CESARE CARUGI
PONCHARTRAIN
2013 Roots Music Club
Se fosse nato a Little Rock o a Wichita e avesse un cognome anglosassone probabilmente sarebbe considerato uno degli artisti emergenti della musica roots americana, come Israel Nash Gripka, Amos Lee o James Maddock. Invece è nato a Cecina che si trova a quattro km. da California, ma non quella a ovest degli Usa e si chiama Cesare Carugi. Il resto non cambia: è un cantautore rock emergente, suona musica roots nella migliore tradizione americana di Springsteen e Petty e ha inciso un album che ogni appassionato di questo genere musicale dovrebbe ascoltare. Dopo il promettente esordio di Here’s To The Road, Cesare conferma con Ponchartrain doti non comuni nella scrittura di ballate melodiche che restano in testa, arrangiate con gusto e interpretate senza strafare con la preziosa collaborazione della chitarra di Leonardo Ceccanti e della batteria di Matteo D’Ignazi, con l’aiuto di un manipolo di amici scelti con cura. Il disco sembra ricalcare le suggestioni della copertina e delle foto del retro: una stanza di legno che sa di antico, un lago (forse è proprio quello di Ponchartrain vicino a New Orleans) in una giornata uggiosa, immagini di calma non prive di inquietudine. La musica scorre veloce con melodie che si ricordano senza difficoltà a partire da Troubled Waters, con un riff alla Tom Petty e un bel suono di slide da paludi della Louisiana offerto da Paolo Bonfanti. Carry The Torch è interpretata con voce lievemente arrochita, accompagnata dal mandolino di Gianni Gori e dal piano di David Zollo, mentre l’accattivante ballata elettroacustica Long Nights Awake con un brillante assolo di Ceccanti e il trascinante roots rock di Your Memory Shall Drive Me Home confermano la predilezione per i tempi lenti e medi, ribadita da Charlie Varrick, melanconico duetto con Marialaura Specchia che racconta la storia della rapina a Tres Cruces dell’ex pilota acrobatico interpretato da Walter Matthau in un film di Don Siegel. La bluesata Ponchartrain Shuffle con la pungente resonator di Francesco Piu, la drammatica ballata Morning Came Too Early con il piano in primo piano, un organo avvolgente e un incisivo assolo di chitarra nel finale e la toccante Drive The Crows Away nella quale si inserisce il violino di Chiara Giacobbe confermano le impressioni positive sul disco, che ha un piccolo calo con Crack In The Ground, un rock sparato che ricorda i Clash e sembra un po’ fuori posto come la successiva My Drunken Valentine, traccia notturna waitsiana anche nel modo di cantare, forse un po’ scolastica. Ma la ballata When The Silence Breaks Through, debitrice nella scrittura dello Springsteen più romantico, con un riuscito impasto di clarinetto e piano e il finale spensierato di We’ll Meet Again Someday con l’accompagnamento dei Mojo Filter rimettono le cose a posto e fanno venire voglia di ripartire dall’inizio…un buon segno.
NANDHA BLUES BAND
BLACK STRAWBERRY MAMA
2013 MeatbeatGrooveyard
Max Arrigo, cantante e chitarrista torinese, ha avuto esperienze formative importanti con i southern rockers Voodoo Lake e poi con i Shangai Noodle Factory, prima di trasferirsi ad Aosta dove ha formato un nuovo trio con Paolo Barbero al basso e Giuliano Danieli alla batteria. Si chiamano Nandha Blues Band (nome ispirato a una figura di fattucchiera a metà tra realtà e finzione) e cercano di ripercorrere i gloriosi sentieri di storici power trio come Cream, Cactus o i più recenti Gov’t Mule. Il loro album d’esordio fin dalla veste grafica richiama l’epoca psichedelica; pubblicato qualche mese fa, ha ottenuto riscontri positivi in Italia e all’estero ed è stato recentemente ristampato dalla Grooveyard Records per il mercato americano, dove il trio ha esordito anche dal vivo nelle scorse settimane. Siamo in pieno vintage o retro rock, hard blues aspro e coinvolgente con la pungente chitarra di Max in primo piano. Arrigo nel corso degli anni è migliorato molto anche come cantante e si dimostra all’altezza sia nei ritmi più intensi e trascinanti che nelle ballate profumate di psichedelia. L’opener Grand Combin Love Affair ha un’armonica insinuante che si inserisce in un riff poderoso che ricorda i Mule di Warren Haynes, una delle ispirazioni del musicista. La seconda traccia Cant’t Get Out Offa My Mind dimostra che il trio non è solo poderoso, ma è anche in grado di ammorbidire i toni con un un riff melodico al quale di adatta la voce ed un assolo finale allmaniano. La bluesata Still On My Feet evidenzia le egregie capacità di Max alla slide, mentre Playin’For Peanuts è pungente e trascinante, specialmente nella parte centrale jammata senza strafare e nel brillante assolo finale. Qualche limite compositivo si rileva in Life Is For Learnin’ e nel blues Rollin’Alone che richiamano il passato senza grande originalità, ma si torna su ottimi livelli con le suggestioni elettroacustiche della raffinata Mr America e con l’aspra Nandha’s Slave Blues tra blues del Mississippi e southern rock, nella quale la slide sembra uscire da un vecchio vinile di Johnny Winter. Il disco è chiuso da Back Where I Belong, caratterizzata da un riff sudista e un andamento skynyrdiano e dalla grintosa Black Strawberry Mama, interpretata con voce aspra e inquietante da Arrigo, con un interessante break chitarristico. Con questo interessante esordio mi pare che la Nandha Blues Band possa aggiungersi al panorama sempre più vasto di gruppi rock italiani di livello internazionale.
