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White Lies in Concerto – Alcatraz, 17 febbraio 2010

di admin

20 febbraio 2010

Articolo scritto da Anna Almanza

Bugie innocenti EPPURE emozionanti verità.

La critica musicale ci aveva avvertiti: un gruppo di veri emulatori, abilmente costruiti sulla falsa riga di Joy Division & Co.

EPPURE non ci avevano avvisato che questi ragazzi sanno esattamente chi sono, interpretando una musica e uno stile che loro stessi amano. Ascoltare una band dal vivo forse ha questo vantaggio: respirarne l’affiatamento, notarne l’abilità, la flessibilità, l’impegno e la consapevolezza di non essere superiori a nessuno, ma probabilmente solo secondi, terzi, (ma anche quarti…), insieme a molti altri.

Così, non mi stupisco di trovarli vestiti in camicia nera (ad eccezione del bassista che di nero aveva una maglietta…) come ci hanno abituato gli Interpol, o di notare una certa somiglianza del leader allo stile del miglior Ian Curtis, sguardo cupo e animo dannato.

EPPURE, il set è divertente, potente, compatto, coinvolgente e quasi genuino. Dopo i primi brani (la setlist si apre con l’energica “Farewell to the fairground”, cui seguono “Taxidermy” e la cupa “The price of love”) Harry Mc Veigh (voce e chitarra) ringrazia il suo pubblico dal quale non si aspettava probabilmente tanta accoglienza e ribadisce: “Noi siamo solo i White Lies…” quasi una dichiarazione di umiltà al cospetto dei predecessori che emulano con garbo e senza pretese, con franchezza e trasparenza, con trasporto e moltissima concentrazione.

La platea si scalda con l’incalzante singolo che li ha lanciati in tutto il mondo “To lose my life”, ma a cui dedicano giustamente poco spazio, (visto il consenso già fuori dal palco) e nonostante faccia ballare tutti indistintamente (anche la sicurezza batteva il tempo!).

Reinterpretando tutte le canzoni del loro unico album (“To lose my life”, uscito proprio a gennaio dell’anno scorso), i White Lies ci regalano la loro più personale “E.S.T., anche se probabilmente la meno coinvolgente tra il pubblico e “A place to hide” che scorre un po’ senza lasciar traccia, ma ci emozionano con “Unfinished Business” (vedi alla voce Joy Division) che preannuncia, in realtà, la fine della serata.

Una breve pausa fa da sponda tra uno stupendo successo del passato dei Talking Heads (“Heaven”) e un più ritmato presente che chiude con “Death”: il culmine di una perfetta sinergia tra una chitarra tagliente, intrecciata ad un basso mai banale e sintetizzatori e organi in perfetto stile anni 80.

Probabilmente anche questa volta la critica non esalterà le grazie di un’originalissima band; parlando di 12 tracce più o meno patinate, che omaggiano i Joy Division, passando per l’energia degli Editors e il carisma degli Interpol, saranno intitolati i “sopravvalutati” o qualcosa del genere.

EPPURE, mercoledì, all’Alcatraz, ci sono piaciuti davvero.