton (voce, percussioni), Payne (tastiere e voce) e Gradney (basso e voce), affiancati da Fred Tackett (chitarra, mandolino e voce dall’87), Scott Sharrard (già con Gregg Allman, chitarra dal 2019) e Tony Leone (già con Chris Robinson, Phil Lesh e Levon Helm, batteria dal 2020).
Se è indubbio che la band californiana sarà ricordata soprattutto per la creatività del primo periodo con dischi come Dixie Chicken, Feats Don’t Fail Me Now e il monumentale doppio live Waiting For Columbus, anche nel secondo periodo ci sono stati dischi di buon livello come Let It Roll e Join The Band, ma il gruppo si è soprattutto dedicato ai tour suonando con continuità e pubblicando parecchi album dal vivo sull’etichetta di famiglia Hot Tomato nata nel 2002.
L’inserimento di Sharrard e Leone ha ridato nuova linfa alla formazione, che è tornata in studio a Memphis dopo 12 anni per incidere il primo disco interamente dedicato al blues con la particolarità di avere come vocalist principale Sam Clayton (da qui il titolo) dotato di una voce profonda, sporca e bluesata. Il risultato è decisamente positivo in quanto Sam’s Place è un disco spumeggiante, rilassato e suonato con gran classe, senza volere dimostrare chissà cosa, manifestando serietà e conoscenza della materia (non ne dubitavamo).
L’unica composizione autografa apre il disco: Milkman, scritta da Clayton, Tackett e Sharrard e dedicata al nipote del percussionista di professione lattaio è un mid-tempo scandito dai fiati di Marc Franklin e Art Edmaiston, con inserimenti del piano e delle due chitarre che si lasciano andare nel finale. Si prosegue con una trascinante You’ll Be Mine (Willie Dixon) e con una pregevole Long Distance Call del maestro Waters in cui si distinguono la slide di Scott e la voce languida di Bonnie Raitt che duetta con Clayton. L’up-tempo Don’t Go Further, il classico Can’t Be Satisfied in cui Sam gigioneggia alla voce mentre Scott infila un calibrato assolo di slide e lo slow Last Night di Walter Jacobs (Little Walter) in cui si aggiunge l’armonica di Michael LoBue caratterizzano la parte centrale del disco, prima di una virata verso New Orleans con Why People Like That di Bobby Charles irrorata dai fiati e dall’armonica. Si torna a Willie Dixon con una fluida e contagiosa Mellow Down Easy in cui scorrazzano le chitarre, per chiudere in modo un po’ prevedibile con Got My Mojo Working registrata dal vivo. Giudicato positivamente da critica e appassionati, il disco ha ottenuto la candidatura a un Grammy nella categoria “Best Traditional Blues Album”.
Tra pochi giorni i Little Feat dovrebbero pubblicare un nuovo album in studio, Strike Up The Band, il primo di materiale inedito dopo 13 anni! Il 5 maggio partiranno dal Vermont per un lungo tour che, con qualche pausa, terminerà in New Jersey a fine ottobre.

Paolo Baiotti

STEFANO DYLAN – The Rare Auld Times

di Paolo Baiotti

24 marzo 2025

stefano

STEFANO DYLAN
THE RARE AULD TIMES
EGN Label 2024

Torinese di nascita, ma irlandese d’adozione essendosi trasferito da parecchi anni nella zona di Limerick per motivi di lavoro e di famiglia, Stefano Dylan prosegue con sicurezza il suo percorso di cantautore in bilico tra folk e tradizione di matrice britannica. La musica è importante nella verde Irlanda, c’è ancora spazio per i musicisti folk e rock. Stefano è stato accolto con calore nella comunità musicale locale dove è possibile suonare nei pub o ristoranti anche se non si eseguono solo cover; questo gli ha consentito di crescere progressivamente, diventando un interprete sensibile come cantante e affinandosi come strumentista, specialmente con la chitarra acustica.
Dopo Ouroboros e Ballads From Home, pubblicato nel 2022, è il momento di The Rare Auld Times che, a differenza del precedente, alterna brani autografi a cover e brani tradizionali prevalentemente acustici. I riferimenti sono sempre gli stessi, cantautori storici e tradizionali di matrice anglosassone, con poche eccezioni.
Partendo dai brani autografi, spiccano There Ain’t No Heroes suonata con gli abituali collaboratori Alan Hogan al basso e Warren McStay alla batteria e al synth, scritta in memoria del fotografo irlandese Pierre Zakrzewski morto durante la guerra in Ucraina, con intrecci di chitarra acustica ed elettrica, la ballata folk Burst Of Love e l’assorta The Calmness Of Silence.
Venendo ai brani tradizionali segnalo la delicata Fair Flowers In The Valley in cui emergono la seconda voce di Karla Segade e il violino di River McGann, The Rare Auld Times scritta nel ’70 da Pete St. John per i Dublin City Ramblers e ripresa anche dai Dubliners in cui viene ricordata con nostalgia la Dublino del passato e The Fields Of Athenry dello stesso autore, un brano sulla tragica carestia irlandese dell’Ottocento diventato un anthem anche in campo sportivo in cui si apprezza il fingerpicking del musicista.
Bruce Cockburn è da sempre un riferimento per Stefano che riprende la dolente The Whole Night Sky da The Charity Of Night dell’86 intrecciando chitarra acustica ed elettrica, così come Allan Taylor del quale viene interpretata l’accorata ballata Come Home Safely To Me. Meritano una citazione anche lo scorrevole contry-folk Tumbleweed (Peter Rowan) e Blues Run The Game di Jackson C. Frank, già interpretata, tra gli altri, da artisti del calibro di Sandy Denny, Nick Drake, Mark Lanegan e Laura Marling.

Paolo Baiotti

THE DICTATORS – The Dictators

di Paolo Baiotti

25 febbraio 2025

dictators

THE DICTATORS
THE DICTATORS
Deko 2024

Storica band della scena underground di New York, considerati anticipatori del punk (o proto-punk come Stooges, MC5 e New York Dolls per citarne altri), si sono formati nel ’72 per iniziativa di Andy Shernoff (voce e basso) e Ross “The Boss” Friedman (chitarra solista), ai quali si è unito Scott “Top Ten” Kempner (chitarra ritmica). Questo trio è sempre stato l’anima della band, completata da Stu Boy King alla batteria poi sostituito da Richie Teeter. Nel ’75 si è aggiunto l’ex roadie Handsome Dick Manitoba alla voce, considerato “the secret weapon”, un personaggio della scena musicale della grande mela. Tre album incisi negli anni Settanta di livello notevole, prodotti da Sandy Pearlman e Murray Krugman (il team dei Blue Oyster Cult) sono stati promossi pigramente e ignorati o quasi dal pubblico, ma hanno avuto una notevole influenza su parecchi musicisti. La band si è sciolta alla fine degli anni Settanta riformandosi saltuariamente in alcune occasioni. Nel 2001 esce il quarto album D.F.F.D. seguito nel 2005 dal live Viva Dictators! con J.P. Patterson alla batteria in aggiunta a Manitoba e ai tre fondatori. Dissidi tra il cantante e Shernoff hanno portato a una separazione e alla nascita di The Dictators NYC con Manitoba, Ross e Patterson, un’esperienza durata tre anni con parecchie pause. Infine, nel 2020 Shernoff ha annunciato il ritorno della band con Kempner, Ross The Boss e Albert Bouchard, ex Blue Oyster Cult, alla batteria e voce. Questa formazione ha iniziato a preparare un disco, ma nell’aprile del 2021 Scott ha dovuto lasciare per gravi motivi di salute (purtroppo è mancato nel 2023). Con l’inserimento di Keith Roth (David Johansen, Earl Slick, Cherrie Currie) alla voce e chitarra ritmica si è quindi ripreso il lavoro che ha visto la pubblicazione qualche mese fa del nuovo album The Dictators.
Con Shernoff principale compositore e Roth voce solista in sette brani su dieci (Andy canta due brani, Albert uno), il quartetto sembra rivitalizzato, carico e pieno di energia. Nessun brano sopra i 4’, nessuna ballata, un disco sparato che scorre veloce nei suoi 32’ senza annoiare, confermando la caratura della formazione. L’ironica Let’s Get The Band Back Together è la traccia dalla quale è partita dal reunion, scritta e incisa in demo da Andy e registrata nel 2020 da Shernoff (voce solista), Ross, Scott e Albert, un rock pieno di adrenalina come la trascinante God Damn New York, l’altra canzone registrata da questo quartetto prima del ritiro di Kempner. La cover di Trasmaniacon MC dei Blue Oyster Cult è più dura dell’originale e regge adeguatamente il confronto, mentre tra le altre tracce si distinguono la robusta Secret Cow in cui Roth dimostra le sue doti vocali che richiamano le realtà underground della città, ribadite nella cadenzata All About You, nella dinamica Thank You And Have A Nice Day che dal vivo sarà sicuramente un’occasione di coinvolgere il pubblico e nella chiusura di Sweet Joey, dedicata all’amico Joey Ramone, presenza fissa ai concerti dei Dictators al club Coventry del Queens, come ha ricordato Andy.
Mick Jagger continua a cantare “It’s only rock and roll, but I like it”; i Dictators lo ribadiscono e noi siamo d’accordo con loro.

