JESSE DENATALE – The Hands Of Time

Jesse DeNatale

Jesse DeNatale – The hands of Time (Blue Arrow Records 2023)

Notevole ritorno per questo cantautore che ha ormai al suo arco (il termine è quanto mai appropriato vista l’etichetta per cui incide) un discreto numero di dischi, il precedente the Wilderness ci era piaciuto e non può non piacere questo nuovo prodotto che si autodefinisce un disco estivo, per il fatto che l’estate è la stagione in cui sono ambientate le canzoni.

DeNatale è dotato di una felice vena creativa, le sue canzoni si lasciano ascoltare con una facilità estrema, che non è un fattore da sottovalutare. Non lasciatevi fuorviare dal fatto che tra i suoi estimatori ci sia Tom Waits, la voce e lo stile di Jesse, nativo californiano, sono ben distanti da quelle del suo estimatore: l’attestato di stima da parte del rauco Tom sia comunque preso in considerazione come apprezzamento da parte di uno che di musica se ne intende.

Il disco inizia con la piacevole Right Before My Eyes, canzone dall’andamento lirico, con Jesse alla chitarra acustica e al piano, accompagnato solo dalla batteria di Nino Moschella, produttore e polistrumentista, e dal violino di Alisa Rose: ci sono già tutte le coordinate per capire che disco abbiamo per le mani, Sweet Arrival ci conferma il buono stato dell’ispirazione del nostro, la base musicale è sempre minimale, in punta di un pianoforte che diventa mano amano sempre più importante, Where Am I è un altro brano riuscito, qui l’apparato strumentale si arricchisce di una chitarra elettrica mai invadente opera di Tom Heyman, apprezzabile cantautore californiano passato anche per il nostro paese qualche anno fa in veste di accompagnatore di Dan Stuart. Probabilmente l’accompagnamento ritmico di The Hat Shop è l’unico momento del disco che si accosta allo stile del mentore Waits, ma il cantato va in tutt’altra direzione, complici anche i coretti del produttore.

Love Is ha un solido impianto ritmico, DeNatale ricorda qui in qualche modo il Lou Reed più tardo, più per il modo di cantare che per le sonorità in cui il piano è sempre determinante, anche se buona parte dell’ossatura poggia sul suono dell’organo ad appannaggio di Moschella.

Streets of Sorrow vira verso un lento andamento swingato, con la batteria spazzolata, e ha una lunga coda strumentale su cui organo e chitarre ricamano, più cupa la struttura di Stop The World con un assoletto di armonica del titolare; tra le canzoni più belle del disco arriva quindi quella che gli dà il titolo, una composizione più lunga dove ritorna l’elettrica di Heyman, impegnato qui anche alla pedal steel.

Intima la struttura di Station Master, cantata in punta di piedi con qualche colpo di percussione e con la pedal steel di Heyman a tessere il sottofondo. Archi e poca chitarra sono l’abito del brano conclusivo, Late September che come il precedente ha le percussioni inserite nel mix con eccessiva cupezza e distorsione.

Paolo Crazy Carnevale

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