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ETHAN JOHNS WITH THE BLACK EYED DOGS – Silver Liner

di Paolo Crazy Carnevale

19 giugno 2016

Ethan Johns Silverliner [143822]

ETHAN JOHNS WITH THE BLACK EYED DOGS – Silver Liner (Three Crows Records 2015)

Devo dire che appassionarmi a questo disco non è stata una cosa immediata, prima di esserne convinto ci sono volute parecchi ascolti, forse perché, pur trattandosi di un prodotto tutt’altro che rumoroso, necessita di un certo volume per essere apprezzato appieno. Forse anche perché la voce di Johns non mi convince del tutto. Ma è solo un dettaglio perché la musica è davvero buona, la produzione – stavolta non è Johns a sedere in cabina di regia, bensì il batterista Jeremy Stacey – azzeccata e le composizioni, pur pagando pegno ad un sacco di cose, soprattutto californiane, hanno una loro autonomia. Si sente che Johns è stato cresciuto bene, e su questo non c’erano dubbi vista la mole di buone cose da lui realizzate proprio come produttore, ma c’è anche un bel po’ di farina del suo sacco nell’assemblaggio e il fatto di servirsi di un gruppo anziché fare tutto da solo, come nei dischi precedenti, è una scelta sicuramente vincente.

La voce del nostro ricorda alla lontana Tom Petty, almeno in alcune tracce, ma non ne ha nemmeno lontanamente l’estensione, e questa è un po’ l’unica pecca di questo Silver Liner, nove brani in tutto, tre dei quali abbastanza lunghi dal poter essere considerati quasi piccole jam in cui i musicisti vengono fuori al meglio, gli altri sono belle canzoni, ognuna con la sua peculiarità e ricerca sonora. A testimonianza della moltitudine di idee che girano in testa al giovane Johns.

In particolare, oltre a tutte le chitarre suonate da lui, Johns fa tesoro della presenza in seno al gruppo del connazionale B.J. Cole, senza dubbio il più titolato suonatore di pedal steel di Gran Bretagna e dintorni, già responsabile del sound dei Cochise, una delle prime (e uniche) formazioni country rock britanniche. La title track, posta in apertura del disco è già un richiamo totale a certe composizioni del miglior Neil Young, forse anche troppo, nel senso che certi passaggi suonano sin troppo familiari, ma vale il discorso che si potrebbe fare per un altro artista della generazione di Ethan, quel Jonathan Wilson che sembra a tutt’oggi il miglior erede di certa west coast music che ci è infinitamente cara: se gente come David Crosby e Graham Nash – per dirne due a caso – componesse e si facesse produrre da gente come Johns e Wilson, anziché lavorare con i pur bravissimi gregari con cui si esibiscono dal vivo, i loro dischi sarebbero di gran lunga più belli. Fine dell’annotazione.

The Sun Hardly Rises è un’altra bella canzone e in I Don’t Mind, grazie al sound della fisarmonica e di un mandolino (quest’ultimo non accreditato) si respirano atmosfere folkie; Juanita già dal titolo fa intendere invece che ci dobbiamo attendere atmosfere ispaniche, le chitarre duettano con estremo piacere per le orecchie dell’ascoltatore e come omaggio ci sono anche Gillian Welch e Bernie Leadon ai cori. Con It Won’t Always Be This Way è invece una ballata raccolta, con un trio di archi alle spalle di Johns, siamo quasi in odor di Costello, deliziosa. Open Your Mind è country rock psichedelico allo stato puro, con la pedal steel di Cole che fa ricordare da vicino certe jam dei Poco, con Rusty Young che imitava persino le tastiere col suo strumento, di seguito Six And Nine è un’altra jam/gemma che affascina e permette alle chitarre di sviluppare temi penetranti, con l’elettrica, la steel e l’acustica che si intrecciano mentre la sezione ritmica fa la sua parte senza invadere troppo. Il disco si conclude in chiave acustica con la breve e piacevolissima Dark Fire e I’m Coming Home, altro punto di forza di questo lavoro, in cui il cantato richiama il Mark Knopfler più intimista e recente. Bella infine anche la grafica di copertina che richiama certe iconografie messicane relative al culto dei morti. Meno bene le note di copertina assai scarne: oltre al mandolino del terzo brano che c’è ma non è segnalato, non viene indicato chi suoni il pianoforte eppure in It Won’t Always Be This Way lo si sente chiaramente. Quanto a Bernie Leadon, francamente nei cori di Juanita non lo si distingue troppo, ma si dà per scontato che canti visto che lui e la Welch sono accreditati alla pari… potrebbe invece suonare la chitarra… chissà?