ROGER LEN SMITH – Anything Goes

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ROGER LEN SMITH – Anything Goes (2018)

Erano alcuni anni che Roger Len Smith non ci faceva sentire la sua musica. Per la precisione dal 2009, anno di pubblicazione del piacevole Clear Blue Sky, nel frattempo, da Austin, Texas, si è trasferito con la famiglia in Colorado, altro stato dove la musica indipendente riesce a ritagliarsi dei begli spazi. Questo Anything Goes è il suo sesto disco, e ci conferma quanto l’artista sia maturato dai tempi del suo esordio solista risalente ormai a vent’anni fa.

Naturalmente tra un disco e l’atro Roger non ha dormito, ha suonato molto dal vivo, come solista e come turnista (in Italia lo abbiamo visto nel 2014 al seguito di Phil Cody, amico storico, che raggiunge sul palco non appena possibile, oltre che sui dischi).

Dopo il trasferimento in Colorado, Roger ha assemblato le dieci nuove composizioni, però per registrarle ha deciso di tornare in Texas, nella pacifica e romantica Wimberley, lungo le rive non sempre tranquille del Blanco River: lì, l’amico A.J. Downing – produttore e cantautore in proprio, in questo disco anche banjoista – ha costruito letteralmente con le proprie mani un piccolo studio confortevole che ha visto nascere Anything Goes.

Diciamolo subito, questo è un bel disco, fatto in casa ma ben suonato, con suoni equilibrati ben tesi a mettere in luce i lavori delle molte chitarre impiegate: Roger dal canto suo è davvero maturato e cresciuto bene come autore, e la sua voce viene impiegata al meglio, grazie anche alle armonie di Nöelle Hampton del duo The Belle Sounds, di cui fa parte anche il marito Andre Moran, che nel lavoro di Roger suona la chitarra elettrica.

Il disco si apre subito con un brano che presenta lo spessore del prodotto, Can’t Wait For Another Day, una composizione dal tiro rock’n’roll caratterizzata da una lap steel che ricorda i suoni del miglior David Lindley quando suonava nei dischi di Jackson Brown; il brano successivo conferma la bontà della prima impressione: s’intitola Rain On A Sunny Day una canzone ben riuscita (con la lap steel sostituita dalla più morbida pedal steel) che ospita Rami Jaffee (qui al vibrafono, ma già all’organo con i Wallflowers, Phil Cody e ora con i Foo Fighters). La title track non fatica a rivelarsi come una delle canzoni memorabili del disco, piuttosto lunga, con bei lavori delle chitarre: oltre a Moran c’è il prodigioso Kim Deschamps (Cowboy Junkies soprattutto e molto altro, tra cui anche Bruce Cockburn) che nel disco si alterna a pedal steel, lap steel e dobro con estrema ispirazione e bravura.

Il songwriting di Roger Len Smith è scorrevole, passa con tranquillità da temi di carattere universale ad argomenti più politici, senza dimenticare la sua vita personale; e il tutto contribuisce alla piacevolezza del disco. La scuola cantautorale di marca californiana anni settanta si sposa alla perfezione coi più moderni suoni “americana”.

Warren Zevon è l’autore che viene in mente ascoltando l’attacco di Leaving It All Behind, forse non un caso visto che Roger, negli anni novanta, al seguito di Cody ha suonato spesso come opening act per Zevon, ma c’è anche un po’ di Dylan nell’aria, per via del modo di suonare nell’armonica del titolare. La pedal steel e un ritmo cullante vagamente folk sono alla base di House Of Cards mentre Empty ha un giro vagamente fifties e di nuovo si può ben sentire il contributo di Rami Jaffee. Atmosfere acustiche, con tanto di dobro, stanno alla base della canzone che Roger dedica ai figli Zander e Zoey, quasi una filastrocca che proprio dai loro nomi prende il titolo; Got To Thinkin’ è invece di nuovo robusto rock, con le chitarre in tiro e un riff rollingstoniano, a dimostrazione della versatilità e della profonda conoscenza che Smith ha dell’intero panorama musicale di matrice rock. Suggestione di stampo The Band arrivano invece da Aim, soprattutto nell’uso delle chitarre, mentre la conclusiva Down At Juniors è di nuovo una riuscita canzone veloce con suono in bilico tra chitarre acustiche ed elettriche.

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