Paolo Baiotti

MICHAEL SCHENKER – My Years With UFO

di Paolo Baiotti

22 febbraio 2025

michaelschenkermyyearsbetter

MICHAEL SCHENKER
MY YEARS WITH UFO
Edel/Ear Music 2024

È indiscutibile che il periodo trascorso dal chitarrista tedesco Michael Schenker con gli UFO durante gli anni ’70 sia stato uno dei più celebrati almeno in ambito hard rock. Michael aveva solo 18 anni quando nel ’73 fu assunto dalla band britannica che lo aveva ascoltato come chitarrista degli Scorpions dove militava dall’età di 15 anni (!) con il fratello maggiore Rudolf. Un talento esploso in giovane età che non conosceva l’inglese e che ha avuto sempre difficoltà a inserirsi “socialmente” con i colleghi della nuova band, ma che ha dato un contributo indispensabile agli anni migliori degli UFO in cui sono stati registrati dischi in studio come Phenomenon, Force It, No Heavy Petting, Lights Out e Obsession, nonché il seminale doppio live Strangers In The Night, pubblicato quando il lunatico chitarrista aveva già lasciato la band per dedicarsi a una carriera solista che, iniziata bene, è stata caratterizzata da alti e bassi dovuti al carattere e ai limiti del musicista sempre alla ricerca del cantante ideale. Michael torna con gli Ufo nel ’95, registra altri tre album in studio con loro, poi se ne va definitivamente.
Questo nuovo album con il quale intende celebrare i 50 anni della sua collaborazione con la band britannica riprendendo i principali brani del periodo con un bel gruppo di ospiti, può sembrare la classica nostalgica raschiatura del barile ed in effetti lo è. Ma non si può negare che il barile sia bello lucido e luminoso, anche se le nuove registrazioni non possono aggiungere nulla di essenziale a quanto già fatto negli anni giovanili e più creativi, con un cantante di gran classe come Phil Mogg. Se non altro Schenker si circonda di colleghi di alto livello, soprattutto di cantanti che rendono il giusto merito a un repertorio indiscutibilmente valido. Mi sarei aspettato un po’ di fantasia in più negli arrangiamenti che ricalcano sostanzialmente gli originali con qualche variazione nelle parti strumentali. La band di appoggio è formata dagli esperti Derek Sherinian alle tastiere (Dream Theater poi solista), Brian Tichy alla batteria (Pride & Glory, Whitesnake, Billy Idol, Dead Deasies) e Barry Sparks al basso (MSG, Dokken), ai quali si aggiungono gli ospiti. La produzione è curata dallo stesso chitarrista con Michael Voss che ha supervisionato le registrazioni.
Tra gli 11 brani scelti per l’occasione spiccano Natural Thing, che sembra scritta per Dee Snider (Twisted Sister), in cui Michael duetta con Joel Hoekstra (Whitesnake, Cher), una scorrevole Only You Can Rock Me con Roger Glover al basso e Joey Tempest (Europe) alla voce, il classico Doctor Doctor affidato alla voce di Joe Lynn Turner (Deep Purple, Rainbow) e alla potente batteria di Carmine Appice (Vanilla Fudge, Rod Stewart), una sontuosa Mother Mary con la potente voce di Erik Gronwall (Heat, Skid Row) e un intenso dialogo con la chitarra di Slash, This Kids affidata all’esperto Byff Byford (Saxon) con le tastiere di Sherinian in primo piano, la maestosa ballata Love To Love che vede impegnato l’inconfondibile Axl Rose dopo l’intro in crescendo di tastiere e chitarra e l’energica Lights Out assegnata al ruvido Jeff Scott Soto (Malmsteen, Axel Rudi Pell) con John Norum (Europe) alla seconda chitarra. Una citazione a parte la merita l’immancabile Rock Bottom, un vero tour de force per Michael impegnato in una cavalcata chitarristica nel break centrale dove ha sempre dato il meglio, sin dall’insuperabile versione di Strangers In The Night, mentre alla voce si disimpegna con qualche difficoltà il connazionale Kai Hansen (Helloween).
Probabilmente My Years With Ufo è un’aggiunta superflua alla corposa discografia del chitarrista di Sarstedt, se non per gli appassionati più fedeli, ma può servire anche come primo approccio per chi non sia familiare con gli UFO dei seventies.

Paolo Baiotti

AA.VV. – PETTY COUNTRY – A Country Music Celebration of Tom Petty

di Paolo Baiotti

14 febbraio 2025

petty

AUTORI VARI
PETTY COUNTRY – A COUNTRY MUSIC CELEBRATION OF TOM PETTY
Big Machine 2024

Sulla carta l’idea di un tributo di musicisti country alla musica di Tom Petty sembrava una buona idea. In fondo sullo sfondo del rock del musicista di Gainsville c’è sempre stata un’influenza country, specialmente se guardiamo agli anni della maturità, sia da solista che con i Mudcrutch, per non parlare della memorabile collaborazione con Johnny Cash negli American Recordings. Se aggiungiamo che il disco è stato autorizzato e supportato dalla famiglia e dagli Heartbreakers (Tench e Campbell hanno collaborato), nonché prodotto da George Drakoulias e Randall Poster che hanno lavorato con Petty, le premesse erano ottime. Ma il problema di questi tributi, specialmente se pubblicati da etichette di una certa dimensione, è la scelta degli artisti che si orienta, almeno in parte, su nomi conosciuti e seguiti da un pubblico generalista.
Così abbiamo interpretazioni che non aggiungono nulla a brani come Wildflowers (Thomas Rhett), Running Down A Dream (Luke Combs), American Girl (Dierks Bentley), You Wreck Me (George Strait), Free Fallin’ (The Cadillac Three) o Learning To Fly (Ely Young Band), anzi annullano quella sensazione di leggerezza e fragilità che è una delle caratteristiche di Tom Petty e delle sue splendide canzoni.
Tra le 20 esecuzioni non mancano momenti riusciti come l’energica I Should Have Known It di Chris Stapleton, la sommessa I Forgive It All di Jamey Johnson, una spedita Refugee di Wynonna Judd con Lainey Wilson, Angel Dream (No. 2) dell’impeccabile Willie Nelson con il figlio Lukas e Ways To Be Wicked, che Tom affidò ai Lone Justice, in cui Margo Price è affiancata da Mike Campbell. Anche i Midland con una potente e chitarristica Mary Jane’s Last Dance, Steve Earle con Yer So Bad e Marty Stuart con I Need To Know fanno la loro figura, mentre l’interpretazione più coraggiosa è sicuramente Don’t Come Around Here No More di Rhiannon Giddens affiancata dalla Silkroad Ensemble e da Benmont Tench.
In conclusione, Petty Country, pubblicato in cd e in doppio vinile anche colorato, è un disco alterno per i motivi sopra indicati e lascia l’impressione di un’occasione sfruttata solo in parte di interpretare non solo la musica, ma anche lo spirito di Tom e dei suoi Heartbreakers.

