THE PRETTY THINGS – Bare As Bone, Bright As A Blood
di Paolo Crazy Carnevale
26 luglio 2021
The Pretty Things – Bare As Bone, Bright As A Blood (Madfish 2020)
All’indomani del tour del 2018 i gloriosi Pretty Things, sempre capitanati come ai tempi dell’esordio dalla chitarra di Dick Taylor e dalla voce di Phil May, avevano annunciato che sarebbe stato l’ultimo, complici le non eccellenti condizioni fisiche del vocalist, sempre comunque suggestivo, e l’età ragguardevole del chitarrista, che oggi ha la bellezza di 78 anni. Nonostante le premesse, il gruppo continuava ad avere un grande smalto, e chi ha avuto modo di assistere ad uno dei loro concerti italiani del dicembre 2017 se n’è senz’altro reso conto: in quell’occasione al loro fianco c’era l’altro cantante/chitarrista Frank Holland (partner dei due fondatori da oltre vent’anni) e c’erano il muscoloso drummer Jake Greenwood e il bassista George Woosey, entrambi in formazione da una dozzina d’anni. In cabina di regia c’è invece Mark St.John, il batterista che era stato seduto dietro i tamburi per un paio di lustri prima di Greenwood.
L’annuncio del ritiro dall’attività live non sarebbe coinciso comunque con l’interruzione di quella discografica, tanto che i due rocker britannici avevano già registrato questo nuovo disco, molto acustico e molto “ritorno alle origini”, quando purtroppo nella primavera dello scorso anno, il buon May è passato a miglior vita in seguito alle complicazioni dovute ad una caduta in bicicletta durante il lockdown.
Nonostante la loro carriera sia sta quasi ininterrotta dal 1963 in poi – con solo una breve sospensione nella seconda metà degli anni settanta, i Pretty Things sono stati piuttosto avari quanto a dischi, preferendo concentrarsi su un’intensa ed incendiaria carriera concertistica.
Dick Taylor per la cronaca, chitarrista dal suono potente, era stato reclutato da Brian Jones (insieme a Jagger e Richards che con lui facevano parte dei Blue Boys) per suonare nel gruppo che Jones stava mettendo insieme (occorre dirvi il nome?), ma dopo un po’ ne era uscito perché lo avevano destinato a suonare il basso e la cosa non gli piaceva.
Il disco finale dei Pretty Things, uscito a settembre dello scorso anno col titolo di Bare As Bone, Bright As Blood è un disco dalle atmosfere acustiche realizzato con l’aiuto di pochi comprimari, praticamente tutti chitarristi (tra cui George Woosey, il bassista degli ultimi dodici anni) , con l’esclusione del violinista Jon Wigg e di Sam Brothers, che suona anche banjo e armonica. Taylor e May mettono in fila una dozzina di composizioni dalle diverse ispirazioni, da brani cantautorali presi in prestito ad illustri colleghi più giovani a solidi blues dal pedigree eccellentissimo che permettono a Taylor di svisare con la slide e a May di adattare la sua nuova voce arrochita dagli anni e dalla malattia. Il risultato è pregevole fin dall’iniziale ripresa di Can’t Be Satisfied e da Come On In My Kitchen (l’armonica di Brothers è qui semplicemente unica) che nulla hanno da invidiare alle molte che abbiamo già ascoltato e per di più sfoderano anche arrangiamenti non scontati.
Ain’t No Grave, come il titolo fa evincere, è un blues sepolcrale preso in prestito dal predicatore pentecostale americano Claude Ely, mentre Falultline è una personale rivisitazione di un brano dei Black Rebel Motorcycle Club, tratto dal terzo disco della band uscito nel 2005. Con Redemption Day, che chiude il lato A, i Pretty Things rileggono invece Sheryl Corw, come se si trattasse di una canzone di Nick Cave, con la voce di May che si fa particolarmente profonda e dolente.
Il lato B parte con una doppietta altrettanto dolente, una composizione di Gillian Welch (The Devil Had A Hold On Me) e una di Woosey (Bright As Blood), entrambe caratterizzate dagli interventi di banjo e violino.
Poi si torna al blues eterno con una Love In Vain come si deve, una delle poche davvero valide dopo quella dei Rolling Stones e il traditional Black Girl (un brano di dominio pubblico che con altri titoli si era già fatto interpretare dal Sir Douglas Quintet e da Gene Clark, tra i molti): la versione è all’altezza del sound cupo, quasi da funerale, che pervade buona parte del disco, quasi i Pretty Things avessero avuto il sentore che non ce ne sarebbero stati altri.
To Build A Wall, del cantautore britannico Will Varley, è dedicata da May ai figli ed è forse il brano in cui la voce arranca maggiormente, si sente la sofferenza del cantante che la interpreta in maniera molto sentita, poi con la lenta ballata Another World il disco giunge al capolinea, un disco importante e non solo perché dai Pretty Things altri non ne avremo.
Paolo Crazy Carnevale