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VARIOUS ARTISTS – Look Again To The Wind

di Paolo Crazy Carnevale

16 novembre 2015

lookagaintothewind

VARIOUS ARTISTS
Look Again To The Wind
(Sony 2014)

La moda degli album tributo, che a cavallo tra secondo e terzo millennio ha spopolato fino a “rompere I cabbasisi” – per dirla con Andrea Camilleri –, pur attenuata continua a supplire alla mancanza di idee ed inventiva che ha fiaccato il mercato discografico nell’ultimo paio di decenni. Per carità, di cose belle se ne sono ascoltate tante anche recentemente, diciamo che bisogna scremare molto di più di quanto non si dovesse fare in altre epoche. Tra le varie tipologie di disco tributo quella che stiamo per affrontare è forse la più particolare e interessante – come idea di base, poi bisogna sempre vedere come viene svolto il compitino a casa. Si tratta del tributo non ad un artista, ad un gruppo o a un movimento musicale, bensì dell’omaggio ad un disco particolare, cosa a suo modo difficile da fare, soprattutto se si tratta di disco importante e particolarmente significativo. Ci sono tributi di diversa natura: da quelli di band consolidate come Gov’t Mule e Phish che in determinate occasioni eseguono dal vivo e per intero un disco altrui a cui sono particolarmente legati (ricordo ad esempio i primi alle prese con Who’s Next e House Of The Holy ed i secondi con il White Album e Waiting For Columbus), o band meno note come i Confederate Railroad intenti a risuonare per intero Tonight’s The Night. Ci sono poi i tributi di genere, come uno recentemente uscito in cui Tommy subisce il trattamento in stile bluegrass, cosa per altro accaduta anche The Joshua Tree, o quello jazz di Fared Haque a Deja Vu.

Il disco di cui sto per occuparmi è del tipo “vari artisti uniti nello spirito evocativo di un disco mitico”: era già accaduto con una analoga rivisitazione di Frisco Mabel Joy, ora la cosa si ripete con altri protagonisti che rileggono accoratamente il disco di Johnny Cash Bitter Tears, pubblicato nel 1964 e omaggiato con questa rilettura a cinquant’anni dalla sua uscita. Non si tratta di un disco qualunque: quando vide la luce nel 1964 i tempi non erano certo maturi per un’apologia dei nativi americani, tanto meno attraverso le canzoni di un loser totale come Peter Lafarge, ma Johnny Cash era Johnny Cash e la sua coraggiosa operazione fu comunque premiata con un secondo posto nelle classifiche country ed un quarantasettesimo in quelle pop, senza scordare il terzo posto del singolo tratto dal vecchio vinile, The Ballads Of Ira Hayes.

Nel disco originale, Cash univa alle splendide canzoni (soprattutto nelle liriche) di Lafarge un paio di brani in tema scritti di suo pugno ed uno di Jimmy Horton, il risultato fu un bell’omaggio ad una razza in via di estinzione attraverso a canzoni cantate con quel piglio combat-country di cui Cash solo era capace.

E forse proprio qui risiede il problema di questo tributo, pur bello e accorato, che celebra i cinquant’anni di Bitter Tears: il piglio con cui erano suonate e cantate le canzoni sull’originale.

Il manipolo di artisti coinvolti è un team da brivido, bravura e capacità al limite dell’immaginabile, alle prese con un repertorio quasi da leggenda, riproposto però in maniera un po’ sommessa. I suoni sono splendidi, e vorrei vedere, con calibri del tipo Greg Leisz, Norman Blake, Sam Bush, Bill Miller, David Rawlings, Patrick Warren che tessono trame molto raffinate. Per non dire dei vocalist! Ma secondo me manca la spinta, il disco sembra troppo adagiato, quasi adeguato al buonismo eccessivo degli ultimi anni, persino Steve Earle, uno che quanto ad essere “combat” non ha rivali, canta la canzone su Custer con tono remissivo. Non si discute la bravura, Emmylou Harris è fantastica nel dare voce ad Apache Tears (ripresa a metà disco con arrangiamento analogo da Rawlings e da Gillian Welch), e che dire del vero e proprio inno As Long As The Grass Shall Grow eseguita in doppia versione? Forse troppo: la prima è praticamente acustica e cantata dalla Welch e Rawlings (che sono un po’ i coordinatori del progetto), dura oltre nove minuti, troppi, soprattutto alla luce del fatto che verso la fine del disco, i due – accompagnati dai coniugi Blake riprendono il brano per altri tre minuti e mezzo. I contenuti sono sacrosanti, non si discute, ma forse si poteva stringere un po’…

Lo stesso vale per The Talking Leaves, brano di Cash sui trattati con gli indiani, tirato per oltre sei minuti. Tra le cose più apprezzabili del disco c’è sicuramente Drums, uno dei più bei brani di Lafarge, qui cantato da Norman Blake – che suona naturalmente anche la chitarra – accompagnato dai soliti Welch e Rawlings, peccato che più o meno in contemporanea lo stesso brano sia uscito su un dieci pollici uscito per il Black Friday in una più robusta versione ad opera del redivivo Floyd Westerman (ricordate “Balla coi lupi”?) e dall’ex Doors John Densmore.

Le cose meglio riuscite sono sicuramente la Ballad Of Ira Hayes cantata da Kris Kristofferson – lui sì che ha l’approccio giusto per cantare queste canzoni! – e The Vanishing Race (il brano di Jimmy Horton) cantato in maniera stentorea da Rihannon Giddens (quella dei Carolina Chocolate Drops e dei New Basement Tapes) . Rispetto al disco originale, questo tributo include un ulteriore brano a firma Lafarge, quello che da il titolo al disco, cantato da Bill Miller con un filo di voce ed un arrangiamento minimale ma bello.