EXIT STAGE LEFT – Appleberry Trees

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EXIT STAGE LEFT
APPLEBERRY TREES
XPRNC 2023

Se un gruppo decide di chiamarsi Exit…Stage Left, è inevitabile pensare al doppio dal vivo dei canadesi Rush dell’81. In effetti il nome del quartetto svedese di Boras è ricollegato a questo disco e di conseguenza la loro musica trae ispirazione dai Rush nonché da altri gruppi degli anni settanta come Yes, Kansas e Pink Floyd. Siamo ovviamente in ambito rock/prog, anche se nella musica della band l’influenza maggiore sembra quella dei Rush o degli Yes degli anni ottanta, quindi meno prog e più radiofonici con venature new wave. Appleberry Trees è un disco concept di 10 brani che intendono raccontare l’evoluzione di un uomo dalla fanciullezza all’età matura, con gli alti e bassi legati alla vita. Si parla di crescita, di sviluppo mentale e fisico, di speranze non del tutto realizzate nel corso del viaggio, nelle immagini e nelle musiche create soprattutto dal leader Arvid Wilhemsson (voce e chitarra), che nel 2019 ha conosciuto il bassista Robin Hellsing in un parcheggio, invitandolo a jammare. Successivamente si sono uniti il tastierista Daniel Larsson e il batterista Jimmy Svahn. La pandemia ha permesso alla band di provare a lungo e di sviluppare le canzoni che fanno parte dell’album, pubblicato in cd e in doppio vinile con i disegni evocativi di Mattias Kvick. Un disco atipico per questo periodo storico, anche se in Svezia c’è una tradizione prog. L’apertura di Piece Of Gold, uscito come singolo apripista, richiama i Rush dei primi anni ottanta, melodici e radiofonici, con le tastiere in primo piano nei break strumentali, la voce accattivante di Arvid e l’intervento del flauto dell’ospite Jan Bengtson. Good People ha un andamento drammatico e un cantato più solido, mentre End Of The Night ha un’introduzione di tastiere sinfoniche e batteria che precedono la parte cantata punteggiata dal synth in cui si inserisce una chitarra incisiva con un finale di impronta prog, seguita dalla melodica title track, una quieta ballata pianistica che ricorda Steven Wilson. Vagabond’s Trees è la traccia più lunga e anche quella più vicina al prog classico, con echi di Jethro Tull e PFM e una coda folk/rock. Si prosegue con il rock epico di Son che cambia ritmo nella parte finale un po’ confusa, con l’eterea Shine Through e con The Poet, che si riavvicina al prog di matrice britannica con un tappeto di tastiere che precede l’entrata della voce. Le due tracce finali, Old Man Smile e Champs-Elysées, sono le più leggere e forse meno convincenti di un disco che, comunque, regge piuttosto bene nei suoi cinquanta minuti abbondanti di durata.

Paolo Baiotti

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