LUCA CALABRESE – I Shin Den Shin

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LUCA CALABRESE – I Shin Den Shin (Moonjune Records 2024)

Nonostante la lunga gavetta e le numerose esperienze del titolare nell’ambito della musica che conta, questo suo lavoro per la Moonjune Records non riesce davvero a convincere.
Calabrese, il cui approccio alla musica risale addirittura agli anni Settanta, dapprima in formazioni bandistiche della zona del Piemonte di cui è originario, poi frequentando il conservatorio, ha maturato esperienza suonando con big band mainstream che lavoravano in ambito televisivo.
Di pari passo ha però coltivato una passione per il jazz e l’improvvisazione, venendo a mano a mano in contatto con musicisti importanti con cui ha calcato plachi e frequentato sale d’incisione, parliamo di Keith Tippett, Peter Hammill, Pat Mastellotto, Cecil Taylor, Richard Barbieri.
Proprio con Barbieri (Japan, Porcupine Tree) e con l’ensemble svedese Isildurs Bane ha avuto modo di lavorare molto negli ultimi anni: col gruppo svedese ha messo in cantiere dischi che hanno coinvolto anche Steve Hogarth (Marillion) e Peter Hammill (Van Der Graaf Generator).
Per questo suo lavoro solista, Calabrese si è affidato alla produzione e alla direzione artistica del sopravvalutato Markus Reuter, coniugatore di sound elettronici e paesaggi sonori, sempre molto noiosi e ripetitivi, molto ambient e sterili. D’altronde uno che in venticinque anni se ne esce con quasi novanta dischi – tra quelli condivisi e quelli a proprio nome – è un genio o è uno che si ripete. E Reuter non è un genio.
L’ascolto del disco, come quello di altre produzioni su cui Reuter mette mano, è un po’ come la visione di un film in cui non accade mai nulla: peccato, perché l’elettronica ammazza il suono della piccola tromba suonata da Calabrese (a tratti sulle orme di Mark Isham) e soprattutto sopraffà le chitarre elettriche di Mark Wingfield e del vietnamita Nguyen Le.
Dalla noia quasi assoluta si salvano alcuni momenti dei brani A New Reality e Heart To Heart, il cui titolo è un po’ la traduzione del titolo giapponese dato all’intero album (uscito sia in CD che in vinile), le cui radici stanno nel confucianesimo e nel buddhismo, e nei concetti di empatia e sentimenti condivisi. Peccato, perché in questo disco di empatico sembra non esserci nulla.

Paolo Crazy Carnevale

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Un commento a “LUCA CALABRESE – I Shin Den Shin”

  1. Luca Calabrese dice:

    E’ bello che vi siano voci contrarie. Qualcuno che si prenda la briga di dire – questo disco fa schifo, qualcuno che ci metta la faccia. Perché questo mi salva dall’apatia e soprattutto mi fa capire che non sono completamente immerso nella bolla di chi ama I Shin Den Shin. Esiste un mondo là fuori che mi conferma che la musica in tutti i casi non è mai cibo per tutte le bocche. Al mondo esiste gente che disprezza la carne cruda all’albese o il profumo del tartufo quindi può esistere tranquillamente chi trova noioso un lavoro che altri al contrario amano proprio per la capacità di portarli con la mente anche solo un attimo in una dimensione differente.
    Richard Barbieri, in una sua intervista ad un certo punto dice – La mia musica non è per tutti.
    Spero di non risultare spocchioso se mi permetto di pensare la stessa cosa. D’altra parte ho sempre sostenuto che – se ad un mio concerto ci fossero centinaia di migliaia di persone e tutti amassero quello che faccio, dovrei chiedermi dove ho sbagliato.
    Grazie per esserti preso la briga di ascoltare I Shin Den Shin e grazie per aver comunque provato a parlare di me e del mio lavoro.