EVASIO MURARO
SCONTRO TEMPO
2013 Volo Libero
La storia musicale di Evasio Muraro parte dagli anni ottanta, quando è stato uno dei protagonisti della scena alternativa post punk come frontman dei Settore Out. In seguito è stato bassista dei Groovers, prima di alternare l’attività solista alla ricerca delle tradizioni contadine sfociata in un disco di canti di lavoro e nella produzione di due album del Coro delle Mondine di Melegnano. Un impegno politico e sociale ribadito da Festa d’Aprile e Siamo i Ribelli, basati sulle canzoni della Resistenza. Canzoni Per Uomini di Latta (Universal ’09) e O Tutto o l’Amore (Universal ’10) lo hanno riportato sulla strada di un cantautorato originale e atipico, caratterizzato da una particolare attenzione per gli arrangiamenti. Ricerca e qualità ribadite da Scontro Tempo, un progetto ambizioso che comprende un cd al quale è allegato un corposo libretto con le note, i testi (molto curati e interessanti, sia quelli di carattere personale o intimista sia quelli socialmente impegnati) e il surreale racconto Radar di Marco Denti, ispirato alle dieci tracce del disco. Scontro Tempo è stato registrato con i Fans (Forensic And The Navigators) che lo accompagnano anche in concerto e con il trio vocale dei Gobar; in seguito è stato completato e mixato con Chris Eckman, leader dei Walkabouts, che in questi anni ha collaborato con artisti africani di rock desertico come Tamikrest e Dirt Music e che ha prodotto l’album con Michele Anelli e lo stesso Muraro. L’influenza di Eckman è evidente nella scelta di un suono essenziale, senza fronzoli, asciutto e molto personale tra folk acustico, rock e jazz. La ballata rarefatta Venti Volte apre il disco con le tonalità melanconiche della voce di Evasio accompagnata da un arrangiamento minimalista guidato dagli arpeggi della chitarra di Fabio Cerbone, seguita dall’affascinante Infinito Viaggio, nella quale i backing vocals dei Gobar hanno un ruolo essenziale e dall’inquietudine di Scontro Tempo, più recitata che cantata dal cantautore lombardo. Il mid-tempo Giorni e l’aspra Puzzo di Fame ribadiscono l’attenzione per il mondo degli “ultimi”, mentre il testo riflessivo di Il Mondo Dimentica è accompagnato da un delicato tappeto elettroacustico. Il melanconico ricordo di Il Maestro E La Sua Chitarra, non lontano dall’Ivan Graziani più intimista, le dissonanze della già citata Puzzo di Fame e l’atipica love song Lettera Da Spedire Prima O Poi precedono la melodia lieve di Un Grido, sussurrata da Evasio, che chiude un disco non facile che merita un ascolto approfondito.