Paolo Baiotti

KEVIN KASTNING – Partitas, Book 1/Triple Helix (with Carl Clements & Soheil Peyghambari)

di Paolo Crazy Carnevale

13 febbraio 2025

Partitas, Book 1  - album cover

Kevin Kastning & Carl Clements – Partitas, Book 1 (Greydisc 2024)

Kevin Kastning, Carl Clements, Soheil Peyghambari – Triple Helix (Greydisc 2024)

Prolifico come pochi, Kevin Kastning è un chitarrista rispettato nel circuito jazz/fusion, laddove la fusione avviene con ogni genere di musica, ma in particolare con attenzione agli stilemi della musica classica, da camera in particolare visto che Kastning, diplomato alla Berklee School of Music e allievo di Pat Metheny, concentra la sua produzione – che ormai ha superato i cinquanta album – in progetti come solista come sparring partner in formazioni a due o tre elementi.
In questo caso, a condividere il disco con lui c’è Carl Clements, sassofonista, flautista e compositore del Massachusetts dalla multiforme carriera.
Non è la prima volta che i due s’incontrano in studio, si tratta del settimo disco insieme visto che la collaborazione è cominciata nel 2012 avevano prodotto il disco Dreaming As I Knew. Accolto con recensioni positive: “Insieme, – DPRP Magazine – scriveva la rivista olandese Kevin e Carl creano dolci escursioni di bellezza intrecciata che, come indicato in precedenza, pur avendo una qualità profondamente onirica in linea con il titolo dell’album, sono anche molto intricate nella costruzione.”
Senza contare i dischi in trio in cui i due collaborano col chitarrista magiaro Sandor Szabo.
Il nuovo disco mette sul piatto una serie di sette composizioni, tutte indicate col nome Partita, intesa come partitura, proprio come nella musica classica, con conseguente numerazione a seconda degli strumenti usati.
Kestning fa uso delle sue chitarre a più corde imbracciate verticalmente, talvolta di sua invenzione e con addirittura due manici, siano esse diciassette, diciotto, ventiquattro o addirittura trenta, con conseguenti effetti sonori; Clements vi ricama sopra con i suoi sax, soprano, tenore e contralto.
A pochi mesi di distanza è stato pubblicato, sempre da Greydisc un nuovo tassello delle visioni musicali di Kastning e Clements, stavolta in versione trio con l’aggiunta di Soheil Peyghambari, sassofonista e clarinettista iraniano, componente del Quartet Diminished, di cui ci siamo occupati recentemente.
L’inserimento di un altro artista e di un altro strumento ammorbidiscono il suono finale del connubio, Clements e Peyghambari scaldano l’atmosfera e l’ultimo tinteggia di oriente il tutto con atmosfere da mille e una notte.

Paolo Crazy Carnevale

Triple Helix - album cover

CHARLIE OVERBEY – In Good Company

di Paolo Baiotti

22 gennaio 2025

CHARLIE

CHARLIE OVERBEY
IN GOOD COMPANY
Autoprodotto 2024

Le buone compagnie servono sempre, specialmente se sei un musicista ed hai avuto la fortuna e la bravura di supportare artisti più conosciuti che ti hanno preso in simpatia. Charlie Overbey, californiano di Los Angeles da tempo residente in New Mexico, è legato alla tradizione musicale del sud trasmessa dai genitori appassionati di country più o meno classico. Come succede a molti adolescenti, ha rifiutato queste influenze appassionandosi al punk; poi è gradatamente tornato alle radici nel corso della sua carriera iniziata con la band cowpunk Custom Made Scare che ha firmato alla fine degli anni Novanta per la Side One Dummy, sciogliendosi prima di registrare un disco. Dopo esperienze di vario genere (compreso un anno in carcere) ha pubblicato l’Ep The California Kid nel 2015 e l’album Broken Arrow nel 2018, supportando artisti di diverso genere, tra i quali Blackberry Smoke, ZZ Top, Foo Fighters, Motorhead e David Allan Coe. Artista a 360° ha creato anche una linea di cappelli fatti a mano (Lone Hawk Hats) molto in voga tra i musicisti, a prezzi non alla portata di tutti che è la sua principale fonte di guadagno.
In Good Company è il terzo album da solista che, fedele al titolo, lo vede in compagnia di ospiti prestigiosi che lo affiancano senza peraltro togliergli la centralità nel progetto al quale apporta chitarra acustica, batteria e una voce solida che nei brani più vicini al country ricorda Waylon Jennings. Gli altri musicisti della band coinvolti nelle registrazioni sono Corey McCormick al basso e Kyle Tormey al piano. Il disco presenta una scaletta di dieci brani autografi scritti in periodi diversi e ha un tiro più vicino al roots-rock che al country, con un suono vigoroso.
Nell’opener Punk Rock Spy, un rock and roll stonesiano che si avvale di un’armonica abrasiva e della chitarra di Stuart Mathis, l’artista si descrive “The punk rock spy in the house of the honky tonk heaven” e dichiara “I got a punk rock heart but the punk and the honky go together”, una descrizione del suo modo di essere. Champagne, Cocaine, Cadillacs & Cash è un country-rock in cui collaborano Marcus King (tastiere e chitarra) e Jaimee Wyatt alla voce. Il mid-tempo rock Struck In This Town ricorda il New Jersey sound con una voce alla Southside Johnny e la chitarra di Chris Masterson (Son Volt, Steve Earle), mentre The Innocence evoca influenze springsteeniane non solo per la presenza di Nils Lofren (voce e chitarra), al quale si aggiunge Rami Jaffee (Wallflowers, Foo Fighters) alle tastiere. Non mancano un paio di ballate come Dear Captain venata di gospel con la slide di Johnny Stachella e il country Miss Me in cui spicca la pedal steel di Jon Graboff. Tra gli altri brani segnalerei l’accattivante roots-rock If We Ever Get Out con Charlie Starr (Blackberry Smoke) e l’intensa Life Of Rock & Roll, secondo singolo d’impronta southern con la chitarra di Duane Betts e la voce ai cori di Eddie Spaghetti, mentre la chiusura è affidata alla breve Two Minute Marvin, la traccia più country del disco.

Paolo Baiotti

LUCA & THE TAUTOLOGISTS – Poetry In The Mean-Time/Suddenly Last Summer

di Paolo Baiotti

19 gennaio 2025

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Non teme di esagerare Luca Andrea Crippa, cantautore e chitarrista lombardo che a un anno o poco più di distanza da Paris Airport ’77 (ne abbiamo scritto qui http://www.lateforthesky.org/2023/11/ ) si ripropone con un album e un ep pubblicati a breve distanza l’uno dall’altro, frutto di un periodo di evidente ispirazione in direzioni diverse. Infatti, i due dischi rappresentano aspetti distinti della scrittura di Luca: l’ep registrato a luglio al Niton Lab Studio di Varese privilegia tracce oscure, notturne e sognanti, canzoni d’amore curate nella produzione con qualche elemento di elettronica, mentre l’album inciso ad agosto al Trai Studio di Inzago è fresco, poetico e diretto con qualche oasi acustica e un suono roots. In entrambi i dischi, che si distaccano come già Paris Airport ’77 dal rock-blues di precedenti registrazioni dell’artista con Ruben Minuto, dal southern-rock dei Saturday Night Special e dall’alternative country dei No Rolling Back, Luca (voce, chitarre e lap steel) è accompagnato dalla brillante sezione ritmica di Deneb Bucella (batteria) e Paolo Roscio (basso).
Partendo da Poetry In The Mean-Time, la copertina (un pregevole disegno di Stefano Bonora) e l’album sono ispirati da una foto vintage di un incidente accaduto durante le riprese del film horror di culto “The Creature Of The Black Lagoon” con Julie Adams al quale è direttamente collegata la canzone Julie Hit Her Head, caratterizzata da un’intro strumentale funkeggiante, una voce sussurrata, un lavoro notevole di basso e batteria e numerosi cambi di ritmo. Tra gli altri brani emergono l’apertura melodica di Tall Building Shapes, l’accattivante Breakwaters Ballroom con una chitarra knopfleriana, My Friend’s Old Blues Still Rocks tra JJ Cale e Steely Dan, il nervoso strumentale Modern Galleries spruzzato di jazz-rock e la raffinata Our Magic Wand. La voce di Luca a tratti sembra mancare di un pizzico di energia, a differenza delle parti strumentali.

