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MARK HUFF – Stars For Eyes

di Paolo Baiotti

7 settembre 2018

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MARK HUFF
STARS FOR EYES
Exodus Empire 2018

Nato a Las Vegas Mark Huff, dopo avere esordito con la garage-punk band Smart Bomb, ha pubblicato il primo album da solista Happy Judgement Day nell’89, seguito da una serie di dischi tra i quali Skeleton Faith nel ’99, premiato in un sondaggio locale. In questo periodo ha aperto per Willie Nelson, Chris Isaak e Bob Dylan, dando l’impressione di essere pronto al salto di categoria. Nel 2003 si è trasferito a Nashville: è stato accolto con attenzione dalla comunità locale e invitato in breve tempo da Alison Moorer ad aprire il suo tour. Gravity del 2005 e Feels Like California uscito cinque anni dopo sono stati apprezzati, ma il suo nome non è uscito al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati. Con l’Ep Down River e con Stars For Eyes l’artista cerca di fare il grande salto, aiutato dalla produzione dell’esperto Chad Brown (Ryan Adams, Mike Farris, Tom Russell, Faith Hill…) e da un gruppo di musicisti tra i quali spiccano Doug Lancio alla chitarra (John Hiatt), Russ Pahl alla pedal steel (Pretenders, John Hiatt, Dan Auerbach) e Mike Vargo al basso (Alison Moorer), oltre a un quintetto di coriste guidato da Julie Christensen (Leonard Cohen).

Stars For Eyes è un disco contraddittorio ed eccentrico, affiancando melodie tradizionali a squarci di sperimentalismo e modernità negli arrangiamenti, una voce affascinante e a tratti soave a testi foschi e oscuri basati su storie vere. Pur essendo considerato un cantautore country-roots Mark è atipico e obliquo, per questo meritevole di attenzione. Tra i brani spiccano Stars For Eyes, una ballata caratterizzata da una chitarra sognante, voce e cori avvolgenti e un tocco di psichedelia che può persino ricordare i Pink Floyd, il ringraziamento a Nashville di Big City Down, mid-tempo melodico country-pop con pedal steel e piano in evidenza, l’intima Heart Beating With You percorsa da suoni più sperimentali e la minimalista I Know You Don’t Want My Love, ballata soffusa tra country e tocchi di ambient alla Lanois. Meno convincenti il rock di Albatross e God In Geography che mischia un organo new wave con un riff robusto. L’unica cover è una jazzata Almost Like The Blues di Leonard Cohen che, pur non sfigurando, sembra in disarmonia con l’atmosfera del disco, ma si giustifica per l’affetto di Mark nei confronti del grande artista canadese, che gli ha dato preziosi consigli alcuni anni fa e per la presenza ai cori di Julie Christensen.