JIMMY THACKERY & THE DRIVERS Feat. JP SOARS
AS LIVE AS IT GETS
2013 White River Records
Jimmy Thackery è in pista dai primi anni settanta. Per quindici anni è stato il chitarrista dei Nighthawks, una delle migliori band americane di blues, fondata con il cantante e armonicista Mark Wenner. Li ha lasciati nell’87 per una carriera solista che ha prodotto una ventina di dischi con la sua band (The Drivers) o con qualche altro artista (Tom Principato,David Raitt, Tab Benoit, John Mooney, The Cate Brothers). Feel The Heat del ‘11 è il suo lavoro in studio più recente, seguito da questo doppio dal vivo registrato a San Diego nel corso della Legendary Rhythm and Blues Cruise con una formazione allargata che oltre ai Drivers (Mark Bumgarner al basso e George Sheppard alla batteria) comprende gli Hydraulic Horns (Joe McGlohon al tenor sax e Jom Spake al baritone sax) e l’ospite JP Soars, chitarrista blues emergente influenzato anche dal jazz e dall’hard rock. Il disco lascia ampio spazio all’improvvisazione, comprendendo nove brani dei quali quattro superano i dieci minuti, dove le chitarre soliste e i sax si alternano e si contrappongono in lunghi assoli molto piacevoli. Nel primo dischetto spiccano l’opener A Letter To My Girlfriends, cover di Guitar Slim in una versione jazzata e scorrevole, l’intensa ballata tra blues e roots Blind Man In The Night, la ritmata Gangster Of Love che ricorda le atmosfere dei Blues Brothers e il formidabile lento Gypsy Woman di Muddy Waters, quindici minuti di blues sofferto con i fiati in particolare evidenza nella prima parte e le due chitarre nella seconda, con cambi di ritmo, rallentamenti e ripartenze da manuale. Il secondo dischetto è aperto dalla grintosa Feel The Heat seguita dalla swingata The Hustle Is On dal repertorio di T. Bone Walker, improvvisata in scioltezza senza strafare e da Hobart’s Blues, aspro mid-tempo strumentale nel quale trovano spazio i quattro solisti. La chiusura è affidata al tour de force di I’ve Been Down So Long di J.B. Lenoir, quasi venti minuti di blues lento di alta scuola introdotto da un lancinante assolo di Thackery. Jp Soars è protagonista di un intenso assolo dopo la prima strofa, mentre dopo la seconda Jimmy risponde con note più raffinate e quasi sussurrate che crescono lentamente fino quasi ad esplodere con fraseggi sempre più veloci ed intricati, accompagnato discretamente dai fiati in ritmica. Un valido disco dal vivo di blues elettrico da parte di un artista che non è mai stato un genio, ma un mediano del blues solido ed affidabile.
BLACK STAR RIDERS
ALL HELL BREAKS LOOSE
2013 Nuclear Blast
Nell’ottobre dell’anno scorso Scott Gorham annuncia che i Thin Lizzy non pubblicheranno un nuovo disco in studio per rispetto della memoria di Phil Lynott e per avere constatato la scarsa disponibilità dei famigliari ad accettare nuovo materiale con il vecchio nome della band. Anche il cantante Ricky Warwick conferma che si sarebbe sentito imbarazzato a registrare con il vecchio nome. Una mossa saggia perché un conto è suonare dal vivo i classici in un concerto nostalgico che onora Lynott, creatore e leader indiscusso della band, cantante e autore di gran parte del materiale, un altro conto incidere un nuovo disco senza il grande Phil, morto nell’86 dopo lo scioglimento del gruppo. Inoltre la nuova line-up che inizialmente comprendeva il batterista Brian Downey e il tastierista Darren Wharton, entrambi nei vecchi Lizzy, è cambiata con l’entrata del batterista Jimmy De Grasso e la rinuncia alle tastiere. Quindi attualmente abbiamo un quintetto con le chitarre di Gorham (unico ex Thin Lizzy) e Damon Johnson, il basso di Marco Mendoza, la batteria di De Grasso e la voce di Warwick, che ha tratto il nome Black Star Riders da una banda di fuorilegge del film western Tombstone. Entrati in studio con Kevin Shirley i BSR hanno pubblicato un album di hard rock solido e grintoso, ma eccessivamente derivativo. C’è poco da fare, tutto richiama i Thin Lizzy: la voce ha inflessioni e tonalità molto simili a quella di Lynott con una minore profondità, i riff di chitarra, i testi e le atmosfere sono i medesimi, il dual guitar sound tipico della band è ripetuto quasi in ogni brano. Il suono è indurito, specialmente nella parte centrale e la sezione ritmica è decisamente meno brillante e varia rispetto al duo Lynott/Downey, ma alla fine sembra un disco dei Lizzy modernizzato nel suono e più hard. I primi tre brani bastano a capire la scelta dei BSR: la title track ha un riff poderoso con la voce che ricalca quella di Phil, le due chitarre affiancate e una melodia azzeccata, Bound For Glory sembra un rifacimento di The Boys Are Back In Town con i cori, il riff, la linea melodica e le inflessioni vocali prese di peso da un vinile degli anni settanta e Kingdom Of The Lost sarebbe un’eccellente irish folk rock se nel ’79 Lynott e Gary Moore non avessero scritto Black Rose (A Rock Legend). Invece è un’imitazione, ben fatta fin che si vuole, ma sempre un’imitazione. E questo vale più o meno per il resto del materiale, con note di merito per l’epica Before The War e per la conclusiva Blues Ain’t So Bad. Un disco che è stato accolto positivamente dai vecchi fans… in fondo li capisco e non posso dire che sia brutto. Ma credo che la madre di Phil abbia avuto ragione a chiedere al gruppo di cambiare nome.