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Quanto a Suddently Last Summer, quattro brani nella versione digitale, sei in quella fisica su cd, apre la notturna e sommessa At The Movies che sfocia in un riuscito assolo di chitarra, seguita dalla lenta Mystery…The Greatest, traccia sognante spruzzata di elettronica. Tra prog e fusion si prosegue con Different Paths e Night Green, per giungere all’orientaleggiante Indian Summer che precede la chiusura mossa di They’re Landin’ In Hawaii, venata di prog nel fulgido finale chitarristico.

Paolo Baiotti

CHRIS ZEK BAND – Agarthi

di Paolo Baiotti

30 dicembre 2024

Chris_Zek_Band_Agarthi

CHRIS ZEK BAND
AGARTHI
Autoprodotto 2024

La Chris Zek Band (o C. Zek Band) è attiva dall’ultimo trimestre del 2015 quando, sulle ceneri del trio blues Almost Blue il cantante, compositore e chitarrista veronese Christian Zecchin ha deciso di formare una band rock-blues con venature soul, funky e hard. Set You Free è l’esordio del 2017 con la voce femminile di Roberta Della Valle, Samsara il secondo album del 2020 con l’entrata alla batteria di Enea, fratello di Christian, che completa la sezione ritmica insieme al bassista Nicola Rossin, mentre le tastiere (principalmente organo Hammond e Wurlitzer) sono affidate alle capaci mani di Matteo Bertaiola. Samsara amplia i riferimenti del quartetto aggiungendo venature jazz, un gusto per la jam e dando maggiore spazio della voce solista maschile. Dopo quattro anni è il momento di Agarthi, definito “un viaggio nel passato, come una sorta di macchina del tempo che ti riporta in quelle terre di oltre Oceano dove le lunghe cavalcate chitarristiche, infarcite di sognanti jam, erano la costante per viaggi sonori rimasti vivi nel tempo, contaminati dal blues e dall’hard rock britannico degli albori, in lunghe e ammalianti atmosfere”. Insieme a Christian e a Matteo che disegnano le coordinate sonore del gruppo, è rimasto Enea mentre il basso è stato affidato a Elia Pasqualin. Il disco è composto da sette brani di Christian, unica voce solista, tra i quali lo strumentale Agarthi è il più significativo, una traccia scorrevole e onirica destinata ad espandersi in concerto, influenzata dal latin-rock di Santana dei primi anni Settanta, dagli Allman Brothers e dal jazz-rock, soprattutto nel suono delle tastiere che fanno da contrappunto alla liquida chitarra solista. Una slide insinuante e il synth caratterizzano il groove accattivante dell’apertura bluesata di Feel Like In Mississippi, indurita nel break chitarristico, mentre nella scanzonata Way Back Home si notano influenze southern tra Little Feat e Allman Brothers e nel sognante soul-blues Baby Blue accenti psichedelici e tastiere doorsiane. Anche laddove dal punto di vista composivo si possono evidenziare delle lacune, sono compensate dalle parti strumentali di ottimo livello. In chiusura il raffinato e notturno slow Whispering Blues impreziosito da una morbida slide, riafferma le doti del quartetto veronese.

Paolo Baiotti

QUARTET DIMINISHED – Deerand

di Paolo Crazy Carnevale

26 dicembre 2024

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QUARTET DIMINISHED – Deerand (Moonjune Records 2024)

Questa nuova proposta della Moonjune Records viene da lontano, come spesso è accaduto anche in passato per le produzioni di questa etichetta, la cui caratteristica, è di pescare non solo tra i talenti europei ed americani di quello che un tempo si definiva come jazz-rock, bensì di esplorare sonorità provenienti da paesi meno avvezzi a questi territori musicali. Dal Sudamerica all’estremo oriente, alla più vicina Turchia. Stavolta, con il cosiddetto quartetto diminuito del chitarrista Ehsan Sadigh, la Moonjune approda in Iran, o meglio, nell’antica Persia, visto che il titolo dell’album (doppio LP o singolo CD), Deerand, proviene da un termine persiano riferito alla durata dei toni di uno strumento musicale.
Il disco si compone di quattro brani, il cui fulcro è la lunga suite in quattro parti da cui il disco prende il titolo e che si snoda per ben venticinque minuti: Shadig è accompagnato dal pianista Mazyar Younesi, Soheil Peghambari si occupa dei fiati e alla batteria c’è Rouzbeh Fadavi.
Quattro sono i movimenti della suite in questione e si snodano tra parti introspettive, come l’inizio pianistico, e altri momenti più corali e ritmati in cui la fusione tra sonorità moderne ed elementi vagamente tradizionali diventa un autentico punto di forza, con la chitarra del leader che guida con sicurezza il quartetto verso un finale che suona come una sorta di bolero. Indubbiamente, con la composizione finale il brano più importante del disco.
Segue il brano Tehran II, seguito di una composizione apparsa altrove nella discografia del gruppo, qui la struttura è più dadaista, con la presenza dei paesaggi sonori orditi da Markus Reuter, artista fin troppo presente nelle pubblicazioni della Moonjune e forse sopravvalutato.
In Mirror Side, il brano più breve – comunque oltre i sei minuti – c’è il contrabbasso di Tony Levin, ospite che ritroviamo poi nella composizione finale, Allegro per il re: l’introduzione è anche qui giocata sul pianoforte, poi gli strumenti si alternano, Levin usa qui lo stick, e la struttura si evolve con un crescendo in cui fanno più volte capolino i richiami alla musica mediorientale e persiana.

Paolo Crazy Carnevale

MARK WINGFIELD – The Gathering

di Paolo Crazy Carnevale

26 dicembre 2024

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MARK WINGFIELD – The Gathering (Moonjune Records 2024)

Tra le pubblicazioni recenti di casa Moonjune, spicca questo nuovo disco del chitarrista inglese Mark Wingfield, da lungo tempo affiliato dell’etichetta ispanica (ma già newyorchese). Wingfield ha sempre mantenuto una qualità costante nei suoi lavori, sia in quelli solisti che in quelli come co-titolare di progetti, inclusi i moltissimi in coppia con Kevin Kastning su label Grey Disc.
Anche in questa nuova produzione, firmata da Leonardo Pavkovic, viene ripetuta la ricetta collaudata di una prog-fusion efficace, scorrevole, fluida.
Ad accompagnare il chitarrista dal ricco pedigree, troviamo alcuni dei nomi più in voga nelle produzioni Moonjune: tutto il disco è eseguito in trio con Asaf Sirkis alla batteria e Gary Husband alle tastiere e ad un rinforzo di percussioni in tre brani. Per completare la formazione due autentici assi del basso si dividono a metà il lavoro: Tony Levin e Percy Jones che insieme possono sfoggiare un who is who di amicizie musicali di rara ricchezza nel panorama jazz-rock internazionale.
Dieci sono le composizioni messe in fila per quest’album che traspira di atmosfere collaudatissime dovute al fatto che questi artisti si sono già incontrati (spesso talvolta) in altri progetti (pensiamo a Husband e Levin che condividono l’esperienza degli Stickmen, il cui Owari è uno dei fiori all’occhiello delle produzioni di Pavkovic).
Dall’inizio quasi pastorale di The Corkscrew Tower alla similare Cinnamon Bird che chiude il disco, le composizioni scorrono convincenti senza mai durare eccessivamente, passando dal prog jazzato di Stormlight alle dissonanze di A Fleeting Glance costruite sul dialogo tra Wingfield e Jones, fino ai suoni struggenti della sei corde che dominano Pursued In The Snow e ai ritmi vagamente latin jazz di The Listening Trees.

