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PHIL CODY – Featherbed

di Paolo Crazy Carnevale

29 settembre 2015

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PHIL CODY
Featherbed
(Back & Belly Recordings 2015/IRD)

Lo avevo auspicato nel reportage uscito sulla versione cartacea di “Late for the Sky” dedicato al tour italiano che la Phil Cody Band ha affrontato la scorsa estate ed ora è una bellissima realtà, anche se dimezzata: Phil ha infatti optato, anziché per un intero CD nuovo di zecca, per un EP di sette tracce, cosa che pare vada di moda recentemente negli States. Amen, evidentemente il songwriter dell’Ohio, ma da anni losangeleno a tutti gli effetti, preferisce centellinare le sue canzoni.

Cody dopo essere stato senza produrre nulla per quasi quindici anni era tornato a far parlare di sé lo scorso anno quando, per l’italica Appaloosa, aveva dato alle stampe un personale omaggio a Warren Zevon, Cody Plays Zevon, non un tributo qualunque, ma un atto d’amore nei confronti di un artista che era anche suo amico, uno per cui aveva aperto numerosi concerti negli anni novanta e che quindi conosceva profondamente, per non dire a menadito.

Al disco ha fatto seguito il suddetto tour con tutta la band, poi nella primavera di quest’anno Phil è tornato per un altro breve tour in solitudine per presentare questo nuovo lavoro. Ed è il caso di dirlo: evviva! Il tributo a Zevon era bello e intimo, ma diciamocelo, avevamo bisogno di una raccolta di canzoni nuove e ora che le abbiamo possiamo dire con sicurezza che Phil Cody c’è davvero ancora.

Featherbed, per quanto composto di appena sette brani (uno dei quali ripreso due volte) ci conferma la statura di Cody come autore e artista a tutto tondo: checché ne dicano i detrattori, quelli che non riescono a staccarsi dal ricordo del suo primo disco (The Sons Of Intemperance Offering, Interscope 1996), quelli che sostengono che Cody poi non ha saputo più essere all’altezza di quel debutto. Pretendere da Phil un altro disco come quello sarebbe come pretendere che Neil Young continuasse a rifare Harvest. Per quanto mi riguarda sono convinto che anche Big Slow Mover (del 1999) fosse un buon disco, tutt’al più penalizzato dal fatto che ci fossero due tipi di produzione ben distinti, ma era buono il disco ed erano buone le canzoni.

Le carte vincenti di Featherbed sono diverse, a partire dalle canzoni e dall’ispirazione per arrivare alla produzione unitaria e, non ultima, la scelta di usare, finalmente, i musicisti della band con cui Phil suona dal vivo quando lo fa. La Featherbed Band è infatti composta da Steve McCormick, Roger Len Smith, Bryan “Smitty” Smith (i tre compagni di tour), Andy Kamman, Rami Jaffe (proprio l’ex Wallflowers ed ora Foo Fighters a tempo quasi pieno) e Eric Heywood (uno dei più talentuosi artigiani della pedal steel della generazione di Cody e soci). Il suono è corposo, la registrazione di base è stata fatta nello studio di Jaffe dalle parti di Hollywood, ma la lavorazione vera e propria, le aggiunte, le rifiniture sono opera di McCormick che ha lavorato sodo con Phil nel piccolo studio di Mar Vista, praticamente Venice Beach. E giustamente McCormick è accreditato come produttore, perché il lavoro suona davvero alla grande proprio al lavoro che Steve ha fatto sulle canzoni.

Si parte con una vibrante cover di St. James Infirmary: il traditional riletto con sapienza da Phil e dal gruppo (reso particolarmente bene nei concerti dello scorso anno), con chitarre decisamente azzeccate, dall’elettrica di McCormick, che si occupa anche delle acustiche e del mandolino, alla pedal steel di Heywood. Di seguito arriva la title-track, un brano dalla classica andatura alla Cody, con Jaffe che spennella di hammond tutto il sottofondo, un’armonica sgangherata (potrebbe essere lo stesso Cody, ma tra gli ospiti figura il nome del “barone” Stan Behrens, armonicista e sassofonista dei Canned Heat negli anni novanta) e poi ancora le grandi chitarre il vero marchio di fabbrica di questa produzione: un’elettrica baritonale, la steel e il mandolino che emerge qua e là. Julianna per contro è un brano intimo, struggente, aperto dall’elettrica su cui entra la voce di Phil e poi ecco innestarsi le tastiere e la steel. Sinceramente non riesco a capire come queste nuove canzoni e questi suoni possano non piacere a qualcuno, eppure in rete mi è capitato di leggere commenti molto freddi a riguardo.

