TINSLEY ELLIS – Devil May Care

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Tinsley Ellis – Devil May Care (Alligator 2022)

Cadenza quasi regolare per le uscite di questo bluesman georgiano accasato presso la blues label per eccellenza, per la quale aveva registrato anche i suoi primi dischi prima di passare alla Capricorn e poi alla Telarc con una carriera discografica di lunghissimo corso iniziata negli anni ottanta.

I suoi dischi sono sempre stati apprezzati anche se negli ultimi anni sembravano un po’ la fotocopia uno dell’altro, gran blues chitarristico ma senza troppa motivazione e impegno. Per questa nuova produzione – realizzata con la produzione di Kevin McKendree, qui anche in veste di tastierista, artefice di parecchie produzioni Alligator – Ellis sembra ricordarsi di essere non solo un bluesman ma anche un sudista, georgiano per di più, lo stato dell’Allman Brothers Band.

Devil May Care, disco molto infernale (oltre al titolo dell’album ci sono altri due brani che nel titolo fanno riferimento al diavolo e agli inferi e a ben vedere anche il disco precedente, Ice Cream In Hell, aveva l’inferno nel titolo) e soprattutto un disco di bel southern rock che oltre che pagar dazio a gente come Allmans e soci riprende altre sonorità tipiche del sud rockettaro.

Il risultato è che tra le mani abbiamo indubbiamente il miglior disco inciso da Ellis negli ultimi anni. Se l’iniziale One Less Reason è una buona composizione guidata dall’incedere dell’organo di McKendree sviluppandosi sull’incalzante ritmo sostenuto da Steve Mackey e Lynn Williams, con la seguente Right Down The Drain è un autentico brano sudista classico, di quelli con i botta e risposta tra una chitarra e l’altra che sfocia nel classico finale a chitarre gemelle, solo che a fare tutto è Ellis da solo. I bollori si placano con la splendida soul ballad Just Like Rain, con il titolare meno impegnato a fare il guitar hero cimentandosi piuttosto come vocalist lasciando posto a McKendree e al suo strumento: a Gregg Allman sarebbe piaciuta molto.

Beat The Devil è un po’ meno sudista, nell’accezione classica del termine, ma funziona bene, grazie anche ai fiati, presenti per altro anche nella composizione precedente. Le atmosfere southern tornano nella lenta Don’t Bury Our Love e in Juju che si snoda tra organo e slide con stacchi mutuati da casa Allman che colpiscono dritto al cuore; atmosfere funky dettate da organo e chitarra in Step Up che vede anche il ritorno della sezione fiati (Jim Hoke e Andrew Carney), poi la lunga One Last Ride ci riporta alla soul ballad e alla voce in stile Gregg Allman, con la slide che ricorda molto Dickey Betts e le sue indimenticabili cavalcate sonore.

Per 28 Days Ellis lascia le origini sudiste lanciandosi in un brano dal sapore molto hendrixiano, con tanto di wah wah, poi per il finale da applausi viene sfoderato di nuovo il rock blues sudista, ma non quello dello stato d’origine, qui Ellis fa un bel tuffo nel Texas blues: Slow Train To Hell (ecco l’inferno che torna) sembra battere la stessa bandiera dei vecchi ZZ Top e della loro Blue Jeans Blues, con grande efficacia, soprattutto nelle parti di chitarra.

Paolo Crazy Carnevale

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