Paolo Crazy Carnevale

LUCA CALABRESE – I Shin Den Shin

di Paolo Crazy Carnevale

26 dicembre 2024

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LUCA CALABRESE – I Shin Den Shin (Moonjune Records 2024)

Nonostante la lunga gavetta e le numerose esperienze del titolare nell’ambito della musica che conta, questo suo lavoro per la Moonjune Records non riesce davvero a convincere.
Calabrese, il cui approccio alla musica risale addirittura agli anni Settanta, dapprima in formazioni bandistiche della zona del Piemonte di cui è originario, poi frequentando il conservatorio, ha maturato esperienza suonando con big band mainstream che lavoravano in ambito televisivo.
Di pari passo ha però coltivato una passione per il jazz e l’improvvisazione, venendo a mano a mano in contatto con musicisti importanti con cui ha calcato plachi e frequentato sale d’incisione, parliamo di Keith Tippett, Peter Hammill, Pat Mastellotto, Cecil Taylor, Richard Barbieri.
Proprio con Barbieri (Japan, Porcupine Tree) e con l’ensemble svedese Isildurs Bane ha avuto modo di lavorare molto negli ultimi anni: col gruppo svedese ha messo in cantiere dischi che hanno coinvolto anche Steve Hogarth (Marillion) e Peter Hammill (Van Der Graaf Generator).
Per questo suo lavoro solista, Calabrese si è affidato alla produzione e alla direzione artistica del sopravvalutato Markus Reuter, coniugatore di sound elettronici e paesaggi sonori, sempre molto noiosi e ripetitivi, molto ambient e sterili. D’altronde uno che in venticinque anni se ne esce con quasi novanta dischi – tra quelli condivisi e quelli a proprio nome – è un genio o è uno che si ripete. E Reuter non è un genio.
L’ascolto del disco, come quello di altre produzioni su cui Reuter mette mano, è un po’ come la visione di un film in cui non accade mai nulla: peccato, perché l’elettronica ammazza il suono della piccola tromba suonata da Calabrese (a tratti sulle orme di Mark Isham) e soprattutto sopraffà le chitarre elettriche di Mark Wingfield e del vietnamita Nguyen Le.
Dalla noia quasi assoluta si salvano alcuni momenti dei brani A New Reality e Heart To Heart, il cui titolo è un po’ la traduzione del titolo giapponese dato all’intero album (uscito sia in CD che in vinile), le cui radici stanno nel confucianesimo e nel buddhismo, e nei concetti di empatia e sentimenti condivisi. Peccato, perché in questo disco di empatico sembra non esserci nulla.

Paolo Crazy Carnevale

BELEDO – Flotando En El Vacio

di Paolo Crazy Carnevale

22 dicembre 2024

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BELEDO – Flotando en el vacio (Moonjune 2024)

Il chitarrista uruguayano Beledo è indubbiamente una delle teste di serie della label guidata da Leonardo Pavcocich, Flotando en el vacio è il suo terzo disco su Moonjune Records e anche stavolta l’artista non delude.
Contando sulla magica e familiare atmosfera della Casa Murada, l’edificio a ovest di Barcellona, costruito nel XIX secolo e trasformato da Pavcovich in un moderno e attrezzato studio di registrazione in cui nascono molte delle produzioni di casa Moonjune.
Beledo, ugualmente abile sia quando imbraccia la chitarra, sia quando siede al piano, si fa qui accompagnare da un trio di esperti musicisti composto da Asaf Sirkis (a sua volta titolare di dischi a proprio nome per la medesima etichetta, nonché batterista dell’attuale versione dei Soft Machine), dal bassista Charles Benavent e dal flautista Jorge Pardo. Questi ultimi due già impegnati in passato al seguito di Paco De Lucia e di Chick Corea.
Il risultato è un disco di quel che una volta si definiva jazz-rock, ma che da parecchi anni è appellato fusion: un disco ispirato e fluido in cui le composizioni si liberano e scorrono senza intoppi, all’insegna dell’affiatamento che evidentemente lega i quattro artisti.
La stoffa di Beledo e del disco si percepiscono fin dall’inizio, quando il brano Djelem Djelem, dopo una lenta introduzione decolla districandosi in un tema che mescola influenze balcaniche e ispaniche, comunque all’insegna di un’influenza moresca dettata dalla musica mediorientale che ha influenzato entrambe le culture. Si prosegue con Rauleando, poi arriva l’esplosione di De tardecita, lunga ed elaborata composizione in cui Beledo si scatena alla chitarra lasciando il piano elettrico all’ospite di riguardo Gary Husband, il cui pedigree che va da Allan Holdsworth a Billy Cobham parla da sé.
Non sono da meno i dieci minuti della title track, qui il piano è suonato dal titolare che sfoggia uno stile differente, mentre Pardo è protagonista di molti interventi al flauto. Es Prohibeix Blasfemar gioca sui dialoghi tra Beledo e il bassista e vede di nuovo ospite Husband. Candombesque sfoggia antenati prog, Pardo passa dal flauto al sax e ci sono le percussioni di Ramon Echegaray, From Within’ a dispetto dell’essere l’unico brano dal titolo in inglese naviga sulle note di un latin jazz piacevole prima che il disco si concluda con la lunga cavalcata improvvisata di Rodeados, il brano più complesso della raccolta.

Paolo Crazy Carnevale

BLUES FACTORY – III

di Paolo Baiotti

22 dicembre 2024

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BLUES FACTORY (feat. Fabio Drusin)
III
Artesuono 2024

Registrato in presa diretta a Udine nello studio Artesuono di Stefano Amerio, il terzo album del power trio Blues Factory guidato dal cantante e chitarrista Cristian Oitzinger accompagnato dalla batteria di Daniele Clauderotti si avvale della preziosa collaborazione al basso, voce e armonica nonché agli arrangiamenti di Fabio Drusin, uno dei migliori musicisti italiani di rock-blues, già anima del trio friulano dei W.I.N.D., dal 2008 bassista di Alvin Youngblood Hart e più recentemente anche di Gwyn Ashton. Fabio è salito più volte sul palco con i Gov’t Mule, Billy Gibbons, i Supersonic Blues Machine e ha collaborato con il compianto Johnny Neel (Allman Brothers Band). In questa occasione partecipa con la sua esperienza a un disco potente, ruvido e grintoso di rock-blues che indubbiamente si posiziona sulla scia di gruppi storici come Free e Cream e più recenti come i Gov’t Mule o gli stessi W.I.N.D., avvalendosi della voce solida e sporca di Cristian e delle sue notevoli doti di chitarrista che gli hanno consentito in passato di aprire concerti di musicisti del calibro di Ian Paice, Billy Gibbons ed Eric Sardinas.
Gli otto brani del disco sono tutti scritti da Oitzinger che dimostra di saperci fare a partire dalla ruvida Mountain Man, il brano più personale dedicato al padre Giovanni, definito come un uomo di montagna che sembrava difficile da capire e burbero per alcuni, ma che nascondeva nel profondo una sensibilità e un amore per la sua terra e la famiglia, come spesso succede ai montanari. Tra le altre tracce segnalerei la gagliarda e cadenzata apertura di Unhappy Girl, introdotta da un basso pulsante che richiama i Gov’t Mule, il rock ritmato di Rolling Man influenzato dai Free, la ballata Time To Make Mistake profumata di oriente e la pulsante What You Wanna Do cantata da Fabio con interventi puntuali dell’armonica e della slide di Cristian nella jammata coda strumentale. Il disco è chiuso dalla briosa Music Satisfy My Soul con intro gospel e uno sviluppo bluesato in cui si inseriscono le voci del Nuvoices Project arrangiate e dirette da Rudy Fantin che suona Hammond e Wurlitzer, mentre la chitarra solista richiama gli ZZ Top e i Mule.
III non è un disco innovativo, questo è evidente, ma merita di essere ascoltato e sicuramente non deluderà gli appassionati di un genere che continua ad avere un seguito non irrilevante, soprattutto in Germania e Scandinavia.

