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RAWSTARS – Rawstars

di Paolo Crazy Carnevale

14 ottobre 2023

rawstras

RAWSTARS – Rawstars (Route 61 2022)

Sappiamo che c’è chi diffida a priori dei dischi rock italiani. Ed è un peccato, perché ormai dovrebbe essere ampiamente dimostrato che in Italia si può fare dell’ottimo rock, come si fa anche dell’ottima musica derivata o di genere americana, ma anche heavy metal, rock sudista e via dicendo.

Questo disco dei romani Rawstars rientra di diritto nel novero dei migliori album italiani di rock, non classic rock, non rock estremo, rock a 360°. Il quartetto è formato da Francesco Lucarelli (voce e chitarra), Fabrizio Settimi (basso), Marco Molino (batteria) e Marco Valerio Cecilia, titolare di una chitarra solista poliforme e lirica.

Se il nome di Francesco Lucarelli non vi è nuovo del tutto, vi diremo che è uno dei più assidui frequentatori italici dell’universo CSNY (ne conosco almeno un altro paio, ma ce ne sono molti), un frequentatore/amico visto che la sua passione per questi musicisti è talmente profonda e sincera che è arrivato a stringere amicizia con loro e buona parte dei loro sparring partner, tanto che più o meno in contemporanea col disco è uscito anche un suo libro dedicato a Crosby, Stills & Nash, un libro ricco di rare fotografie e rare testimonianze.

Ma non facciamoci trarre in inganno: non è la musica di CSNY o CSN che troviamo all’interno del CD dei Rawstars, è musica originale, non derivativa, puramente rock. Certo, qualche influenza la si può anche trovare, come ad esempio nei cori di Don’t Lock Me Down, degna del miglior Neil Young coi Crazy Horse (cori inclusi), qua e là ci sono le staffilate di chitarra elettrica, altrove c’è qualche coro che rimanda a CSN, ma per il resto il contenuto del disco è tutto farina del sacco Rawstars.

La tripletta iniziale potrebbe valere il disco (ma faremmo un torto ad altri brani), tre canzoni una più riuscita dell’altra, belle e schiette, ben costruite sotto ogni profilo: si comincia con Sometime da cui capiamo pure che Lucarelli è dotato di una buona voce che non va a imitare nessuno, poi Watching The Show si presenta come uno dei brani di punta, mentre la citata Don’t Lock Me Down è adrenalina pura, bel riff, ed è il primo brano del disco a sfoderare ospiti da paura. Ci sono infatti la voce di Inger Nova e la slide di Jeff Pevar, marito e moglie, coppia artistica, lui con un curriculum che partendo da Marc Cohn, Joe Cocker e Ray Charles è arrivato a Crosby (sia solo che con CPR e CSN). Paper Girl non è da meno, c’è l’organo hammond dell’amico Gianluca Sabbi, titolare di quasi tutte le tastiere del disco, e ci sono chitarre arroventate nella parte centrale che rimandano ai duelli chitarristici Stills/Young di fine anni sessanta.

Faster Than The Light è un brano più intimo, all’insegna della raffinatezza, lo canta Marco Valerio Cecilia in duetto con Luisa Capuani mentre ospite alla pedal steel c’è l’eccelso Greg Leisz.

Vorrei aprire qui una parentesi sugli ospiti: a qualcuno verrà da pensare che magari tutti questi artisti da Olimpo suonino nei dischi di solisti e gruppi italiani (non mi riferisco solo ai Rawstars) solo per amicizia, ma non è così, gente di questo livello non si espone se non crede nel progetto e nella bontà del materiale!

Con Follow You torna l’elettricità e torna la voce di Lucarelli, anche qui il riff è molto sostenuto, per contro con If I Were An Angel siamo al cospetto di un blues anomalo un po’ in stile Stephen Stills, sempre egregie le parti di chitarra, ma quello che colpisce è la presenza dell’organo Hammond-B3 di Mike Finnigan, a più riprese tastierista sia del solo Stills (fin dai tempi della California Blues Band che arrivò fin da noi nel 1980) che di CSNY, oltre che titolare di interessanti dischi solisti: il suo lavoro in questo brano è oltre gli applausi, la chitarra di Cecilia duetta alla perfezione. Peccato che Finnigan sia scomparso appena dopo queste registrazioni, che potrebbero essere quindi la sua ultima testimonianza su disco. Il brano seguente, Let Me Take You Higher è una canzone d’amore dedicata da Lucarelli alla moglie, un brano che parte lento e cresce poco a poco fino all’esplosione del refrain, la chitarra slide e i cori sono stavolta di Gianluca Galletti. Il finale in odore di psichedelia beatlesiana va sapientemente a citare addirittura Dear Prudence, andando po a sfociare nell’attacco altrettanto psichedelico di Fly Someday tutto costruito sulla pedal steel di Leisz in una sorte di omaggio allo stile di Jerry Garcia e ai suoni di If I Could Only Remember My Name, forse l’unico momento del disco decisamente ispirato ai beniamini di Lucarelli. Il banjo e la mandola sono opera di Stefano Santangelo.

Il disco si chiude con Summer Night Blues (con fiati, piano arzillo e un riff degno di Keith Richards) e con l’intima e breve How Could I’ve Been So Blind di nuovo cantata da Marco Valerio Cecilia, unici strumenti le chitarre e una tromba alla Mark Isham.

Bravi davvero!

Paolo Crazy Carnevale