Moorestown è ancora più lenta e struggente, era un brano dei Red House Painters, l’arrangiamento ordito da McCormick ricorda molto certe cose di Daniel Lanois ed il pezzo è decisamente riuscito. Wild Bunch (Rides Again) è invece un divertissement del gruppo che sforna uno strumentale dall’andazzo spaghetti-western con i fiati di Behrens. Prima della fine (la ripresa di Featherbed in una breve proposta a cappella) c’è un altro brano molto alla Cody, No Long Goodbyes cantato con convinzione e con Eric Heywood che fa garrire le molte corde del suo strumento a pedali, sulla sezione ritmica incalzante e ancora quell’armonica soffiata come solo i grandi sanno soffiarla quando si tratta di abbinarla ad una musica che non sia il classico blues.

Non fidatevi dei detrattori, concedete questa chance a Phil Cody, è un consiglio da amico.

PHIL CODY – Cody Sings Zevon

di Paolo Crazy Carnevale

11 marzo 2014

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PHIL CODY
Cody Sings Zevon
(2014)

Sono passati dieci anni da quando Warren Zevon è passato a miglior vita, lasciando un grande vuoto nel panorama musicale. Nel corso di questi anni sono state pubblicate raccolte di sue canzoni eseguite da altri artisti, pubblicazioni postume d’archivio, qualcuno, come Bob Dylan ha eseguito le sue canzoni durante i propri concerti, ma se c’è un artista che è sempre parso particolarmente in sintonia con Zevon, questo è senza dubbio Phil Cody, cantautore e rocker oriundo dell’Ohio, ma da anni di base a Venice in California. Sono anni che Cody latita dal mercato discografico, credo che l’ultima apparizione sia stata proprio su uno dei due tributi a Warren Zevon, ma in realtà non ha mai smesso di comporre e suonare, anzi, ho avuto la fortuna di ascoltare parte del suo nuovo repertorio mentre lo stava rifinendo in studio e spero vivamente che queste nuove cose vedano presto la luce. Lo scorso febbraio, comunque, Cody ha messo in vendita online questo nuovo disco, tutto in onore del maestro e amico Zevon, che lo aveva ribattezzato Professor Shoemaker e voluto come spalla durante i suoi tour.

Dodici brani, ripescati un po’ da tutti i dischi di Zevon, registrati tra l’estate e l’autunno del 2013, perlopiù con il solo contributo di Steve “Guitar” McCormick, da anni amico e chitarrista di Cody, che ha accompagnato anche in un paio di tour italiani e che qui siede anche in veste di produttore suonando con Cody quasi tutti gli strumenti, salvo qualche comparsata di altri amici come il batterista Andy Kamman, il mandolinista Matt Cartsonis e il bassista Eric Lynn.

Un tributo molto intimo quello di Cody, che rilegge con passione, devozione, commozione le canzoni di Warren. Rispetto alle versioni originali scompare quasi del tutto il pianoforte – lo strumento di Zevon – e a pennellare i brani ci sono una moltitudine di strumenti a corda che McCormick sa introdurre e suonare come pochi, sia che si tratti di arpeggi, sia che siano svisate di bottleneck (McCormick è un cultore sfegatato di Lowell George). Il tutto registrato con una meticolosa attenzione all’unitarietà del suono. Indifference Of Heaven raggiunge qui un’intensità struggente, Don’t Let Us Get Sick non è da meno, Splendid Isolation – da sempre presente nelle scalette live di Cody – oltre ad essere una delle più belle composizioni di Warren è anche un’intensa cover. Johnny Strikes Up The Band viene spogliata del suo groove rock e rivestita da un bel mandolino, Boom Boom Mancini è il brano che apre il disco, ben supportato dalla batteria di Kamman, Mutineer è un’altra canzone intensissima con la slide che tesse armonie sotto il cantato, Hula Hula Boys mantiene tutte le sue malinconiche atmosfere hawaiane e Cody la canta con maestria doppiando la propria voce come solo lui sa fare. Play It All Night Long si regge quasi in toto su un arrangiamento di spoglie percussioni, mentre il finale è affidato a Lord Byron’s Luggage una delle composizioni recenti di Zevon, ancora con Kamman alla batteria, e a una bella rilettura di Desperados Under The Eaves, uno dei capisaldi del repertorio zevoniano, che era anche in chiusura del suo primo imperdibile lavoro su Asylum. Il disco è disponibile in download sul sito http://philcody.bandcamp.com/

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