MALCOLM HOLCOMBE – Another Black Hole
di Ronald Stancanelli
9 settembre 2016
MALCOLM HOLCOMBE
Another Black Hole
2016 PROPER/RAT/IRD
L’anno scorso parlammo di Holcombe in occasione dell’uscita del suo cd/dvd RCA Sessions.
Another Black Hole dovrebbe essere il suo quattordicesimo album e siamo ancora qui a parlare di questo artista/cantautautore non di grande presenza ma di notevole impatto emotivo, magari un po’ maledetto nel senso che il suo trand/look non cambia mai presentandosi sempre come l’ultimo dei disgraziati. Analizziamo il suo incedere da mauvais artiste che ce lo fa per l’ennesima volta collocare in quel limbo grigio, stretto e dinoccolato ove sembra trovare il suo giusto ambito. Testi al limite della più consunta disperazione, aria fallita dell’eterno e disperato perdente tra i perdenti, suoni grevi, a tratti tetri, gretti, che lo accompagnano nelle sue idiosincrasie narrate con voce lancinante ma, che lo rendono piacevolmente simpatico e che ha la capacità di farsi ascoltare e con le doti di rapire i suoi ascoltatori che lo seguono con estasiato silenzio, magari domandandosi come fanno a convivere questa sua trasandata postura con questo look clochardiano con la sua vena artistica capace di tenerti ancorato in silenzio ed attenzione nel suo ascolto. Indubbiamente questo vale in particolare per quanto concerne il suo lato live ma anche quando lo si ascolta su disco non è facile scindere le due cose. Fattostà che questo ennesimo suo lavoro, il capolavoro comunque resta il lontano A Hundred Lies, affascina ancora, in questo frangente con l’aiuto di Dave Roe al basso, Jared Tyler al mandolino, banjo e dobro e il batterista Ken Koome, già Wilco oltre che della presenza a sorpresa di Tony Joe White alla chitarra elettrica. Il disco è scuro e dark come più o meno gli altri però, forse avvalendosi di T J White, scorre più fluido, in maniera duttile con i suoni che come un fiume in discesa trovano le loro collocazioni. September, tra il recitato e il declamato porta echi e fantasmi del buon Townes mentre Leavin‘ Anna è ballata che si colloca tra le sue cose migliori. Certo non troveremo mai nei suoi album la solarità di un Jimmy Buffett ma restiamo ancorati e ormai accettiamo ed apprezziamo la sua immagine tormentata , a tratti sofferente, che ci regala intense brevi storie di uno storyteller tra i più disordinati tra tanti che abbiamo conosciuto ed apprezzato. A volte sembra arrivi da un passato dickensiano Ogni suo disco è comunque sempre una promessa mantenuta e indipendentemente da come e ciò che racconta è artista che sa farsi seguire con affetto ed attenzione. Prodotto da Ray Kennedy si giova di una copertina che forse neanche i Sex Pistols dei momenti più acerbi e più bui avrebbero osato dato alle stampe. Qua tra ratti rinsecchiti, bottiglie vuote, vetri rotti, tende strappate, toppe e miserie varie forse sarebbe d’uopo un bel amuleto tra le dita mentre si estrae il cd da appunto cotanta infelice e misera immagine di copertina, sorvolando poi sul titolo del disco…………… che comunque è nei suoi dieci brani decisamente avvincente.