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ANNA NALICK – The Blackest Crow

di Paolo Crazy Carnevale

3 dicembre 2020

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Anna Nalick – The Blackest Crow (Chesky Records/IRD 2019)

La cantautrice californiana Anna Nalick è una di quelle voci pop che in qualche modo potremmo considerare erede di quella scuola facente capo a Carole King, la scuola delle canzoni ben confezionate. Ma Anna Nalick non è Carole King e nonostante il grande successo riscosso dal brano guida del suo disco d’esordio, risalente ormai a ben quindici anni fa, la sua carriera si è dipanata tra pochi dischi, ultimo dei quali è questa raccolta di brani altrui uscita sul finire dello scorso anno per la newyorchese Chesky Records, registrata nella chiesa sconsacrata di Brooklyn in cui qualche anno fa, per la stessa label, è stato registrato il ben più interessante disco di John McEuen.

Le note di accompagnamento di questo disco lo annunciano come un disco che aiuterà la Nalick a conquistare il pubblico degli audiofili, e questo probabilmente è il limite di questa artista.

Il pubblico degli audiofili è sempre in cerca di dischi che facciano suonare bene i loro costosissimi impianti, a loro le vibrazioni e le emozioni derivano da quanto il disco suoni bene.

L’anima è però tutta un’altra cosa e questo disco non ne ha: c’è una bella voce, delle belle canzoni (ma questo va a seconda dei gusti), è suonato bene, ma non trasmette emozioni.

La Nalick, accompagnata da un gruppo essenziale composto da Jack Morer (chitarra), Doug Hinrichs (percussioni), Jeff Allen (basso) e Mairi Dorman-Phaneuf (violoncello), si cimenta con una scelta di canzoni di estrazione troppo differente, forse leggermente furba – si sa che l’inserire brani di Dylan nei dischi ne assicura automaticamente l’acquisto da parte degli scabinati collezionisti di qualunque cover del sommo bardo –, forse solamente basata sui gusti personali della Nalick.

La sostanza non cambia, le canzoni non legano e non le lega la comunità d’intenti derivante dai minimali arrangiamenti e dalla voce della cantautrice.

Poco più di mezz’ora di musica, talvolta anche piacevole, ma sempre superflua, saltando dalla Waterloo Sunset dei Kinks alla As Time Goes By di cinematografica memoria (ricordante “Casablanca”? La canzone che il pianista Sam viene pregato di suonare di nuovo), a Rough And Rowdy, la composizione di Jimmie Rodgers a cui Dylan ha recentemente rubato il titolo per il suo ultimo disco.

Il disco mescola poi My Back Pages (le canzoni di Bob cantate da Joan Baez o Judy Collins hanno tutta un’altra consistenza) con gli standard jazz Some Of These Days e That’s All, col Buddy Holly di True Love Ways, con Duke Ellington e con CSN di cui viene proposta una bella versione (ma non confrontabile con l’originale) di Helplessly Hoping.