COREY HARRIS – The Insurrection Blues

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COREY HARRIS – The Insurrection Blues (Bloos Records/IRD 2021)

Il disco che abbiamo tra le mani è un disco molto particolare ed è un disco che la dice lunga sui propri intenti fin dalla copertina, in cui si intuisce il Campidoglio americano avvolto dalle fiamme, e dal titolo. Corey Harris del resto è un musicista le cui radici affondano in epoche antecedenti alla sua nascita, quando con le canzoni era importante anche dire delle cose, oltre che cantare.

Il blues – dicono le note di presentazione del disco nel sito dell’etichetta – è il nuovo modo che abbiamo per sopravvivere in un mondo che sta andando a fuoco. E gli intenti sono decisamente notevoli.

Mick Jagger non è certo il primo musicista rock ad aver deciso di prendere casa nella nostra penisola, Harris lo ha fatto prima di lui e per un po’ di tempo la sua residenza si è trovata in Abruzzo, ad Atri, dove il disco è stato registrato negli studi di Simone Scifoni, coproduttore del disco con il titolare, tutto in una giornata, come facevano i vecchi bluesmen.

Nella fattispecie il 21 maggio 2021.

Il tutto si compone di quindici tracce, alcune originali altre ripescate dalla tradizione o dai songbook di illustri padri fondatori.
Harris inserisce nel suo lavoro tutte le sue influenze, tutta la sua conoscenza, con il risultato di un disco affascinante per quanto riguarda le sonorità, un po’ zoppicante nel complesso per via dell’inserimento di qualche cosa di non particolarmente esaltante.

Se l’inizio è subito molto indovinato, grazie a Twelve Gates To The City in cui sfoggia un bel fingerpicking (ovviamente il disco è totalmente acustico e suonato interamente da Harris, salvo due interventi di ospiti in altrettanti brani) alla reverendo Davis, con la chitarra di Harris che pare librarsi al pari di quella di Jorma Kaukonen nel primo mitico disco degli Hot Tuna. Non è male neppure l’inserimento di Some Of The Days, firmata da Charlie Patton e When Did You Leave Heaven in cui il mandolinista Lino Muoio piazza un intervento alla Ry Cooder che desta entusiasmo.

Meno bene le incursioni nella musica africana da Harris più volte bazzicata in passato, dal film sul blues diretto da Scorsese alle collaborazioni con Olu Dara e Ali Farka Toure. Toubaka è un breve strumentale tradizionale e Mama Africa un originale lungo e noiosetto.

Meglio la ripresa di Special Rider Blues del vecchio Skip James, ma sinceramente anche la seguente Sunjata, di nuovo un tradizionale di provenienza africana, non convince troppo.

Sorvoliamo sui trenta secondi di interludio che sembrano provenire dai disordini del Campidoglio e passiamo alla title track cantata da Harris con voce tenorile, anche se è evidente che uno dei punti deboli dell’artista sia la mancanza di una voce personale, al pari di come il suo talento alla sei corde è ineccepibile. Il fingerpicking torna con la breve Boats Up River e con l’originale By And Bye, bel brano in cui affiorano di nuovo le carenze vocali di Harris, proprio come nella classica You Gonna Quit Me Baby di Blind Blake, in cui però è eccellente il lavoro della chitarra. Phil Wiggins soffia nell’armonica nello strumentale Afton Mountain Blues, composto da Harris. That Wil never Happen No More è un rag di nuovo a firma Blind Blake e precede la conclusiva Scottsville Breakdown breve strumentale di routine.

Paolo Crazy Carnevale

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