THE WORD – Soul Food

The-Word-Soul-Food-album-cover-2015

Quando è uscito il primo disco a nome di questo supergruppo del terzo millennio (formato dall’allora sconosciuto Robert Randolph, da John Medeski e dai North Mississippi Allstars al completo) ero rimasto totalmente affascinato dalla proposta musicale oltre che naturalmente dalle capacità dei musicisti. L’originalità di questo progetto “senza parole” era davvero spiazzante.

Quando, a quasi quindici anni da quel disco eponimo, ho letto che The Word erano di nuovo all’opera sono rimasto di nuovo spiazzato: pensavo si fosse trattato di una cosa unica, per quanto tutti gli artisti coinvolti fossero spesso stati ospiti l’uno sul palco degli altri. Ero perplesso dal fatto che dopo di allora, pur avendo seguito buona parte delle attività discografiche di Randolph e dei North Mississippi Allstars, non avevo trovato nella loro musica qualcosa di ugualmente potente. I dischi di Randolph sono buoni, in particolare il più recente live, quelli dei Dickinson sono sempre di livello accettabile, ma senza quel guizzo che avevo colto nel loro disco d’esordio e nel primo The Word.

Un po’ di scetticismo quindi ci poteva stare, anche, soprattutto, dopo aver letto che stavolta ci sarebbero stati dei brani cantati che pensavo avrebbero snaturato un po’ l’idea del disco senza parole inciso dal gruppo che si fa chiamare “la parola”.

Ora che finalmente sto ascoltando insistentemente Soul Food, questo il titolo del disco, ogni perplessità è fugata. L’unico problema del disco è che non c’è più l’effetto sorpresa innescato dal suo predecessore, ma per il resto la musica è davvero grande, i musicisti sono grandi e anche dove si canta il disco va benone (soprattutto quando a cantare sono le due ospiti Ruthie Foster e Amy Helm.

Tredici brani infilati uno dietro l’altro con una sezione ritmica che pompa energia piena di funk e groove che consente gli altri tre soci di dare sfogo alle loro capacità come solisti: non c’è che dire Chris Chew e Cody Dickinson sono davvero una sezione ritmica da sogno!

Medeski, Randolph e Luther Dickinson ne approfittano per sciorinare assoli da urlo, senza mai invadere l’uno il territorio dell’altro, con un’inventività fantastica, passando da atmosfere soul a sortite tropicali senza scordare il rock e certe influenze jazz portate da Medeski.

Si inizia con New Word Order, un buon brano d’apertura, ben suonato (come tutto il resto del disco) e ben composto, Come By Here che arriva di seguito ha invece un riff vagamente monotono, soprattutto per via del fatto che è cantato all’unisono dal gruppo, un ripetitivo refrain che poteva essere evitato visto che nessuno dei portentosi strumentisti è un vocalist particolarmente dotato, per contro quando non ci sono le voci i soggetti in questione colgono l’occasione per sfogarsi facendo decollare il brano. Ma è l’unico mezzo passo falso del disco: la successiva When I See The Blood, un tradizionale affidato alle corde vocali della ben più capace Ruthie Foster rimette tutto a posto: il gruppo lo rilegge come fosse un brano del grande Don Nix ed il risultato è davvero prodigioso. Play All Day è un tour de force in cui Medeski e Randolph tirano delle bordate di hammond e pedal steel che sono una gioia per il cuore, le orecchie e l’anima. Soul Food 1 è invece un brano dalle atmosfere rilassate, morbidissimo, molto tropicale, a metà strada tra Hawaii e Caraibi, il brano che non ci si aspetta da The Word forse, è, forse proprio per questo, sorprendente. Soul Food 2 è invece di nuovo energia pura mentre You Brought The Sunshine è un blues veloce firmato da Twinkie Clark in cui Medeski si dedica al piano (ma poi anche all’hammond) e le chitarre impazzano. Early Moanin’ Time ancora col piano in evidenza è invece più notturna ma non meno efficace, il piano danza sui ruggiti della pedal steel e poi entra di nuovo l’hammond – come si fa a non amare queste sonorità? Con Swamp Road (a firma del solo Medeski mentre buona parte del resto è composto in socievole armonia da tutti) le atmosfere sono più jazz oriented, c’è spazio per gli interventi solisti di tutti che ben si adeguano allo stile della composizione. Si prosegue con due brani di Randolph (Chocolate Cowboy e The Highest) un po’ più routinari ma comunque apprezzabili, in particolare il secondo, lento è profumato di atmosfere da colonna sonora dei primi anni settanta. La conclusione è col botto: Speaking In Tongues che parte soffusa e guidata dall’hammond si evolve snodando un tema ipnotico su cui Dickinson e Randolph si inseriscono sapientemente, Glory Glory invece è il terzo brano cantato del disco, la voce è quella di Amy Helm e l’arrangiamento è azzeccatissimo con Luther Dickinson che ha l’occasione di cimentarsi al dobro in questo tradizionale che vede Medeski seduto al Wurlitzer.

Tags:

Non è più possibile commentare.