Paolo Baiotti

THOM CHACON – Lonely Songs For Wounded Souls

di Paolo Baiotti

8 dicembre 2024

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THOM CHACON
LONELY SONGS FOR WOUNDED SOULS
New Shot Records 2024

Cantautore di Durango, Colorado, nella grande tradizione americana di Bob Dylan, Townes Van Zandt e Bruce Springsteen, Thom è un artista di frontiera. Non è il primo e non sarà l’ultimo a cantarla; di sicuro è influenzato dai drammi di confine tra Stati Uniti e Messico e dal problema dell’immigrazione che lo riguarda da vicino, avendo un padre messicano cugino di un famoso pugile e una madre libanese. Qualche anno fa, quando era sconosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati locali, Paolo Carù e il Buscadero lo hanno promosso in Italia come ricorda con affetto Thom nelle note che accompagnano questo disco, inciso dal vivo a Castel Roncolo (BZ) nel 2021 con Tony Garnier (Bob Dylan) al contrabbasso e Paolo Ercoli al dobro e pedal steel e pubblicato dalla nostrana New Shot Records. Chacon ha esordito nel 2003, ma il suo nome ha iniziato a circolare nel 2012 con l’album omonimo per la Pie Records, ottenendo maggiori attenzioni con Blood In The Usa pubblicato anche in Italia dalla Appaloosa nel 2018 e con Marigolds And Ghosts del 2021. Da questi tra album sono tratte le “canzoni solitarie per anime ferite” del disco: tracce semplici, essenziali, arrangiate in modo minimale senza grandi aggiunte strumentali, come da scelta stilistica dell’autore che vuole focalizzare l’attenzione sulla scrittura e sui testi. Come ha dichiarato Mary Gauthier “la musica di Thom è semplice, ma non scambiate questo per una mancanza di profondità. Scrivere in modo semplice è la cosa più difficile. E sempre la migliore”. La voce rauca ma allo stesso tempo melodica in certi momenti assomiglia a quella di Ryan Bingham, cresciuto tra New Mexico e Texas, accomunato a Chacon dalla barba e dalla partecipazione a film e serie tv.
Tra i brani suonati a Castel Roncolo emergono nella prima parte l’apertura drammatica di Borderland, la mossa Church Of The Great Outdoors che racconta la sensazione di pace che la natura (fiume e boschi) danno all’autore, la riflessiva ballata Sorrow che descrive il suo rapporto con la religione, Grant Country Side in cui viene ricordata la figura del nonno, sceriffo a Culver City in New Mexico nell’800 ai tempi di Billy The Kid e la poetica Something My Heart Can Only Knows. Nella seconda parte spiccano la dylaniana Marigolds And Ghosts, la dolente Empty Pockets sulle sofferenze di un contadino ostaggio di una terra ostile in cui è coinvolto anche il violino di Michele Gazich, la ballata Juarez, Mexico e I Am An Immigrant sulle speranze di un immigrato clandestino messicano che ha lasciato la famiglia nel suo paese, che precede la chiusura della springsteeniana Union Town. Con Chacon alla chitarra acustica e armonica, Paolo Ercoli e Tony Garnier svolgono egregiamente il loro compito fornendo un apporto tanto discreto quanto essenziale alla riuscita del disco. Complimenti alla New Shot Records anche per la qualità del suono e per l’accurata grafica.

Paolo Baiotti

PAUL DI’ANNO (1958-2024): Death Of A Metal Fighter

di Paolo Baiotti

22 ottobre 2024

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Nato nel 1958 a Chingford nell’Essex a pochi chilometri da Londra da un padre brasiliano e una madre inglese, Paul Andrews ha trascorso l’adolescenza suonando in gruppi rock e lavorando come cuoco e macellaio. Nel novembre del ’78 il batterista Doug Sampson lo segnala a Steve Harris; i due stanno cercando un cantante per gli Iron Maiden, una band di hard rock ancora sconosciuta e senza contratto. Paul, che aveva adottato il nome d’arte Di’Anno, viene assunto e completa il gruppo che aveva alla chitarra Dave Murray. Il sorprendente successo dell’Ep The Soundhouse Tapes, stampato originariamente in 5.000 copie e venduto quasi esclusivamente per corrispondenza nel periodo di maggiore successo del punk, li espone a una notevole pubblicità sulla rivista Sounds e attira l’attenzione di Rod Smallwood, già manager di Steve Harley che li contatta, diventa il loro manager e ottiene un contratto con la EMI nel decembre del ’79. Alla band si unisce il secondo chitarrista Dennis Stratton, mentre Clive Burr sostituisce Sampson per motivi di salute. Questo quintetto incide due brani per la seminale raccolta Metal For Muthas e il 14 aprile pubblica l’omonimo storico esordio. La voce di Paul, rauca e ruvida e il suo atteggiamento punk sono uno dei motivi del successo del disco, oltre alla notevole capacità strumentale dei colleghi e al livello elevato di scrittura. Prodotto da Will Malone, che la band ha criticato per la scarsa partecipazione alle incisioni durate un paio di settimane, il disco è accolto con favore dalla critica e con entusiasmo dal pubblico salendo al quarto posto in Gran Bretagna e nella top ten in Francia. Brani aspri e diretti come la title track, Charlotte The Harlot e Prowler si alternano alle ballate sulfuree Remember Tomorrow e Strangeworld e alla struttura complessa dell’epica Phantom Of The Opera e dello strumentale Transylvanya. Il timbro granuloso di Paul di adatta in modo sorprendente alle ballate e convince anche dal vivo come dimostra l’Ep Maiden Japan registrato a Nagoya nel maggio ’81 durante il tour del secondo album Killers che, pubblicato nel febbraio ’81, ottiene un successo inferiore in patria, ma amplia notevolmente la popolarità della band in Europa e negli Stati Uniti. Paul se la cava egregiamente anche in questo caso, specialmente nella dura Wratchild, nell’oscura title track e in Drifters, ma qualcosa si rompe nei rapporti personali con Harris, leader incontrastato del quintetto, durante l’interminabile tour di presentazione del disco; alla fine il cantante viene licenziato e sostituito da Bruce Dickinson, proveniente dai Samson. Ci sono diverse versioni sulla fine del rapporto: l’abuso di alcool e droga ammesso dallo stesso cantante, la sua incapacità di reggere la pressione dei tour, l’atteggiamento sul palco e l’immagine troppo punk.

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La storia di successo di Paul sostanziamente finisce qui; si brucia in tre anni determinanti per la rinascità del metal inglese e per la creazione della base del successo planetario degli Iron Maiden, che esploderà con The Number Of The Beast, primo disco con Dickinson. Non che Paul si ritiri, ma i suoi progetti solisti o di gruppo non riescono mai ad emergere. Ci prova con la band Di’Anno che pubblica un album, con il supergruppo Gosmagog organizzato da Jonathan King senza esito nell’85, con i Battlezone e i Killers; la mancanza di un management solido, l’incapacità di gestione, un’assenza di continuità e i problemi di dipendenza danneggiano ogni progetto. Il disordine della sua vita è confermato dai cinque matrimoni e dai sei figli.

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Nel nuovo millennio si trasferisce per qualche anno in Brasile dove forma una band con musicisti locali; nel 2008 invece si unisce a musicisti norvegesi girando parecchio in Scandinavia. Il pubblico lo segue soprattutto quando suona i brani dei due dischi degli Iron Maiden…c’è poco da fare, il materiale solista passa sempre in secondo piano. Nel 2010 pubblica l’autobiografia The Beast, aspra e sincera, l’anno dopo passa un paio di mesi in carcere in Gran Bretagna per truffa, poi riprende a suonare dal vivo con regolarità, anche perché è l’unica fonte di sostentamente non avendo un solido contratto discografico. Nel 2015 si aggravano vari problemi fisici e deve interrompere l’attività per qualche mese. Nel 2020 annuncia il ritiro dalle scene, tuttavia, dopo il periodo della pandemia, torna a cantare sporadicamente in sedia a rotelle; grazie a una raccolta di fondi e all’aiuto degli Iron Maiden viene operato a un ginocchio in Croazia, ma problematiche di vario genere (anca, diabete, ernia ombelicale) lo costringono al ritiro definitivo. Conquest Records, l’attuale casa discografica che ha appena pubblicato il cd/dvd The Book Of The Beast, un riassunto della sua turbolenta carriera, ha annunciato il 21 ottobre il decesso del cantante a Salisbury, per motivi non precisati.

