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PAT TRAVERS – Feelin’ Right

di Paolo Baiotti

17 maggio 2015

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PAT TRAVERS
FEELIN’RIGHT – The Polydor Albums 1975-1984
Polydor/Universal 2015

Pat Travers, canadese nato nel 1954 a Toronto, dotato di una voce aspra e non particolarmente gradevole, ma chitarrista di notevole qualità, ha avuto un periodo di discreta popolarità verso la fine degli anni settanta, pur restando in secondo piano rispetto a solisti come Ted Nugent o a gruppi come Aerosmith e Kiss. Analogamente ad altri chitarristi (penso a Frank Marino, Ronnie Montrose, Mike Pinera, Robin Trower e Rick Derringer) è stato considerato e stimato da molti colleghi e si è costruito una carriera senza particolari vette, con dischi apprezzabili che hanno venduto con una certa regolarità. Il recente box quadruplo della Polydor ripropone integralmente otto dischi del suo periodo migliore, l’intera produzione dagli esordi al 1984 per la label, ad eccezione di Crash And Burn (1980) stranamente escluso, forse per motivi di diritti anche se originariamente pubblicato dalla stessa etichetta.

Scoperto da Ronnie Hawkins che lo scelse come chitarrista, Pat decise di trasferirsi a Londra nel ’74 dove firmò per la Polydor, esordendo con l’omonimo album l’anno successivo. Nella band c’è già il bassista inglese Peter “Mars” Cowling che resterà con Pat fino all’83, tornando nell’89 fino al ’93. Il suono è un hard rock con influenze blues e rock and roll che si manifestano nelle covers di Boom Boom e Mabellene e un certo gusto nella melodia, evidenziato dalla morbida Magnolia di JJ Cale. In Makin’ Magic (1977) alla batteria siede Nicko McBrain (futuro Iron Maiden); il suono è molto più sicuro e personale e cresce anche la qualità dei brani autografi. Spiccano la title track, l’intensa ballata Stevie con un ottimo assolo e la cover di Statesboro Blues con ospite Brian Robertson dei Thin Lizzy. Putting It Straight (1977) è nella scia del precedente, hard rock solido impregnato di blues con venature funky e soul, limitato dalla voce poco attraente del leader. Il rock grintoso di Life In London e Speakeasy (con la seconda chitarra di Scott Gorham) e la sofferta Dedication con tastiere e sax in primo piano oltre a una chitarra limpida e melodica mi sembrano gli episodi più significati di un buon disco. Heat In The Street (1978) è il primo album della Pat Travers Band, che comprende oltre a Cowling il secondo chitarrista Pat Thrall (ex Stomu Yamashta’s Go e Automatic Man) e il solido batterista Tommy Aldridge. Crescono di pari passo popolarità, qualità compositiva e compattezza del suono, evidenziate dalla trascinante Heat In The Street, dal rock potente e intransigente dello strumentale Hammerhead e dalla conclusiva ballata One For Me And One For You venata di reggae con Pat anche alle tastiere.

E’ il momento di un disco dal vivo, dopo un tour di grande successo in compagnia dei Rush. Go For What You Know (1979), registrato tra gennaio e febbraio in Texas e Florida, è un ottimo riassunto dei primi quattro dischi, fotografando l’eccellente dialogo tra le due chitarre, quella più tradizionale e legata al blues di Travers e quella più veloce e moderna di Thrall, anticipatore dello stile di Van Halen e del metal degli anni ottanta. Il rock blues solido di Hooked On Music, il funky-rock di Gettin’ Betta, l’esplosiva versione di Boom Boom (Out Go The Lights) e la drammatica Stevie con l’introduzione vibrata e il dual sound delle chitarre sono le tracce migliori di un album che proietta Travers nei Top 40. Crash And Burn consolida questa posizione salendo al n.20, ma l’ascesa è al capolinea. Quando esce RadioActive (1981) la band è implosa, tanto che il disco è intestato al solo Pat Travers. Thrall e Aldridge partecipano alle registrazioni, ma lasciano prima della pubblicazione, il primo per formare una band con l’ex Deep Purple Glenn Hughes, il secondo per raggiungere Ozzy Osbourne. Il disco cerca di adeguarsi alle tendenze degli anni ottanta: meno chitarra, più tastiere, un po’ di elettronica, convincendo solo parzialmente. Da dimenticare la ballata I Can Love You e lo strumentale Untitled, da salvare Play It Like You See It. Il cambio di direzione è confermato da Black Pearl (1982) che contiene l’ultimo singolo di discreto successo di Pat, I La La La Love You, ma anche un’evitabile esecuzione di The Fifth di Beethover e una cover poco brillante di Misty Morning di Bob Marley. Il periodo Polydor è chiuso da Hot Shot (1984) che raggiunge solo il n. 108 in Usa, tornando ad un suono più rock nel momento sbagliato. Pat trova un valido appoggio nella chitarra di Jack Riggs (che lo accompagnerà fino al ’93), ma si circonda di session men e appare poco incisivo e convinto, ad eccezione del rock energico di Killer e di In The Heat Of The Night. La label lo scarica, il musicista continua a suonare dal vivo in circuiti minori e tornerà in sala di registrazione solo nel ’90, trovando una nicchia in ambito rock-blues con la Blues Bureau del produttore Mike Varney.