TINSLEY ELLIS – Winning Hand

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TINSLEY ELLIS – Winning Hand (Alligator/IRD 2018)

Strumentazione essenziale, pochi fronzoli, il segreto di questo nuovo disco uscito da pochissimo dalle stamperie di casa Alligator è tutto nel sound compatto e torridamente chitarristico snocciolato da Tinsley Ellis. C’è tutto quello che deve esserci per avere un buon disco di blues elettrico moderno: sezione ritmica solida (Steve Mackey e Lynn Williams), un tappeto di tastiere indovinate ad opera del coproduttore Kevin McKendree e naturalmente la voce e la chitarra del titolare, un bluesman del sud che riesce a fondere la sua origine (è Georgiano di nascita) con il blues torrenziale della “Windy City” dove ha sede la casa discografica, con cui, a fasi alterne, ha un rapporto ormai trentennale.

Ellis, che ha collaborato o diviso il palco con la crema del blues contemporaneo, da Stevie Ray Vaughn a Derek Trucks, inizia questa sua nuova fatica con un solido brano intitolato Sound Of A Broken Man, un incipit da antologia che mette subito le carte in tavola riguardo al contenuto.

Meno interessante la traccia successiva, Nothing But Fine, mentre la lenta e struggente Gamblin’ Man si candida subito come una delle cose più belle del disco. Curiosa e simpatica l’idea di indicare per ogni brano il modello di chitarra usata da Ellis, che nel suo parco a sei corde annovera vari modelli, dalla Gibson Les Paul del 2000 fino alla quasi omonima Deluxe del 1973, passando per una Stratocaster del 1959, una Telecaster del 1996 e altro ancora.

I Got Mine è un altro brano molto riuscito, meno lento del precedente, Hiss The World è invece una sorta di boogie con l’organo di McKendree che imperversa splendidamente mentre Ellis ricama misuratamente interventi lancinanti eseguiti con la Stratocaster del ’59.

Stessa chitarra, ma risultato diverso per Autumn Run, bella composizione dall’incedere lento con spunti vagamente hendrixiani nella prima parte e organo superlativo. La breve Satisfied sembra invece un blues per palati poco raffinati, pianoforte e ritmo in odor di rock’n’roll (come diceva qualcuno “il blues ha avuto un figlio e lo hanno chiamato rock’n’roll”) che non impressiona più di tanto; il disco ripiglia leggermente quota con la lenta Don’t Turn Off The Light (mi ricorda qualcosa di Roy Buchanan ma è funestata da una tastiera fuori luogo) a cui segue l’unica cover del disco, il ripescaggio di una classica composizione del Leon Russell dei tempi d’oro, Dixie Lullaby, qui affrontata con l’uso di una bella serie di interventi della chitarra (la Gibson ES 345 del 1967).

Gran finale con la pirotecnica e lunghissima Saving Grace, rasenta quasi i nove minuti, con Ellis e il gruppo lanciati in una bella galoppata elettrica.

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