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Pur essendo passati più di quarant’anni dall’esordio con gli Iron Maiden, gli appassionati non hanno dimenticato la voce aspra e l’immagine potente e ruvida del cantante che ha caratterizzato due dischi storici che molti considerano i migliori della leggendaria band britannica.

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DAVID GILMOUR – Luck And Strange

di Paolo Baiotti

1 ottobre 2024

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DAVID GILMOUR
LUCK AND STRANGE
Sony Music 2024

David Gilmour non è mai stato un autore prolifico, nè con i Pink Floyd post-Waters, né come solista. Gli ultimi tre album sono usciti a distanza di nove anni: On An Island nel 2006, Rattle That Lock nel 2015 e Luck And Strange nel 2024. Tra gli ultimi due c’è stato il Live At Pompeii nel 2017 in audio/video e poi la pandemia che ha sicuramente condizionato l’atmosfera e i testi del nuovo album, insieme a pensieri e riflessioni sul passaggio del tempo dovute all’inesorabile invecchiamento dell’artista che affronta a 78 anni il palco in questi giorni con sei date a Roma seguite da altre sei alla Royal Albert Hall, quattro a Los Angeles e cinque a New York. David non nasconde i suoi anni, basta guardare le foto del disco e quelle promozionali, così come non la nascondono i testi e la voce, indubbiamente invecchiata e un po’ stanca, ma il suono della chitarra è sempre distinguibile tra mille e anche da un punto di vista compositivo Luck And Strange regge piuttosto bene, anche se definirlo il miglior lavoro dopo Dark Side Of The Moon (parole di Gilmour) è un’evidente esagerazione. Per dare una rinfrescata ai suoni e avere un punto di vista non condizionato dall’ascolto dei Floyd, l’artista ha scelto il produttore Charlie Andrew (Alt J.) e ha rinnovato la band, affiancando al basso del fedelissimo Guy Pratt la strepitosa batteria di Steve Gadd, le tastiere di Rob Gentry e le percussioni di Adam Betts (che suona la batteria in tour) oltre all’orchestra guidata da Will Gardner, già collaboratore degli Alt-J, con qualche intervento al piano di Roger Eno. Ma la novità maggiore è il coinvolgimento non solo della moglie Polly, autrice dei testi, ma anche dei figli, iniziato durante il covid, soprattutto di Romany che è la sorpresa più positiva del disco.
Partiamo dalla title track posta in apertura dopo la breve introduzione strumentale di Black Cat: il brano (e il disco) nascono dalla bonus track del cd, la “original barn jam” suonata nel gennaio 2007 da David con Richard Wright alle tastiere, Guy Pratt al basso e Steve DiStanislao alla batteria, che si ritrovano qualche mese dopo il tour di On An Island chiuso a Gdansk il 26 agosto (concerto ripreso dall’eccellente Live In Gdansk). Questa jam strumentale di 14’ caratterizzata dal quieto dialogo tra le tastiere e la chitarra è la base di Luck And Strange, un rock bluesato e melodico con un testo sulle speranze tradite della generazione di David, chiuso da un assolo tanto efficace quanto essenziale. The Piper’s Call ha un inizio acustico, una parte cantata melodica e un finale indurito con un suono che ricorda i Floyd dell’ultimo periodo. Da notare la presenza non invadente dell’orchestra, del coro degli Angel Studios e i controcanti dei figli Romany e Gabriel. Si prosegue con A Single Spark, ballata sognante con un testo dal sapore mistico, dei suoni inconsueti per Gilmour (qui si sente la mano di Andrew) e un break di chitarra emozionante. Lo strumentale Vita Brevis introduce l’arpa di Romany Gilmour, protagonista alla voce solista di Between Two Points, cover di un brano del duo dei Montgolfier Brothers intepretata splendidamente dalla ragazza, dotata di una voce dolce e accattivante. L’oscura, orchestrale e poderosa Dark And Velvet Nights richiama i Floyd di The Division Bell senza convincere fino in fondo, a differenza della nostalgica e malinconica Signs sull’amore e sulla difficoltà di affrontare il distacco e della conclusiva Scattered, scritta con il figlio Charlie e Polly, che ha un inizio lento quasi sospeso, un break drammatico pianistico e orchestrale, una ripresa del cantato che sfuma in un assolo di chitarra dapprima acustico, poi elettrico, maestoso e floydiano fino al midollo, prevedibile e irresistibile allo stesso tempo. Il cd aggiunge una seconda bonus track, la tenue ballata folk Yes, I Have Ghosts, già pubblicata in streaming durante la pandemia, cantata in coppia con Romany.
Luck And Strange non è un capolavoro, ma un disco affascinante con alcune tracce di notevole livello.

Paolo Baiotti

ANDY ALEDORT – In A Dream

di Paolo Baiotti

11 settembre 2024

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ANDY ALEDORT
IN A DREAM
Long Song Records 2024

Andy Aledort è uno di quei musicisti molto apprezzati dai colleghi, ma poco conosciuti al di fuori di una nicchia. Nel 2009 ha pubblicato Put A Sock On It, l’esordio solista con The Groove Kings, ristampato recentemente dalla Long Song Records, seguito da un disco dal vivo e qualche anno dopo dal doppio Light Of Love, dischi autoprodotti difficilmente reperibili. Dal 2005 al 2014 è stato al fianco di Dickey Betts nei riformati Great Southern dopo il suo allontamento dalla Allman Brothers Band, spalleggiando il fumantino chitarrista e il figlio Duane in un trio di solisti di primo piano, come si può rilevare ascoltando ad esempio il doppio The Official Bootleg (Evangeline 2007) o l’altro doppio The Canyon Club Agoura Hills (Dickey Betts 2016). Ha anche partecipato a parecchi tour in tributo a Jimi Hendrix, ma la sua attività principale è quella didattica, avendo pubblicato numerosi dvd di istruzioni per chitarristi. Inoltre ha scritto per anni su Guitar World, dove ha intervistato colleghi come Stevie Ray Vaughan (è anche coautore di un libro su di lui con Alan Paul), Jeff Beck, Leslie West e Johnny Winter. Fortunatamente si è accorta di lui la nostrana Long Song Records del produttore Fabrizio Perissinotto che gli ha proposto di incidere un nuovo album solista con musicisti del giro della J & F Band: il bassista Joe Fonda, il batterista Tiziano Tononi, il sassofonista Jon Irabagon e il tastierista Pee Wee Durante, mettendogli a disposizione per due giorni lo studio Firehouse 12 a New Haven. Il risultato è un disco per amanti della chitarra, ma non solo, perché Andy se la cava anche dal punto di vista vocale e compositivo ed è riuscito a inserire tutte le sue principali influenze (J. Hendrix, Beatles, F. Zappa, J. Scofield, E. Clapton, S.R. Vaughan) destreggiandosi con personalità e in scioltezza tra blues, rock e jazz.
Il titolo si riferisce all’affermazione dell’artista che tre brani strumentali gli siano arrivati in sogno: Hymn che gli è comparso come una canzone suonata dalla Allman Brothers Band, una ballata romantica con echi indubbi del suono della grande band della Georgia in cui spiccano i momenti solisti di Andy, Jon e Pee Wee all’Hammond, Cotton Sham Melodies invece durante un’immaginaria jam con Sam The Sham dei Pharaos che può ricordare il jazz-rock dei Weather Report e In A Dream, come recita il titolo, morbido e raffinato. Oltre a questi strumentali Andy ha scelto tre cover e due brani autografi. Lawdy Mama è un tradizionale blues degli anni trenta riproposto seguendo la versione dei Cream con una chitarra potente e un intenso inserimento del sax, Can’t You See What You Are Doing To Me di Albert King è un funky-blues eseguito in modo esuberante con un primo assolo deflagrante e distorto di Andy, uno spazio solista per le tastiere di Durante, un secondo assolo bluesato dell’ospite David Grissom (Joe Ely, John Mellencamp) seguito dall’entrata del sax e dal ritorno della chitarra di Andy in una girandola di improvvisazioni prorompenti, Pali Gap una travolgente esecuzione jammata del brano di Jimi Hendrix, suggerito da Perissinotto, con una lunga introduzione e inserimenti ben dosati di un sax jazzato e dell’organo, con la batteria di Tononi spesso in controtempo. Le ultime due tracce strumentali composte dal chitarrista sono la robusta Passengers, la meno significativa del disco e Moonwaves che si muove tra rock e jazz con richiami zappiani.
Complimenti all’etichetta milanese per la produzione attenta e per il coraggio di proporre un musicista e uno stile che non sono sicuramente di moda, come d’altronde le altre pubblicazioni della label, contraddistinte dall’amore per l’improvvisazione.

