MICHAEL McDERMOTT – Willow Springs

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MICHAEL McDERMOTT – Willow Springs (Pauper Sky/Appaloosa 2016)

Devo dire che quando mi è giunto questo disco di Michael McDermott sono rimasto alquanto perplesso: avevo appena terminato di recensire il secondo disco dei Westies, la formazione con cui McDermott suona da un po’ di tempo e che di fatto è il suo gruppo, anche se la moglie Heater Horton si alterna a lui cantando di tanto in tanto. Scorrendo poi Ie note di copertina del disco mi era parso evidente che buona parte dei musicisti coinvolti in questo album da solo fossero quelli che suonavano anche nel disco di gruppo.

Al primo ascolto però ho capito quale fosse la differenza: questo è a tutti gli effetti un disco “solo”, sia per l’approccio più intimo in gran parte dei brani, sia per le tematiche affrontate dalle canzoni che sono molto più personali rispetto alle “storie” con personaggi incontrate nel disco dei Westies. Willow Springs è un gran bel disco, non che l’altro fosse brutto, ma questo ha qualche buona carta in più.

McDermott gioca in casa in tutti i sensi: il disco si intitola come il posto in cui è stato inciso e in cui McDermott vive, Willow Springs, Illinois, ed è pubblicato dalla sua etichetta personale, la Pauper Sky (che ha il nome di un brano dei Westies presente nel disco di qualche mese fa), e per finire è distribuito in Italia dall’Appaloosa che ne ha realizzato una curatissima edizione con un ricco booklet che oltre ai torrenziali testi, contiene anche la traduzione in italiano che aiuta non poco ad entrare nel mondo-McDermott.

Dodici brani che si incanalano nel genere rock d’autore all’americana, suonati bene, senza troppi fronzoli, belle chitarre, tastiere come si deve, qualche percussione, strumenti acustici a corda e quell’urgenza di mettersi a nudo attraverso liriche spesso crude e realistiche che sono il marchio di fabbrica del protagonista, un rocker dalla vita difficile, dal passato burrascoso ma dal presente infinitamente più sereno.

I riferimenti sono chiarissimi, se nei primi due brani si sente molto il Dylan stile Blood On The Tracks (ascoltate in apertura la title track, dal testo lunghissimo e infarcito di immagini che si susseguono suggerendo un’infinità di soluzioni, oppure la successiva These Last Few Days), proseguendo con l’ascolto però salta fuori prepotentemente Bruce Springsteen quello a cavallo tra The River e Nebraska: Getaway Car ne è un esempio lampante, gran canzone, a tutti gli effetti, come la seguente Soldiers Of The Same War con i controcanti azzeccati della Horton. Butterfly è un brano dall’incredibile drammaticità mentre con Half Empty Kinda Guy, con un drumming insistente ed una gran spolverata di simil-hammond, vira verso quel rock anelato in Folksinger (un paio di tracce dopo), nel cui testo il nostro dichiara di non voler essere più un folksinger appunto, e di non voler essere più cristiano, né un becchino, né un soldato, il tutto espresso con quella voce che ondeggia tra quella del boss più rilassato e quella del vetusto rocker Elliott Murphy, sicuramente un altro punto di riferimento incrollabile del suo modo di fare musica.

E se fin qui tutto va bene, il disco va verso la chiusura con quattro brani ancora migliori: Let A little Light In è una botta di positivismo, appena smorzata dalla triste ma bella Shadow In The Window ispirata dalla morte del padre (come la finale What Dreams May Come), seguita dal brano che mi piace maggiormente, quella Willie Rain che è un’autentica dichiarazione d’amore da parte di McDermott per la figlia.

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