THE WOOD BROTHERS – Paradise

wood brothers [499]

THE WOOD BROTHERS – Paradise (Honey Jare 2015/Blue Rose 2016/IRD)

È ormai da una decina d’anni che Chris Wood (da non confondersi con l’omonimo e defunto fondatore dei Traffic), parallelamente alla carriera luminosa con Medeski e Martin porta avanti un progetto musicale e discografico insieme ai suo fratello Oliver e al polistrumentista Jano Rix, indirizzato verso territori sonori completamente differenti. I fratelli Wood si sono trasferiti da un po’ di tempo a Nashville per lavorare insieme ad un trio che possiamo definire – sempre premesso che le definizioni lasciano il tempo che trovano – col nome di “americana”. Un termine che non amo molto ma che nel caso dei Wood Brothers calza abbastanza a pennello: almeno ascoltando questo Paradise, pubblicato a fine 2015 in USA per poi approdare in Europa nei primi mesi di quest’anno grazie alla germanica Blue Rose, etichetta da sempre molto attenta a quanto si produce oltreoceano nell’ambito del mercato indipendente.

La risposta a Paradise è stata subito molto calorosa ed il disco si è piazzato bene nelle classifiche specializzate, proprio grazie al fatto di poter fruire dell’attenzione del pubblico che segue il folk, il country, la musica indie e via dicendo, che hanno classifiche di vendita personalizzate e diversificate.

Il disco è buono, l’unico dubbio riguarda le voci, dei fratelli, infatti, nessuno è particolarmente dotato vocalmente, anche se nell’insieme la cosa funziona abbastanza bene, soprattutto nei brani più vibranti. Singin’ To Strangers è un buon inizio d’album, con il tiro giusto – ma quanto a tiro il brano vincente sembra Snake Eyes che troviamo più avanti – e il brano seguente, American Heartache, pur avendo un inizio che non digerisco, finisce con l’aprirsi ad una bella soluzione sonora. In Never And Always ci sono ospiti importanti, tenuti però molto in sordina, forse per non appannare il trio originale: tanto in sordina che occorre stare molto concentrati per cogliere le harmony vocals di Susan Tedeschi e la slide di Derek Trucks. Heartbreak Lullaby è un’innocua canzoncina senza pretese, noiosetta all’inizio e poi un po’ più briosa quando il ritmo si fa più caraibico, meglio Two Places in cui ruggisce un bell’hammond suonato da Rix. Non è particolarmente entusiasmante nemmeno Without Desire col refrain ripetitivo che non ha però la forza delle litanie di una Lucinda Williams, che dal canto suo ha anche la tendenza ai versi ripetuti fino alla nausea, ma lei ha dalla sua una voce personalissima con cui può fare tutto quello che vuole. Nell’equilibrio sonoro del disco hanno poi una loro importanza i numerosi fiati inseriti – in modo più o meno massiccio – nelle sei tracce centrali, in maniera particolarmente riuscita in Raindrop dove l’amalgama tra trombone e tuba ben si sposa con il possente basso di Chris Wood. Buona anche Touch Of Your Hand con una bella slide, meno in sordina di quella di Trucks in Never And Always. In chiusura l’intensa River Of Sin tutta sorretta dal piano e dal contrabbasso e con i cori delle sorelle McCrary (Ann e Regina, la seconda di dylaniana memoria) che entrano con sacralità gospel nella seconda parte del brano insieme al fantastico hammond di Rix.

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