Paolo Baiotti

ALICE HOWE – Circumstance

di Paolo Crazy Carnevale

25 agosto 2024

alice howe

Alice Howe – Circumstance (Knowhowe 2023)

Gran disco per questa giovane singersongwriter che si accompagna (e si fa accompagnare) nei suoi tour da un veterano del calibro di Freebo, leggendario bassista di Bonnie Raitt. Dotata di una bella voce, di un talento compositivo interessante che si rifà alla miglior scuola della canzone d’autore americana degli anni settanta, portando in dote una freschezza tutta sua.

A farla elevare sulla moltitudine (da anni abbiamo smesso di tenere il conto dei giovani autori sfornati dalla scena americana) è in questo caso, e senza dubbio alcuno, la produzione di Freebo che per la sua pupilla estrae dalla manica le sue entrature in uno degli studi più storici del mondo, quel FAME recording Studio in cui l’acronimo sta per Florence Alabama Music Enterprises, con annessi e connessi musicisti che vi orbitano attorno.

Ecco così le convincenti canzoni della Howe vestite del giusto e meritato abito che la suddetta location può garantire, senza effetti speciali, senza strafare: va da sé, chi bazzica oggi i FAME non sono gli stessi che vi suonavano nella seconda metà degli anni sessanta, ma il risultato è quello, perché oltre ai musicisti, il segreto di quei posti sta nel pigro scorrere del fiume Tennessee tra le particolari anse, un pigro scorrere che crea l’atmosfera, lo spirito inconfondibile che ha dato lustro a dischi di gente come Aretha Franklin, Wilson Pickett, Boz Scaggs, Cher, persino dei Rolling Stones e di Bob Dylan, passando per Rod Stewart, Bob Seger, Paul Simon.

Uno spirito che ci viene riconsegnato intatto dal disco di Alice Howe, a partire dall’iniziale You Been Away So Long, un brano che ci precipita subito nel mood giusto ordito da Freebo (che è coautore di buona parte del materiale) per questo disco; Somebody’New Lover Now è ancora meglio, col suo sound sospeso, ben studiato ed eseguito a puntino. La lezione dei cantautori che Alice ama, da Jackson Browne a Joni Mitchell è tutta qui, mandata a memoria come si deve e ben messa a frutto.

Il basso del producer/godfather è sempre immenso, uno dei bassi elettrici col suono più bello che si possa desiderare, a suonare le chitarre ci sono Will McFarlane, un altro veterano che come Feebo è stato una delle colonne portanti della band di Bonnie Raitt negli anni d’oro, e il più giovane Jeff Fielder, ex accompagnatore di Mark Lanegan.

Le tastiere sono ben affidate alle dita di Clayton Ivey, vecchia gloria degli studi dell’Alabama (era negli Alabama State Troopers con Don Nix e Jeannie Greene nei primi anni settanta, in un live indimenticabile.

Le canzoni si susseguono senza calo di tensione, Let Go e Love Has No Rules, l’acustica e lenta Things I’m Not Saying a cui fa seguito l’energia di What About You con i cori ad opera di Freebo in un refrain contagioso attraversato dalla sapienza del tastierista che sorregge tutta la composizione, una delle migliori del disco. Chitarre acustiche, cori da piantagione di cotone, elettriche dal suono paludoso sono alla base delle atmosfere southern indotte da Something Calls To Me in cui dal sottofondo emerge la slide suonata da Fielder. Una robusta sezione fiati e cori rhythm’n’blues sono invece il biglietto da visita della contagiosa With You By My Side, sorretta dal preciso drumming di Justin Holder, nativo di Florence che tra i molti dischi a cui ha preso parte annovera almeno la perla di quello di Jon Langford (Waco Brothers) col progetto Four Lost Souls.

Line By Line è un brano lento, tutto supportato dalla voce di Alice, poi le atmosfere paludose fanno di nuovo capolino in Travelin’ Soul, facendosi strada tra slide e Wurlitzer. Chiude il disco la riflessiva It’s How You Hold Me, con attacco acustico, giusto chitarra e voce e gli strumenti che arrivano un po’ alla volta, a cominciare dallo splendido basso di Freebo e con le chitarre di McFarlane e Fielder che giocano sui due canali (come avviene anche in altri brani del CD).

Paolo Crazy Carnevale

JOE ELY AND BAND – Fighting The Rain

di Paolo Baiotti

5 agosto 2024

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JOE ELY AND BAND
FIGHTING THE RAIN
New Shot Records 2024

In una piovosa e tempestosa giornata di ottobre del 1993 Joe Ely arriva in Italia per l’esordio nel nostro paese. Il concerto, organizzato dal compianto Carlo Carlini, previsto originariamente nella Sala Marna di Sesto Calende, viene spostato all’ultimo momento a causa dell’esondazione del Ticino. In breve, si trova un’alternativa nel disco pub Sinatra’s di Vergiate a pochi km. di distanza. In un’epoca pre-internet il pubblico viene indirizzato da un cartello a spostarsi nel pub e comunque il problema viene risolto. Così Joe si presenta con una delle sue migliori band per quello che verrà ricordato come uno degli esordi più brillanti di un musicista roots nel nostro paese. L’esplosiva chitarra elettrica di David Grissom, che in quel momento si divideva tra Ely e John Mellencamp, il basso di Glen Fukunaga e la batteria di Davis McLarty accompagnano come meglio non si potrebbe il cantautore texano che, dopo l’eccellente Live At Liberty Lunch, aveva pubblicato nel ’92 Love And Danger per la MCA ed è al meglio delle sue potenzialità vocali. Da questo disco provengono il poderoso rock Settle For Love e il trascinante country-rock The Road Goes On Forever (Robert Earl Keen) ripreso anche dagli Highwaymen due anni dopo. Da Lord On The Highway dell’87 sono estratte tre canzoni: la splendida ballata western Raw Of Dominoes dell’amico Butch Hancock con impasti elettroacustici e Grissom protagonista di un paio di assoli esemplari, l’epico romanzo texano di Me and Billy The Kid e la ballata Letter To L.A. che quasi si ferma prima che la chitarra di Grissom, raramente così incisiva, la trasformi letteralmente nella sezione strumentale. Dall’omonimo esordio del ’77 provengono due altre gemme di Butch Hancock: She Never Spoke Spanish To Me e la morbida If You Were a Bluebird (preceduta dal saluto di Ely, emozionato per la sua prima data italiana) in una versione molto ispirata. E come non citare la bluesata Dallas di Jimmy Dale Gilmore, già suonata nel ’72 con i Flatlanders, il gruppo di Ely, Gilmore e Hancock, autore anche della ruvida Boxcars dove le chitarre di Ely e Grissom suonano all’unisono prima del crescendo irresistibile guidato da David.
Questo disco ha un unico difetto: dura poco più di 50’ e quindi ripropone solo una metà del concerto, in parte per motivi tecnici, in parte per richiesta di Ely che, entusiasta dell’ascolto del nastro, ne ha autorizzato la pubblicazione con l’eccezione di un brano giudicato di argomento troppo delicato. La qualità sonora è eccellente per cui non possiamo che ringraziare la label italiana New Shot Records che sta riproponendo prezioso materiale d’archivio di cantatutori rock e folk americani, quei “beautiful losers” amati da una nicchia di fedelissimi.
Quanto a Joe, tre anni dopo l’esordio italiano, primo di numerosi tour nel nostro paese, pubblicherà il suo capolavoro Letter To Laredo seguito da Twistin’ in The Wind, chiudendo il suo decennio probabilmente più ispirato.

Paolo Baiotti