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TAJ MAHAL & KEB MO’ – TajMo

di Paolo Crazy Carnevale

9 dicembre 2017

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TAJ MAHAL & KEB MO’ – TajMo (Tajmo Records/Concord/Universal 2017)

Un disco bello, non scontato e, soprattutto non scontatamente bello.

Di solito le operazioni di questo tipo, dischi collaborativi in cui due o più artisti dal nome altisonante uniscono le forze, rischiano di essere dei buchi nell’acqua, a volte le collaborazioni si limitano alla presenza, a volte invece è la non presenza a brillare: la storia del rock è piena zeppa di esempi in cotal senso e purtroppo la critica si fa per lo più accecare dall’importanza dei nomi, senza magari cogliere gli argomenti che possono destare perplessità.

Keb Mo’ e Taj Mahal invece il disco in duo l’hanno fatto a tutti gli effetti, e che disco!

Qui si fa prima a dire cosa non piace che cosa piace, perché, per il sottoscritto, di brani poco convincenti ce n’è uno solo – ed è solo una questione di arrangiamento.

Qualcosa è composto a quattro mani dai due consumati bluesmen, qualcosa dal solo Keb Mo’ e qualcos’altro è ripescato tra tradizione e repertori altrui: il lato A si apre subito con stile e collaborazione, Don’t Leave Me Here è una composizione molto convincente in cui i due si alternano alle voci mentre chitarra, fiati e armonica ne disegnano le solide connotazioni blues, She Knows How To Rock Me, è più vicina a suoni tradizionali, le voci dei due funzionano alla perfezione anche qui e l’intreccio tra l’acustica di Taj e la resofonica di Mo’ è pressoché perfetto.

All Around The World è invece il brano che mi convince meno, penso complice il drumming troppo secco e preciso di Chester Thompson, ad esempio, la canzone che segue, più o meno nella stessa ottica, ma con un batterista differente ha tutt’altro impatto, è sempre un brano di Mo’ e s’intitola That’s Who I Am, ci sono i fiati come nel precedente, ma la sostanza è più convincente, le tastiere sono ottime e c’è il mandolino di Colin Linden che calza a pennello.

In Shake Me In Your Arms c’è ospite Joe Walsh che suona la solista, la struttura del brano è più blues che nei due brani precedenti in cui erano evidenti le influenze della cosiddetta world music. A chiudere la prima facciata una breve composizione di John Mayer, cantata in parti uguali dai due titolari coadiuvati da Bonnie Raitt, e tutta sorretta su voci e chitarre acustiche, blues moderno potremmo definirlo, eseguito e presentato con eleganza e sostanza.

Il lato B parte senza perdere colpi, Ain’t Nobody Talkin’ funziona al la perfezione, i suoni sono equilibrati, le chitarre di Mo’ si inseriscono gran bene sul tappeto delle tastiere suonate da Phil Madeira, Divin’ Duck Blues invece è del vecchi Sleepy John Estes, quattro minuti e mezzo di beatitudine acustica, solo Mahal all’acustica e Mo’ alla resofonica, e naturalmente le loro voci, sembra di trovarsi al cospetto di un vecchio disco di Ry Cooder. Con Squeeze Box, si omaggia il songwriting di Pete Townshend, la versione è naturalmente tex mex e zydeco, con largo uso di fisarmoniche, come il titolo vorrebbe, ma nell’introduzione è riconoscibilissimo l’attacco in stile Who, a sorreggere ben il brano ci sono anche le percussioni di Sheila E. mentre all’elettrica c’è di nuovo Joe Walsh e Linden si occupa del mandolino.

Le implicazioni con la world music – che sia Mahal che Mo’ hanno sempre tenuto più che d’occhio – tornano con l’ottima Soul, contagiosa composizione scritta a quattro mani dai titolari, dal ritmo orecchiabile ma non scontato. Taj suona ukulele e banjo; fiati e percussioni sono in bella vista, ma soprattutto si ascolta uno stuolo di vocalisti imprimono al brano quelle atmosfere che rimandano a certe cose del Graceland di Paul Simon.

La conclusione è affidata a Om Sweet Om, una composizione dalle atmosfere vagamente pop in cui troviamo Lee Oskar all’armonica, le elettriche di Walsh e Philip Hughley mentre Mo’ qui si occupa dell’acustica, oltre a cantare con Taj Mahal e l’ospite Lizz Wright.