RON LASALLE – Roads Taken

ron lasalle

RON LASALLE – Roads Taken (Appaloosa/IRD 2023)

Le coordinate sono indubbiamente quelle giuste, bastano le prime note del disco per farci capire che le intenzioni di Ron Lasalle sono più che ottime, l’impasto sonoro è degno del miglior rock made in U.S.A. di stampo anni settanta, prima della plastica, prima dei synth, prima delle svolte mainstream che più avanti hanno infarcito la musica dei puri di cuore come Lasalle.

Gipsy Road, la strada zingara, è la prima delle vie intraprese (citando letteralmente il titolo del disco) dal nostro, una bella amalgama di chitarre, organo, sezione ritmica precisa. Peccato per la voce di Ron che non riesce ad essere sempre all’altezza, in particolare in questo brano e nel successivo Then I Loved You, mancando qua e là l’intonazione e peccando in estensione.

Deve averla consumata lungo le strade intraprese la voce, questo rocker di vecchia data, tanto avaro nella produzione discografica quanto generoso nel concedersi sui palchi d’ogni angolo d’America. Spiace un po’ perché il disco ne viene penalizzato. Viene un po’ da pensare a Donnie Fritts, grande autore e sideman, ma vocalmente talmente poco dotato da sminuire i suoi rari dischi solisti, cosa che per altro non ha impedito al suo primo lavoro di divenire un oggetto di culto.

Si diceva bene dell’amalgama sonora, e altrettanto bene vogliamo dire della vena compositiva di Lasalle che scodella qui una decina di brani solidi e belli come raramente accade di ascoltare tutti sul medesimo supporto: We Swore We’d Fly, terza traccia del CD è una ballad cadenzata, con chitarre gemelle, assoli brevi e un organo ficcante e importante (Bobby Jones), perdipiù qui c’è anche la voce che funziona bene e rialza le quotazioni del lavoro. Ron sembra qui accostarsi al cantato di Gregg Allman e le twin guitars di Brent Little (altrove impegnato come batterista e tastierista), Dave Martin (che in buona parte del disco è anche il bassista) e Frank Grizanti sono degne del miglior southern rock.

Ginny è un’altra composizione azzeccata, con le stesse carte vincenti, il suono è paludoso e sembra chiamare in causa anche certe atmosfere laid back degne della premiata scuola di Muscle Shoals, in Without A Sound c’è anche la sezione fiati con in vista la tromba di Mitch Goldman ed il brano è un’altra piccola grande certezza. Peccato poi che The Rest Of Our Lives veda il titolare giocare a fare il jazzista su un motivo in stile New Orleans che sembra un brutto esercizio di stile, tra vocalizzi risaputi e la sordina sulla tromba di Goldman. Sono meno di tre minuti ma disturbano, fortunatamente il rock energico, stavolta siamo in odor di Bob Seger, torna con That Was Then confezionato da un muro sonoro di chitarre slide. Per tirare il fiato, Lasalle s’inventa una ballata pianistica, col solito Dave Martin che salta da uno strumento all’altro, intitolata Somewhere After Goodbye in cui si odono reminiscenze della musica di Randy Newman. Ad impreziosire il risultato c’è un solo di sax ad opera di Alto Reed (proprio quello della Silver Bullett Band di Seger). Il modello Seger è poi dominante in The Spice brano galoppante e con la sezione fiati usata molto bene insieme al piano di Martin. Il break centrale concede ad ogni musicista il giusto e meritato spazio. A chiudere il disco, spostando l’asse verso il sound di Asbury Park, c’è Still Got Someday, che porta alla memoria il miglior Southside Johnny, con fiati e cori in evidenza.

Paolo Crazy Carnevale

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